L’indignazione a breve scadenza: ci stiamo abituando al terrorismo?

RASSEGNAZIONE O CORAGGIO PER UNA CRONACA CHE FA SEMPRE MENO NOTIZIA

vittimePrima Charlie Hebdo, poi la notte del Bataclan, poi il Belgio, Manchester e Barcellona senza dimenticare la Svezia, Berlino, la Turchia, tutto il Medioriente, l’Africa e anche gli Stati Uniti. Dal 2015 a questa parte i notiziari e i giornali hanno riportato periodicamente di attentati terroristici che hanno colpito ogni parte del mondo. Ma se prima l’informazione perdurava per settimane sulle pagine e sullo schermo ora sembra che il fenomeno si stia affievolendo: come se tra tutto quello che succede in giro – tra minacce politiche e fatti di cronaca nera – non ci fosse più molto spazio da dedicare alle bombe o ai tir che travolgono la nostra quotidianità, come se ci stessimo abituando al terrorismo.

Il 7 gennaio 2015, alla notizia dell’attentato nella redazione di Charlie Hebdo, cuore della satira francese, i social network hanno visto le loro home piene di matite spezzate, di ‘Je suis Charlie’ e di Tour Eiffel. I giornali e i notiziari di tutto il mondo trattarono per settimane quello che, dopo l’11 settembre, fu considerato il più grande attentato terroristico all’Occidente. La redazione, nonostante il numero simbolico pubblicato la settimana dopo l’attentato, riprese la sua attività solo un mese dopo i fatti.
Dopo più di due anni di cadenza quasi settimanale di notizie simili, il 17 agosto 2017 viene colpito il centro di Barcellona: la notizia sparisce nel giro di qualche giorno dai giornali mondiali, nelle sere immediatamente successive la movida serale spagnola riprende scatenata come sempre.
Giusto pochi mesi dopo, il 2 ottobre, un altro attentato: questa volta a Las Vegas. La notizia fa impressione subito perché è stata colpita, ancora una volta, una città simbolo del divertimento e la vittima sono i lontani Stati Uniti. Ma questa ondata di scalpore si esaurisce nel giro di qualche giorno sia sui media che nelle nostre menti lasciando spazio a un tiepido sentimento di indifferenza, tale che ormai non ci preoccupiamo neanche più di verificare chi l’abbia fatto e perché. L’abitudine ci fa additare qualsiasi atto terroristico all’Isis e loro, d’altra parte, rivendicano come propria qualsiasi violenza colpisca e faccia fragore. Basterebbe chiedere in giro chi è Stephen Paddock, l’attentatore, per toccare con mano il disinteresse.

Quando si parla della stessa gravità di azioni e di risultati, cosa ci fa reagire in modo diverso? Forse ci stiamo assuefacendo a un contesto generale di violenza, dove diventa pericoloso fare anche le piccole azioni quotidiane. Per noi giovani è strano: non abbiamo vissuto le guerre mondiali né gli anni di piombo, il pericolo della bomba atomica non ci ha quasi scalfito (almeno per ora) e – prima di questi eventi – vivevamo nel nostro mondo idilliaco fatto di pace, bandiere arcobaleno e guerre lontane.
Non è più così: tutto molto forte e incredibilmente vicino. Eppure, a forza di leggere notizie di kamikaze e furgoni che si schiantano sulla folla, la nostra mente si è ‘anestetizzata’ e ora potrebbe apparirci perfino normale.
Un po’ come i nostri nonni abituati ai rimbombi degli aerei tedeschi o come i nostri genitori erano a sentire sui notiziari di gente rapita per questioni politiche, così anche noi ora siamo abituati al rischio che, mentre esercitiamo le nostre libertà, qualcuno possa provare ad impedircelo. E allora adesso ogni volta che c’è un problema rispondiamo, quasi annoiati, ” Bah! Sarà colpa dell’Isis”.

O forse ci stiamo abituando perché stiamo fortificando noi stessi e dopo attimi di paura ci è tornata la voglia di vivere. Così a Manchester si è cantato a squarciagola per un altro concerto, per i bar della Rambla a brindare con i bicchieri di sangria, ci innamoriamo ancora sotto la Tour Eiffel, ci concediamo la satira.
E allora sono confortanti i dati del del turismo che, secondo le statistiche dell’UniCredit, nel 2017 lo vedono in crescita globalmente. E pazienza se i luoghi più colpiti dalle stragi sono quelli più affollati di turisti. E’ la prova che la voglia di vivere la nostra vita e di goderci le nostre libertà è più forte della paura e dell’odio; in fondo non c’è niente di meglio che viaggiare per abbattere questa chiusura di barriere e di mentalità, che è sia nostra che loro, da qualunque lato si guardi.

Tanti articoli sono stati scritti sulla percezione che la nostra società ha del terrorismo, tanti sono i giornalisti che si fanno portavoce di un’umanità indignata, spaventata, stanca di stare chiusa in casa. Ma non è questo il caso. Mi dispiace caro TPI e caro The Economist: questo pezzo, nel suo piccolo, vuole cantare un ‘inno alla gioia’ e alla speranza dedicato ai giovani che prenderanno in mano il mondo e alla forza con cui ogni giorno vivono la vita. Non abbandoneremo il nostro stile di vita perché qualche egocentrico ci dice che si va all’inferno: continueremo a cantare e a divertirci ai concerti, a fare serata il sabato sera e l’aperitivo la domenica, a mettere la minigonna per andare a ballare, a fare sesso prima del matrimonio e a voler visitare il mondo. “Siamo giovani, niente ci ferisce irreparabilmente” scrive John Green nel suo romanzo Cercando Alaska: metteremo dei cerotti su queste ferite – da cui comunque abbiamo imparato – e ci alzeremo più festosi, temerari e ambiziosi di prima.

 

di Laura Storchi

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