Berbero 2.0

QUANDO L' INNOVAZIONE NON è NEMICA DELLA TRADIZIONE, MA IL PREGIUDIZIO Sì

Ait Ben Haddou è un villaggio berbero nel cuore del Marocco, ai piedi dell’ Atlante e alle porte del Sahara. Durante un soggiorno a Marrakech o in altre località limitrofe a questa meta del turismo sempre più appetita dagli europei ed in particolare degli italiani, è possibile organizzarvi una gita con l’ aspettativa di avere un assaggio da turista mordi e fuggi della cultura marocchina rurale, quella che si è conservata solo nei piccoli agglomerati isolati dell’ entroterra, e sicuramente non si rimane delusi. Quello che di certo non ci si immaginerebbe mai è che la propria guida, che magari si presentata con un pittoresco turbante color zafferano e un tradizionale burnus ( una sorta di via di mezzo tra una giacca e un ampio mantello, in lana, con un cappuccio a punta che ricorda un po’ quelli dei ‘mangiamorte’ del film Harry Potter, che non viene indossato e rimane afflosciato lungo la schiena oscillando ad ogni movimento), potrebbe sfoderare un ultimo modello di smartphone, con tanto di collegamento ad internet.

Per raggiungere il sito bisogna prepararsi a cinque ore in viaggio su di un pullmino, quasi sempre da 15 posti, di uno degli innumerevoli tour operator di Marrakech che propongono il giro, attraversando la più grande catena montuosa del Nord Africa prima di arrivare in questo gioiello storico-architettonico di “mattoni” e, per tutto il tempo del tragitto, non si può fare a meno di chiedersi in quale accidenti remoto angolo del globo si stia andando a finire. Lungo la strada- dove con “strada” si intende una doppia corsia precariamente asfaltata, lungo la quale bisogna sperare di non incontrare qualcuno nel senso di marcia opposto, quando si è in curva- si incontrano pochi villaggi e ben contenuti, qualche casetta sparsa nelle valli, dei modesti minareti, dei panorami mozzafiato, ma ben poche tracce di modernità. Tutto questo conferma le aspettative e le fantasticherie dei viaggiatori modello Alpitour di potersi immergere in un’ atmosfera tradizionale, fatta solo di cammelli, scenari di distese rocciose, palme, e uomini del deserto che vivono di coltivazioni di orti di famiglia e allevamento di animali di piccola taglia. Pregustando l’ arrivo si inizia ad invadere, curiosando dai finestrini, la routine di questi individui che ci si fantastica non abbiano un’ automobile, o un computer, o un televisore e che abbiano imparato a leggere e scrivere all’ ombra di un cedro, dall’ anziano del villaggio.

“Ten minutes to Ait Ben Haddou”, annuncia l’ autista. Si inizia a riattivare la muscolatura quasi atrofizzata e a raccogliere le proprie cose per prepararsi alla discesa. Quando si arriva si rimane spiazzati. Sulla destra si trova una collina ricoperta di case in terra rossiccia, che poi si scoprirà essere risalenti all’ XI secolo, che rispecchiano quello che si aveva prospettato e sognato, ma nel punto in cui si viene scaricati dal pulmino, si è circondati da strutture nuovissime, con un’ architettura imitante quella delle costruzioni originali, che ospitano enormi ristoranti più o meno di lusso, pronti ad accogliere tutti i turisti scaricati dalle decine di mezzi parcheggiati ai lati della strada.

Un po’ frastornati, si inizia ad avviarsi dentro uno di questi locali, su invito dell’ autista, che annuncia a tutto il gruppo di eterogenei compagni di viaggio che al termine del pranzo si è attesi dalla guida per visitare il borgo originario. Quando questa –la mia si chiama Mohamed- si palesa ed inizia a parlare, ci si sente un po’ rinfrancati; racconta, per altro in un ottimo inglese, oltre all’ affascinante storia del sito, come si vive li attualmente: spiega di come le famiglie si autoregolino nella distribuzione dell’ acqua per irrigare i campi a democratica rotazione giornaliera, di come lui, per andare a scuola, dovesse fare 30 km in bicicletta ogni giorno, o più avanti trasferirsi nella vicina Qarzazate in un piccolo appartamento con 11 coinquilini e di come molte case nel villaggio vengono ancora costruite con il tradizionale misto di fango e paglia. Guardandosi intorno, adesso che sono state lasciate indietro le locande turistiche, si riconoscono in effetti le sembianze del microcosmo berbero che descrive, intanto faccio domande a Mohamed e mi perdo nella conversazione ammaliata dalle curiosità che snocciola durante la passeggiata.

Si è di nuovo convinti di avercela fatta a toccare con mano la tradizione, di poter tornare a casa e raccontare agli amici di quanto si sia stati fortunati a poter vivere un originale contesto desertico e io sono euforica dal momento che, parlando di altre possibili escursioni da fare nella zona, Mohamed mi dice che si occupa di organizzarle e guidarle. In prospettiva di un prossimo viaggio, gli chiedo come potrei contattarlo, lui prendi il suo I phone e mi mostra il suo blog, mi lascia il suo indirizzo e-mail e il suo numero di cellulare, commentando: “You can even send me a WhatsApp message.”.

A questo punto mi aspetta solo un altro interminabile e poco sicuro viaggio, durante il quale i miei pensieri sono focalizzati sul tentativo di farmi un’ opinione di quanto ho so visto e sentito, piuttosto che sull’ ammirazione delle immagini che sfrecciano fuori dal finestrino. Pensieri al tono indignato delle persone quando dicono che nella biblioteca della loro città non funziona bene il WI-FI, riflessioni sul fatto che solo su pochi bricchi di montagna, in Italia, il cellulare non prende e sullo stupore che involontariamente si manifesta nelle nostre espressioni se qualcuno dice non avere un profilo Facebook tramite cui può essere contattato. Ma questo non significa che gli italiani abbiano messo da parte l’ attenzione, l’ amore e la devozione per le loro tradizioni; guai a chi critica i loro piatti, sponsorizzate a gran voce le visite ai borghi medievali in mattoncini e la domenica significa messa mattutina e pomeriggio dedicato alla serie A.

Allora perché questo non deve valere anche per i berberi che abitano i centri alle porte del deserto? Perché in casa nostra l’ innovazione tecnico-informatica è un valore aggiunto del progresso, mentre nei luoghi esotici è un male, nemico giurato dell’ autenticità?  Forse la causa di questo modo di pensare è un pregiudizio di fondo, che pone la propria cultura su un gradino superiore alle altre, facendola sembrare impossibile da scalfire e deturpare, al contrario delle altre, più deboli. Per questo, l’ unico modo per saper guardare all’ altro in modo obbiettivo e non lasciarsi traviare da supposizioni e luoghi comuni, è dare valore alla sua storia e alle sue tradizioni, capire che semplicemente, così come le nostre processioni in onore del Santo Patrono locale o al quotidiano piatto di spaghetti, per lui hanno un valore irrinunciabile, che non verrà certo spazzato via dall’ account su di un social network.Mohamed

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