Vivere la prigione in un pomeriggio d’inverno

L'ARTE NEL CARCERE E SUL CARCERE APRE LE PORTE AI GIOVANI GRAZIE AL PROGETTO "L'ALTRA CITTÀ"

modern-slavery-act-2015 - Copia

Può l’arte rappresentare una via d’uscita e un contatto col mondo esterno per la popolazione detenuta?

Quanto incide l’esperienza detentiva sulla vita di una persona?

A queste domande ha cercato di rispondere il progetto “L’altra città”, pensato da Giovanni Lamarca, comandante della Polizia penitenziaria di Taranto e presentato alle detenute e ai detenuti lavoratori della casa circondariale “Carmelo Magli” e alle classi quinte del Liceo Ginnasio Statale “Aristosseno” di Taranto. Si è trattato della realizzazione di un laboratorio di storia dell’arte che, attraverso la spiegazione di alcuni principi fondamentali della pratica artistica, ha reso consapevoli i detenuti del valore comunicativo e sociale di un’opera e,allo stesso tempo, ha coinvolto i giovani in una realtà a loro sconosciuta.

I detenuti sono stati impegnati nell’allestimento, anche artistico, delle celle detentive immaginarie dove i ragazzi hanno svolto il loro percorso. Essi hanno infatti partecipato ad un laboratorio artistico che li ha portati a trascorrere un pomeriggio “site specific” presso il primo piano della sezione femminile del carcere di Taranto, attualmente destinata a detenute sottoposte a regime di semilibertà, sfruttando una semisezione con quattro camere detentive non occupate a causa del ridotto numero di presenze. Tale iniziativa è consistita in un percorso sensoriale e interattivo, arricchito dalla presenza di alcuni attori, che ha coinvolto il visitatore in un viaggio mentale capace di catapultarlo in una realtà carceraria trasfigurata, ponendolo nelle vesti di un detenuto virtuale.

Ad accogliere il visitatore un tappeto lungo circa 20 metri, ricoperto dalle fotocopie anonime delle carte d’identità dei parenti dei detenuti, con l’obiettivo di mostrare come l’ingresso in carcere rappresenti il calpestamento della propria dignità e di quella dei propri cari.

Più avanti una cupola di plexiglass interrompe il percorso del visitatore, ponendogli dinanzi una serie di foto delle detenute partecipanti al progetto nell’atto di voler uscire, rendendo così manifesto il desiderio di libertà e contemporaneamente l‘ansia di rendersi visibili affinché il mondo non si dimentichi di loro.

Tuttavia l’inizio vero e proprio dell’immaginario percorso detentivo ha origine con l’immatricolazione. In una stanza adiacente alla semisezione, in un immaginario ufficio registrazione, l’ospite viene immatricolato mediante una fotografia frontale ed una laterale, l’indicazione del proprio nome e cognome e la rilevazione dell’impronta digitale del pollice destro e sinistro. La macchia d’inchiostro diventa così un ricordo indelebile per il visitatore, costretto in questo modo a portare con sé un segno dell’esperienza vissuta come metafora del marchio che molti ex detenuti ricevono dalla società una volta liberi.

“Il momento dell’immatricolazione credo sia il più brutto in assoluto – dice Clara, 18 anni, studentessa del liceo linguistico internazionale di Taranto. In quel momento dici addio alla libertà ed entri in un luogo che, per quanto abbia uno scopo rieducativo, è comunque un luogo di restrizione e costrizione.”

Immediatamente dopo l’immatricolazione, un ex appartenente al Corpo di Polizia penitenziaria in uniforme accoglie il visitatore annunciando la sua prima ubicazione: cella nuovi aggiunti. Questa camera rappresenta il passaggio vero e proprio da uno stato di libertà ad uno di restrizione. Il partecipante, isolato per qualche minuto, trova dinanzi a sé una cella arredata in maniera essenziale, con brande e materassi e una serie di pensieri, frasi, racconti, disegni, messaggi da parte delle detenute. La riproduzione alquanto realistica descrive il primo approccio alla vita da recluso, il più traumatico, quello che risuona nella mente umana come una condanna a morte. Un’unica opera appesa alla parete: “The big eletric chair” di Andy Warhol.

Subito dopo un nuovo passaggio: la cella ordinaria. Questa stanza rappresenta la stabilizzazione del percorso di prigionia. I muri sono interamente tappezzati da estratti di sentenze e ordinanze cautelari alternati a liste della spesa, insieme ad arredi e suppellettili verosimili realizzati dalle detenute. Anche qui trova spazio una sola opera: “Il tribunale dell’inquisizione” di Goya.

Dopo qualche minuto il terzo passaggio, quello alla cella di isolamento. Al visitatore viene fatto vivere uno dei momenti più bui della vita di un detenuto. “Una stanza buia, con scarsissime fonti di luce. Ero solo con me stesso, e mi sembrava di percepire come unico rumore il mio respiro” racconta Marco, anche lui studente liceale.

Caravaggio_-_San_GerolamoLe pareti completamente nere, un’unica branda, le lenzuola di carta, anti impiccagione. Al muro affissi alcuni capolavori della storia dell’arte rappresentanti il memento mori:  il “San Francesco in preghiera” e il “San Girolamo” di Caravaggio, “La Maddalena penitente” di De La Tour, “Il volto della guerra” di Dalì, “L’isola dei morti” di Böcklin.

Infine, ultima tappa del viaggio, la cella dimittendi. Il locale che rappresenta l’ultimo passaggio della vita detentiva, un momento carico di speranze e di propositi. Alla parete un poster di una spiaggia esotica, al soffitto una carta da parati raffigurante cielo e nuvole, accanto un orologio a caratteri rossi ad indicare il lento scorrere dei secondi che separano il detenuto dalla libertà.

E proprio dopo qualche minuto l’agente annuncia il passaggio alla libertà.Arnold_Böcklin_-_Die_Toteninsel_III_(Alte_Nationalgalerie,_Berlin)

“Ogni cella ha le sue caratteristiche, ma il filo conduttore è solo uno: non sei libero, sei costantemente osservato e l’unica libertà che hai sembra essere quella di contare i giorni che mancano al rilascio”, spiega Marco.

Il visitatore, uscito dalla cella, ripercorre a ritroso la sezione, osservando con uno spirito nuovo i numerosi capolavori della storia dell’arte con soggetti tratti da un’ambientazione carceraria.

Giunti al cancello si legge la scritta “ARTE È LIBERTÀ?” e per poter uscire è necessario attraversare una tenda elastica raffigurante un muro, metafora della fatica che ogni detenuto fa per reinserirsi nella società una volta libero.

Il progetto si è posto un triplice obiettivo: l’implementazione di attività culturalmente rilevanti in favore della popolazione detenuta; provocare nei detenuti, attraverso l’apprendimento della storia dell’arte, una riflessione sul proprio percorso di detenzione e più in generale di vita, stimolando anche eventuali talenti e propensioni utili per il percorso di vita successivo alla detenzione; aprire il carcere alla società, per dargli visibilità e alimentare una riflessione sulla condizione dei reclusi.

Attraverso il passaggio in un corridoio di transito, l’immatricolazione in un ufficio registrazione artefatto, l’alternarsi di diverse camere detentive trasformate per simulare il ciclo completo di una detenzione, i giovani visitatori hanno infatti vissuto un’esperienza intensa che li ha portati a riflettere non solo sul carcere ma anche sulle personali prigioni nella vita sociale e affettiva. Lo spiega bene Gabriella, studentessa diciottenne partecipante al progetto: “Vivere un’esperienza del genere è stato davvero interessante. Spesso si parla della realtà detentiva ma solo vivendola si può capire cosa si prova effettivamente dietro le sbarre. Sono stata pervasa da un insieme di emozioni impossibili da controllare perché all’interno delle celle il senso di vuoto ti inghiottisce completamente. Sei lì in silenzio, sola con te stessa e a farti compagnia c’è solo il battito del tuo cuore e il suono dei tuoi pensieri che man mano diventa sempre più assordante.”

di Michela Pagano

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