Beatrice Rana: “Ai giovani come me chiedo il coraggio di abbattere i muri”

25 ANNI E GIA' TRA I 25 MAGGIORI ARTISTI DI MUSICA CLASSICA PER IL TIMES

Beatrice Rana ha 25 anni e suona il pianoforte. Ed è tra i migliori musicisti al mondo. Sorridente, semplice e sicura di sé; è l’unica italiana oltre a Riccardo Muti nella classifica 2017 delle migliori registrazioni di musica classica stilata dal New York Times. Il soprannome leccese della sua famiglia è ‘mpiccia, appicciare il fuoco. E con uno Steinway & Sons il fuoco Beatrice lo accende davvero.

Dal diploma con menzione al conservatorio Nino Rota di Monopoli ha realizzato quello che per tanti musicisti resta il sogno più grande: girare il mondo suonando. A 20 anni. Chissà cosa si prova.
Sul suo sbalorditivo curriculum ci sono rinomati festival internazionali – da Berlino a Vancouver, da New York, a Tokio, ad Abu Dhabi – e orchestre – London Philharmonic, Orchestra di Philadelphia, Filarmonica della Scala, Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia -. A 18 anni ha vinto il primo premio al Concorso Internazionale di Montréal e a 22 ha pubblicato il suo primo album. Poi ha ricevuto un premio dopo l’altro, tra cui nel 2013 la Medaglia d’argento al concorso pianistico internazionale ‘Van Cliburn’ di Fort Worth, e l’apprezzamento della critica – è il New Generation Artist del 2015 per la BBC -, di associazioni concertistiche e direttori d’orchestra di tutto il mondo. Nel 2017 il suo disco dedicato alle ‘Variazioni Goldberg’ di Bach, che ha come precedente esecutore Glenn Gould, ha ottenuto il primo posto nelle classifiche internazionali e le è valso il ‘Gramophone Award’ come Young Artist of the Year. Dal giugno 2017 è anche Cavaliere della Repubblica italiana, titolo solitamente ottenibile non prima dei 35 anni, ma che le è stato conferito ‘per motu proprio’ dal presidente Mattarella.

A Parma aveva suonato nel marzo 2017 alla Casa della Musica. Questa volta, domenica 25 febbraio, ha ammaliato il Teatro Regio con brani di Schumann, Ravel e Stravinsky. La carica emotiva di Beatrice è imponente. Ciò che non esprime con il suono, lo comunica con movimento, respiro e drammaticità del volto: un pathos travolgente. Accompagna lo spettatore in un viaggio nella storia del pianoforte, lo prende per mano e con un ritmo cullante lo trascina con sé, in un vortice di grinta e passione. È una regina, Beatrice, con la grazia leggera di una principessa, ma già consapevole della propria forza. È uno spirito antico, tenace quanto la sua terra, avvolgente come un’aria di Bach. Il suo abbraccio esprime tutta la sicurezza di chi ha infranto tante barriere. E fa sentire un po’ meno soli.

Com’è stato suonare al Teatro Regio?
Non appena ho messo piede in teatro ho pensato che da italiana è bellissimo trovare questi ambienti; siamo fortunati come popolazione perchè abbiamo degli spazi del genere. È stato magnifico non solo per la bellezza architettonica, ma anche acustica, e per un pubblico molto caloroso. Quindi un’esperienza sicuramente positiva.”

Nel concerto c’è stata una parte più complessa e una in cui ti sei sentita più a tuo agio?
“Sto portando questo programma molto in giro ed è difficile commentarlo. È un percorso nella storia del pianoforte, un viaggio per raccontare delle storie, quindi è difficile pensare a una parte più impegnativa. Sicuramente aiuta molto l’attenzione del pubblico, che questa sera è stato davvero molto partecipe. Spesso la gente non lo sa, ma è parte del concerto; quindi suonare per chi ti ascolta, ti prende la mano e viene con te è un grande privilegio. Si sente anche che è un pubblico italiano. Suonando questo programma è molto interessante vedere le reazioni dei vari pubblici perchè ci sono brani più affini a determinate popolazioni e altri meno. Cambia molto anche a seconda della cultura: sicuramente brani come ‘Alborada del gracioso’ di Ravel, o ‘L’uccello di fuoco’ di Stravinsky, o ‘Blumenstück’ di Schumann che hanno un’ispirazione molto canora, quindi sono più vicini alla sensibilità italiana grazie alla tradizione del bel canto.”

Qual è il compositore che preferisci e che più ti ispira?
Bach è sicuramente di riferimento per me: è quello con il quale ho iniziato e che mi ha accompagnata durante gli anni di formazione in conservatorio e poi è stato l’autore al quale sono ritornata con le Goldberg. È sempre stato il punto di partenza e quello di ritorno. Specialmente con il pianoforte, strumento dalla letteratura e dal repertorio emotivamente molto carico, per me tornare a Bach è essere completa, ma anche purificarmi da tutta la drammaticità che si accumula dopo, nel corso della letteratura pianistica. È una sensazione molto strana.”

Hai iniziato a suonare a 4 anni, quando hai capito che poteva essere più di una passione?
“È difficile da dire. Per me è quotidianità: sono cresciuta con il suono del pianoforte a casa e quindi non è che mi piacesse; era, ed è, semplicemente parte della mia vita e non potrei mai vivere senza. Ovviamente c’è stato un momento difficile, perchè la carriera musicale è un po’ contorta: bisogna passare necessariamente da concorsi, una parte molto dura della crescita di un musicista. Ho capito che potevo fare la pianista nella vita dopo la vittoria al concorso di Montréal, che non mi aspettavo di vincere: mi ha dato la certezza di poter campare di questo.”

Era il 2011, avevi 18 anni.
“È stato due settimane prima dell’esame di quinta superiore, una maturità di fuoco. Mi sentivo già fortunata di essere nei trenta selezionati; ero arrivata preparata, però senza aspettative di passare in seconda prova. Aver vinto quel concorso con tanta spensieratezza è stata una fortuna, perché non ho capito subito che cosa stava succedendo nella mia vita. Il vantaggio di questo mondo è che per quanto il successo sia immediato, non giunge mai in ventiquattro ore. Arriva quando le associazioni cominciano a prenotare concerti, con un margine di tempo abbastanza ampio. Quindi dopo il concorso ho avuto quei sei mesi per assestarmi e per potermi preparare alla vita reale.”

Il successo come si affronta?
Vivendo, perché non c’è preparazione. Io ero preparata dal punto di vista pianistico, ma la vita del musicista è molto altro che suonare. Certe volte paradossalmente quando sono in viaggio suonare il pianoforte è il 20% delle cose che bisogna fare. E molto spesso si è da soli: l’aspetto noir di questa professione è la solitudine. Ma allo stesso tempo anche lincontro con tantissime persone e pubblici diversi, tante culture, cibi, lingue differenti. Quindi ho trovato la mia routine in questo cambio quotidiano di vita. È affascinante.”

Non ti chiederei qual è il tuo sogno nel cassetto, piuttosto, ne hai altri da realizzare?
(Ride) “Non lo direi perchè sono leccese, quindi sono scaramantica. Sono già fortunatissima a fare questa vita che, nonostante tutte queste difficoltà pratiche, è straordinaria. Anche oggi a Parma pensavo a quanto sono fortunata a poter considerare un posto del genere il mio ufficio. Mi auguro che la mia vita possa continuare così: condividere e crescere insieme alle persone.”

C’è un modo per avvicinare i giovani alla musica classica?
“Sì c’è. Però le istituzioni non se ne sono accorte. La musica è un’arte, una disciplina, un mestiere manuale, che però non viene considerato alla pari della letteratura o della storia dell’arte studiate a scuola, quindi la cosa fondamentale sarebbe una riforma. Quando un bambino ha possibilità di conoscere, di sapere che c’è anche la musica nell’educazione e soprattutto quando ha gli elementi per valutare se gli piace o meno, possiamo dire di vivere in una società civile. Per me è stato scioccante trasferirmi in Germania per studio: ero l’unica musicista, ma tutti avevano uno strumento in camera ed erano dilettanti. In Italia questa parola ha un’accezione orribile, ma si tratta di gente che fa musica per diletto. La musica non deve necessariamente essere un lavoro, può esserlo ed essere straordinario, ma non per forza. C’è bisogno di educazione per il pubblico. Da parte mia cerco di fare il possibile, però faccio quanto di meglio possa fare una singola persona. Più attenzione da parte delle istituzioni, un po’ di fiducia nei bambini e una vera educazione al mondo dei suoni sarebbero una gran cosa. A me ciò ha dato la possibilità di esprimermi, perchè con le parole non sono mai stata brava, con i colori nemmeno, però con i suoni avevo qualcosa da dire.”

A leggere la tua storia sembri wonder woman, sei un punto di riferimento. Cosa consiglieresti ai nostri coetanei oggi in un mondo in cui niente sembra andare per il verso giusto?
“È anche qui una questione di educazione delle istituzioni perché mi rendo conto che quando vado all’estero la gente della nostra età viene considerata adulta, in grado di poter lavorare, mentre in Italia – mi dispiace dirlo – c’è un certo nonnismo. Quando c’è, il giovane si sfrutta perché non ha esperienza, perché fa casino. Io ho visto che, nonostante tutto, è fondamentale la presenza dei giovani in qualsiasi posto di lavoro, perché non solo è il segno vitale di un paese, ma è fonte di crescita. È ovvio che una persona più grande non ha più la voglia di spaccare che si ha a vent’anni. Il mio consiglio – dai miei pochissimi anni di esperienza – è semplicemente di non spaventarsi all’inizio di questi ostacoli, di questo muro che c’è da parte dei più grandi: è un muro che si può abbattere facilmente e che fa bene anche a loro abbattere. Quindi: coraggio.”

di Duna Viezzoli
Video di Michela Benvegnù e Stefano Tedesco
Foto di Roberto Ricci

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