“Aiuto” da Ghouta, ma 7 anni di morti bastano a normalizzare una guerra

ASPETTA SIRIA, TRA CENT'ANNI QUALCUNO S'INDIGNERA' PER LE TUE VITTIME

“A tutti quelli che possono sentirmi: siamo in pericolo. Per favore aiutateci prima che sia troppo tardi”. Questo l’appello lanciato da Noor e Alaa su Twitter, due bambine della città siriana di Ghouta orientale, nei sobborghi di Damasco. Su uno sfondo di macerie e un sottofondo di bombardamenti, Noor 10 anni e Alaa 8, filmano la loro richiesta di aiuto al mondo, nella speranza che qualcuno dall’altra parte dello schermo le ascolti. Sotto assedio da 5 anni, Ghouta e i suoi 400mila abitanti stanno vivendo dal 18 febbraio un incessante attacco aereo, sferrato dal regime siriano e dalle forze aeree russe contro i ribelli lì barricati che si oppongono al regime di Bashar al Assad. Il bilancio dei morti degli ultimi 16 giorni, secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, è di 739 morti, tra cui 171 bambini. Fallita la risoluzione del Consiglio di sicurezza Onu che aveva stabilito una tregua umanitaria di 30 giorni, il numero di vittime continua a salire. Uccise da bombardamenti o attacchi chimici, come denunciato dalla The Syrian American Medical Society e dall’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani che hanno testimoniato di casi di intossicamento per gas al cloro.

Tra 10 giorni saranno già sette anni, e sono più di 460.000 i morti. Non passa giorno in Siria senza che muoia qualcuno, eppure non abbiamo tempo nei nostri telegiornali per raccontare le storie di 460.000 persone. Se dedicassimo un minuto per ogni persona dovremmo sprecare 7.666 ore solo per loro. Cosa ovviamente infattibile. Allora cosa fare? La scelta che adottano i principali canali di informazione è perlopiù questa: parliamo di Siria solo quando avviene una grande strage. La verità è che una storia di guerra quando non ci sono morti, sangue o bombardamenti non interessa a nessuno. A nessuno interessa sapere che il bambino morto di fame voleva diventare un astronauta da grande, o che il giovane ucciso da un cecchino aveva messo da parte per anni i soldi per comprare un anello alla sua ragazza.

Parlare di guerra vuol dire necessariamente parlare di morte: è qui che noi sbagliamo. Perché crediamo che la guerra sia qualcosa di diverso da noi. Pensiamo che una guerra non abbia storie ordinarie ma solo morti, sangue e sofferenza. È per questo che non ci interessa sentir parlare di Siria, perché togliere alla persona uccisa tutta la sua storia e i suoi sogni la rende diversa, lontana da noi. Se raccontassimo della morte di quella ragazza che aveva studiato anni per diventare ingegnere, allora dovremmo fare un passo in più dentro di noi: riflettere che è (era) una persona e non solo un cadavere. Ammettere che ci somiglia, che potevamo esserci noi al suo posto. Questo pensiero ci distruggerebbe, dunque lo evitiamo, semplicemente.

Il problema principale però è questo: normalizzare la guerra. Se iniziamo a pensare che in guerra è normale morire, allora sentire parlare di persone che muoiono non ci farà più alcun effetto. Questo sarà il punto di non ritorno, la nostra coscienza si sarà abituata a rendere normale qualcosa come la guerra, e leggere ‘in Siria oggi sono morte 50 persone’ sarà come leggere ‘domani nevicherà’; anzi forse le notizie sul meteo ci interessano di più perchè toccano maggiormente la nostra quotidianità. Tacere su 1, 10, 100 morti diventa dunque quasi ‘legittimo’, poiché in guerra è normale morire.

Se è così, quando la morte diventa anormale? Quando muoiono più persone dell’ordinario. Quando a morire sono 600 persone e non 100. Solo allora si può tornare a parlare di Siria. Ma chi ha deciso qual è il numero di morti per definire normale una guerra? E come facciamo a definire normale una guerra? Provate a dirlo a Mohamed, quel bambino morto schiacciato sotto le macerie della sua casa, che non erano morte abbastanza persone dopo di lui affinché il suo nome venisse ricordato. Solo perché magari era il numero 34, e dopo di lui quel giorno non era morto nessun altro.

Spesso per sentirci meno in colpa pensiamo che tutto ciò avvenga solo perché ci siamo abituati all’orrore della guerra. Sbagliato. Perché se sappiamo ancora indignarci di fronte alle storie che testimoniano le guerre e gli olocausti passati, allora vuol dire che non ci siamo ancora abituati, fortunatamente, all’orrore. O meglio, ci siamo abituati a sapere che esiste, ma non lo riteniamo normale. Eppure inorridiamo di fronte a una guerra e tacciamo di fronte a un’altra. Perché questo comportamento contraddittorio? Perché quello che ci è richiesto rispetto alle guerre del passato è solo giudicare e provare solidarietà. Facile se si parla di cose ormai distanti da noi. Quello che ci è richiesto dalle guerre di oggi è agire. E ovviamente questo è molto difficile, praticamente impossibile. Chi siamo noi per fermare una guerra?

Se, come me, vi siete mai chiesti ‘cosa avrei fatto io se avessi vissuto nell’epoca del fascismo?’ la risposta non è lontana. Avremmo fatto quello che stiamo facendo oggi nei confronti di tutte le guerre e le ingiustizie del mondo. Niente. Giungere a questa conclusione però ci farebbe sentire disumani e ci allontanerebbe da noi stessi. Per questo motivo preferiamo ignorare. Usare strategie che rendano normali le guerre e le ingiustizie, in modo tale da non sentirci anormali noi. Così diventiamo giudici parlando delle atrocità degli antenati e non facciamo nulla. Tanto ci sarà chi domani giudicherà il presente che non abbiamo saputo fermare.

Aspetta Siria, tra cent’anni qualcuno parlerà delle tue morti.

 

di Yara Al Zaitr

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