Giovani e alcolizzati: malattia tanto diffusa quanto poco riconosciuta

CAUSE E CONSEGUENZE SECONDO GLI ESPERTI, LE STORIE DI CHI HA DISTRUTTO ANNI DI VITA E RELAZIONI

Prendere un cocktail per stare in compagnia. Lo facciamo tutti. Ma a volte si beve per non pensare, si beve per perdere il controllo e infine si beve perché non se ne può più fare a meno. Quando uno spritz con gli amici non basta più e il bisogno di bere si ripresenta ogni giorno, facendosi sempre più pressante, la dipendenza dall’alcol è ormai arrivata. E questo è un pericolo che molti sottovalutano. È vero, in Italia i consumi giornalieri di alcol stanno diminuendo, ma sono otto milioni e mezzo le persone che eccedono nel bere rischiando di compromettere la propria salute. Questo dicono i dati diffusi dall’Istat nel rapporto del 12 aprile 2017 dal titolo ‘Il consumo di alcol in Italia’, facendo riferimento all’anno 2016. Il rapporto distingue due tipi di comportamenti: il consumo abituale eccedentario e il binge drinking, ovvero l’ ‘abbuffata alcolica’ episodica, entrambi ad alto rischio per il benessere della persona. E fra questi otto milioni e mezzo di consumatori non moderati spiccano i giovani di 18-24 anni, tra cui il 22,9% per quanto riguarda i maschi e il 12,2% per le femmine, e gli adolescenti di 11-17 anni, rispettivamente il 22,9% per i primi e il 17,9 per le seconde.

SOTTOVALUTARE È IL PRIMO PROBLEMA – “Non è una sbronza che porta una persona ad essere un alcolista, neanche due e neanche tre” mettono subito in chiaro Mirzia Bocchia e Sergio Abretti, rispettivamente presidente e vicepresidente dell’Associazione Club Alcolisti in Trattamento (Acat) di Parma, nata nel 1994. Da anni si occupano di problemi alcol-correlati e complessi, che possono anche essere legati al gioco d’azzardo e all’uso di droghe. “L’alcolista lo diventa quando ha bisogno dell’alcol per divertirsi, per iniziare la giornata e per sopravvivere. Lo usa come scopo di vita” aggiungono Bocchia e Abretti, sottolineando quindi come il binge drinking non sia da considerare necessariamente come una dipendenza (anche se di certo non fa bene alla salute). Ma può essere l’inizio: “Il giovane comincia a bere in maniera continua, si anestetizza e beve fin quando non arrivano dei danni e piano piano si arriva a bere tutti i giorni. Quando un ragazzo aspetta il sabato sera solo per ubriacarsi c’è già qualche problema, si deve fare qualche domanda. Si arriva alla dipendenza in modo graduale, come una rana in una pentola – spiegano, utilizzando una metafora efficace – : se la metti nell’acqua fredda lei ci resta e se fai bollire l’acqua lei ci resta comunque, non se ne accorge”. Difficile capire quando si sta cadendo nella dipendenza, dunque. Complice anche il fatto che bere è culturalmente accettato e si tende quindi sottostimare i rischi legati all’alcol. Eppure, “l’alcol è considerato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come droga, una sostanza tossica e psicoattiva equiparabile alle droghe pesanti. Ed è legale, reperibile ovunque” afferma Abretti. Questo porta a un ritardo nel riconoscere l’alcolismo, e non sempre la risposta dei genitori alla dipendenza dei figli è tempestiva. “Se un figlio si droga per il genitore è una cosa eclatante e lo porta a farsi visitare – spiega Bocchia – le droghe sono illegali e da parte dei genitori c’è una risposta più forte. Se un figlio beve ‘e basta’, da parte della famiglia non c’è una reazione così forte, si tende a proteggerlo e ad accettare la cosa perché è la società che la accetta, ci si dice ‘è giovane’…”.

MALATTIA DELLA RELAZIONE – “La psiche e il fisico – spiega Anna Maria Baratta, psicologa psicoterapeuta operante all’Ausl di Parma nel Dipartimento di Salute Mentale e Dipendenze Patologiche – non sono le uniche vittime dell’abuso di alcol. Ne fanno le spese tutti gli organi del nostro corpo e soprattutto, ad essere influenzato in modo assolutamente non trascurabile, è il nostro comportamento. Aggressività, violenza, paura, disonestà, perdita di controllo: la sostanza alcolica influisce su di noi inducendoci a cambiare non solo il nostro modo di vivere, ma anche il nostro modo di essere e di confrontarci con il mondo circostante”. Baratta, come Bocchia e Abretti, pone l’accento sull’aspetto sociale dell’abuso di alcol: “L’alcolismo è una malattia della relazione“. A 14-15 anni si è troppo fragili e influenzabili per dire di no agli amici che ti sollecitano a bere. Il desiderio di far parte di un gruppo può quindi indurre il giovane a consumare alcol in quantità eccessive, come ribadito anche da Abretti: “Nei gruppi di ragazzi si crea questa aggregazione, questa complicità nel bere che è molto grave, porta ad un elevato consumo di alcol nel loro interno e a proteggersi l’uno con l’altro. Nessuno ti dice ‘guarda che stai bevendo troppo’, non si riconoscono i limiti” spiega.

Avevo 16 anni– racconta Antonio, un ragazzo uscito dall’alcolismo qualche anno fa– quando ho preso la mia prima sbronza. Volevo sentirmi come gli altri, come i miei ‘amici’. A prevalere in me era il desiderio di far parte del mio gruppo e di non essere additato come un ‘diverso’. Mi sono accorto che qualcosa non andava – continua il ragazzo- quando alla mattina non mi ricordavo più che cosa avessi fatto la sera prima. Ma non mi importava, il giorno seguente tenevo di nuovo fra le mani la mia ‘fedele’ bottiglia. Avevo perso la fiducia della mia famiglia, fatto gravi errori sul lavoro, sono arrivato addirittura a sfasciare auto, rischiando di fare male a delle persone innocenti, ma anche questo non è bastato. Giorno per giorno mi guardavo allo specchio e mi facevo sempre più schifo, ero inorridito dalla condizione nella quale mi ero ridotto da solo, con le mie stesse mani.”
L’alcol strappò ad Antonio otto anni della sua vita, dai 16 ai 24, anni che di sicuro non possono essere ricordati come i ‘migliori’. La svolta è arrivata piano piano, tramite un percorso lento e graduale e in particolare in virtù dell’aiuto dei volontari dell’associazione Acat. “Ho cominciato a frequentare gli incontri del Club, mi sentivo meglio, avevo necessità di recuperare la mia autostima, che, all’epoca, avevo completamente perduto. Ho chiuso con tutta la mia vita precedente: ragazza, lavoro, amici. Oggi, a 30 anni, posso dire di essere una persona nuova, un ragazzo che guarda alla vita in modo completamente differente. Credo che la cosa più importante da fare con i ragazzi preda dell’alcol – aggiunge il ragazzo – sia far vedere loro i rischi che può causare, non solo a livello di salute, ma soprattutto far leva sulla distruzione dei rapporti umani a cui conduce la dipendenza. Far conoscere loro a cosa può portare non essere più padroni di se stessi e della propria vita.”

Non solo gli amici e il gruppo, però. Altre sono anche le motivazioni che inducono i giovani al consumo di alcol: “A volte, soprattutto i ragazzi, bevono per diventare più disinibiti, per ‘fare colpo’ sulle ragazze” spiega la dottoressa Baratta. Ma questo comportamento si rivela il più delle volte controproducente. “Dopo un primo attimo di euforia, è molto difficile concretizzare l’atto sessuale, avendo la sostanza anche un potere sedativo” aggiunge la psicoterapeuta.

Anche i problemi in famiglia possono portare un giovane a bere in maniera eccessiva, soprattutto quando a farlo sono i genitori. “Quando nella famiglia entra il problema dell’alcol – spiega Abretti – i figli si destabilizzano, ci sono sempre grosse discussioni fra i famigliari e questo porta chiaramente a forti disagi, che a volte si risolvono in modo molto pericoloso”. E poi, l’emulazione. “I figli per superare il problema si nascondono, così come fanno i genitori, dietro l’alcol o le droghe. Si crea una catena fra il genitore e il figlio, una continuità che deve essere assolutamente spezzata”.

Importante è notare come non si rilevino differenze per quanto riguarda i due sessi. “Purtroppo – prosegue Baratta – negli ultimi anni si è registrato un grosso aumento del consumo anche tra le ragazze. E non solo. È possibile anche rintracciare una relazione che collega l’assunzione di alcol all’anoressia: le ragazze sono convinte che la sostanza possa portare ad un dimagrimento e quindi cominciano a bere”. Ma questo non è del tutto vero: inizialmente gli zuccheri presenti all’interno dell’alcol inducono il corpo ad avere meno fame, con la conseguenza di mangiare meno, ma a lungo andare la sostanza causa grossi gonfiori. “Il grande pericolo a cui le donne vanno incontro – spiega la dottoressa – è dato dal fatto che esse dovrebbero prestare molta più attenzione nel consumo di alcol: l’organismo femminile presenta una minor massa corporea rispetto all’uomo e una carenza dell’ormone fondamentale alla metabolizzazione della sostanza, l’enzima epatico alcol deidrogenasi. Motivi per cui il corpo della donna è meno predisposto all’assunzione della sostanza.”

LA VIA D’USCITA – Sono purtroppo tante le persone che cadono nel vortice, un tunnel da cui spesso risalire appare come la più lontana delle mete raggiungibili. Difficile ma non impossibile. Affidarsi alle cure, farsi aiutare, sconfiggere le proprie fragilità, cambiare totalmente il proprio stile di vita. Questi sono gli obiettivi perseguiti dai volontari del Club Acat: “Vengono organizzati incontri una volta alla settimana – racconta Bocchia – di un’ora e mezza circa, diretti da uno psicologo preparato e formato, a cui sono presenti, fra i volontari, psicologi, psicoterapeuti, insegnanti e persone che sono riuscite a superare il problema e si adoperano per aiutare gli altri.  E’ importante, al fine di vedere risultati, che il percorso venga seguito con regolarità.”

Durante questi incontri, prosegue Abretti, “nessuno insegna, nessuno impara, ognuno si occupa di parlare della propria storia, di portare la propria testimonianza. In questo modo si viene a creare una forte empatia fra le persone, nonché una grande condivisione per i vissuti comuni.”

“Tutti noi – racconta la madre di un ragazzo dipendente dall’alcol – e lui soprattutto, viviamo una nuova vita. Una vita migliore. Non abbassiamo la guardia ma sappiamo che uscire dal tunnel della dipendenza non è un’impresa impossibile.” In questo caso a giocare un ruolo fondamentale è stata in primo luogo la famiglia, ma non solo: ad essere di grande aiuto al ragazzo è stato il Club dell’Acat: “Iniziamo – prosegue la donna – a frequentare il Club con il grande aiuto e l’ottimo lavoro di Sergio e Mirzia. Ritorna, così, insieme alla sua compagna e quindi a casa sua insieme alla sua famiglia.”

Fondamentale in questa sede è proprio il ruolo che occupa la famiglia, sia nel processo di prevenzione, sia nell’inizio di un possibile percorso di cura. “Affinché possa avvenire – spiega Abretti – un totale allontanamento dalla dipendenza è fondamentale che il mondo attorno all’alcolista non sia più quello di prima. Per questo vogliamo che agli incontri siano sempre presenti anche le famiglie: sono sempre le prime a vedersi coinvolte, ancora di più se si tratta di persone molto giovani.” L’alcolista tende ad isolarsi, non si cura di avere persone al proprio fianco, lui ha già un compagno: l’alcol. La comunicazione è la prima cosa che viene a mancare. Non c’è più un dialogo, il bere porta unicamente violenza e aggressività. “Durante queste sedute – continua  l’esperto – cerchiamo di mettere a confronto i ragazzi con le famiglie, proviamo a eliminare e ad abbattere i muri che si sono venuti a creare nel tempo.”

“Il Club – racconta un ragazzo frequentante gli incontri- ha significato principalmente due cose: ricostruzione del rapporto con il papà e più in generale recupero completo della famiglia, e imparare ad ascoltare senza giudicare” In ogni caso, il primo passo verso una completa guarigione è ammettere di avere il problema, non nasconderlo, ma affrontarlo e cercare di debellarlo.
“Durante il percorso – continua Bocchia – accade che ci siano delle ricadute, dopo le quali ripartire da zero è sempre più faticoso, l’autostima si annulla. Ma se si confessa subito e si ricomincia da zero, l’obiettivo può sempre essere raggiunto.”

“Io non dico che la gente non deve bere” – conclude Abretti – “però ognuno dovrebbe mettere in discussione almeno un attimo il suo modo di bere. Anche senza arrivare alla dipendenza l’alcol genera comunque dei danni all’organismo“.

di Nicole Bianchi e Chiara Micari

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