Donne, diritti e ’68, Michela Murgia e Mita Medici: “La lotta non è finita”

UN DIALOGO SULL'EMANCIPAZIONE FEMMINILE IERI E OGGI TRA RIVOLUZIONI, CONQUISTATE E OMOLOGAZIONE

1968-2018. Cinquanta sono gli anni che ci separano da quell’epoca, così lontana per molti, più vicina per altri. Un’epoca che ha rappresentato nella nostra storia un punto di non ritorno, un passaggio obbligato verso l’Italia di oggi e la condizione delle donne, reale, rivendicata o scontata che sia. Anni e tematiche raccontati in un dialogo che, venerdì 20 aprile nella Sala Concerti della Casa della Musica, ha preso vita dalle parole di Michela Murgia, autrice sarda de ‘Il mondo deve sapere’, e la ‘ragazza del Piper‘, Mita Medici, durante un incontro condotto dall’assessora alle Pari Opportunità del Comune di Parma Nicoletta Paci. Una conversazione che ha visto come protagoniste due personalità diverse per anni e storia ma che rappresentano attualmente due figure simbolo dell’attivismo femminista. All’interno della rassegna di iniziative per celebrare le donne, l’appuntamento si è proposto di evidenziare “che cosa – riprendendo le parole di Paci – di quel periodo così rivoluzionario è rimasto ancora oggi. Ed è questo il motivo per cui abbiamo voluto mettere a confronto Mita, che in quegli anni ha partecipato in prima persona, e Michela, scrittrice oggi molto famosa che di quel periodo ha potuto ricevere una testimonianza dalla madre.” Un’epoca, quella del ’68, intrisa di un cambiamento che in Italia faticava ad arrivare, di proteste, di voci che all’unisono hanno deciso di farsi finalmente sentire e, infine, un’epoca impossibile da non ricordare, non solo per coloro che erano presenti in prima persona, ma anche per quelli venuti dopo. Ed è proprio all’interno di tale contesto che a farsi strada, fra silenzi e ingiustizie subite, è la parola, coraggiosa ed autorevole come mai prima di allora, di un nuovo pubblico, quello femminile.

DONNE RIVOLUZIONARIE  Partecipazioni, manifestazioni, cortei. In una parola il tanto sentito e ricordato ’68. “Non ero ancora maggiorenne – racconta Mita Medici – quando nel ’68 ho trovato casa. Vengo da una famiglia che non si può considerare tradizionale: i miei erano separati e per l’epoca era piuttosto inusuale. Mio padre è stato un grande educatore, mi ha trasmesso valori che rivestono oggi una  fondamentale importanza: il valore di me stessa, la responsabilità e, non per ultimo, il rispetto per me stessa e per gli altri. Ho trovato casa perché mi sentivo a dieta in un mondo che non riusciva ad evolvere, mentre io mi sentivo già in un’onda di cambiamento, di rivoluzione, volevo realizzare ciò che sognavo di fare.” Aveva 16 anni quando le è stato offerto il suo primo film dal nome ‘Estate’ e ancora non sapeva nulla del mondo e di ciò che sarebbe voluta diventare; per questo rispose ‘no, io non ho tempo di fare un film’. Pronunciare quel ‘no’ fatidico fu forse la sua prima ribellione, in segno di una qualche contestazione che nella sua mente cominciava già a prendere forma. Anche se poi, quel ‘no’ non fu sufficiente. Mita non solo venne coinvolta nel film, ma rivisitò la sceneggiatura introducendo un linguaggio che doveva essere quello di una ragazza sedicenne come lei e da lì venne introdotta, a 360 gradi, nel cinema e nel teatro intraprendendo la sua carriera di attrice e cantante. “Siate realisti e chiedete l’impossibile”: questa una celebre frase tratta dal film, che ancora riecheggia nell’uso comune.

Donna ribelle, diversa, inserita in un mondo e in un paese la cui mentalità era ormai troppo vecchia: sono i tratti evidenziati da Michela Murgia, grandissima narratrice contemporanea, nel racconto che riporta della figura materna. “Mia madre – spiega l’autrice – veniva dalla provincia rurale sarda e, sebbene i cambiamenti nei piccoli paesi tardano sempre ad arrivare, ciò non ha di certo ostacolato la sua battaglia e la sua voglia di lottare. All’età di 18 anni uscì di casa, andò a vivere a Milano dove cominciò a lavorare in proprio. Lì mi concepì. Non solo, prese anche una scelta piuttosto anomala per l’epoca: decise di fare la ragazza-madre e di tornare al suo paese di origine incinta. Io rappresento, per così dire, un pezzo della sua rivoluzione.” Nata nel 1972, quattro anni dopo il ’68, la generazione del ‘troppo tardi per fare la rivoluzione’ ma troppo indietro rispetto ai cosiddetti ‘nativi digitali’, Murgia, ripercorrendo tramite la storia della madre le conquiste raggiunte, racconta del cambiamento che ha investito il cosiddetto ‘modello di donna‘. “Alle donne della generazione di mia nonna – ricorda – non era concesso truccarsi. Solo le prostitute, all’epoca, si truccavano. Quando mia mamma si permise di mettersi la matita nera sugli occhi, la reazione della sua famiglia fu immediata. Ma a lei non interessava ciò che pensava la gente. Questo per dire che per poter operare un cambiamento decisivo è necessario ci sia una migrazione non solo fisica ma anche e soprattutto culturale.”

COSA E’ CAMBIATO OGGI?  Scendere nelle piazze e manifestare. Se prima erano episodi piuttosto ricorrenti, oggi non è più così. Oggi a vincere è l’omologazione. “Mi sembra tutto uniformato più che formato – afferma Mita – invece che progredire stiamo facendo passi indietro“. Ad essere cambiato è il sistema, il modo di pensare, il modo di intervenire e anche il modo di comunicare. “Non dobbiamo dimenticare – sottolinea Murgia – che di grande rivoluzione ce n’è stata un’altra: l’avvento di internet. Oggi non esistono più piazze fisiche ma piazze virtuali. Gli spazi pubblici in cui le persone erano solite confrontarsi e partecipare sono venuti a mancare, al loro posto si sono sostituiti i salotti buoni delle città, le piazze sono diventate il luogo del commercio, in cui la gente va solo se vestita bene.” E’, infatti, nelle periferie che oggi si sviluppa e prende vita la protesta, il disagio dei meno abbienti, il malessere di chi non si accontenta delle conquiste raggiunte perché di fatto, riprendendo le parole di Murgia, “non esistono diritti, esistono solo i diritti che siamo chiamati a difendere.” Diritti, però, che oggi sono dati per scontato e, soprattutto da parte delle ragazzine, vengono creduti immutabili. Si tende a pensare che tutto sia ormai già stato raggiunto, che non ci sia più nulla da fare. Ma non è così. “La lotta non è finita, siamo chiamati a combattere la stessa battaglia, seppur con strumenti diversi”. E allora dove sta l’errore? Di chi è la colpa? Ci troviamo oggi nell’era digitale, quella delle grandi trasformazioni tecnologiche, l’epoca in cui però a farne le spese sono state le relazioni sociali e la comunicazione. “Il problema di oggi – continua Michela – è che ci troviamo davanti ad un deficit narrativo. Nessuna storia passa se non c’è nessuno che la racconta. La maggior parte delle ragazze di oggi, ad esempio, non sa che fino al 1981 in Italia non era possibile per le donne diventare giudici perché c’era la credenza che queste, a causa del ciclo mestruale, non fossero affidabili nel giudizio. E ancora oggi nel mondo del lavoro ci sono tantissime differenze fra i due sessi: spesso l’operato delle donne viene sottovalutato e queste, pur a parità di mansione, hanno una retribuzione minore rispetto agli uomini. Chiaramente non è sempre così, ma sono realtà ancora non del tutto debellate.” Quando le donne ribadiscono che ancora la parità dei sessi non è stata raggiunta, non fanno che dichiarare un’assoluta verità: “bisognerebbe – esorta Murgia- combattere per quei diritti che ancora, dopo 50 anni, non siamo riuscite ad ottenere.”

Risvegliare il coraggio, la speranza nei giovani e soprattutto parlare con loro: questo il compito degli adulti. “Mi piace molto dialogare con i ragazzi – afferma Mita – per loro è necessario che gli vengano poste delle domande. Solo così pensano, si mettono in discussione, si chiedono chi sono, perché, che cosa vogliono. C’è carenza di sogni e i giovani ne hanno bisogno più che mai. Porsi delle mete utopiche, probabilmente irraggiungibili, è importante per realizzarsi, per crescere, per fare dei passi in avanti.” E si tratta di un dialogo che dovrebbe cominciare dalla famiglia e proseguire nella scuola. Una conversazione che possa risvegliare le coscienze e portare alla rinascita di una comunicazione ‘esistenziale’, per far emergere i sogni di ognuno, con l’obiettivo di far rifiorire speranze e motivi sempre nuovi per combattere.

RUOLI DI POTERE UOMO-DONNA – “Possiamo parlare oggi – domanda Paci- di un mondo più per le donne?” Si, possiamo, è la risposta. Nonostante “vi siano ancora diversi pregiudizi nei confronti dell’universo femminile – interviene Murgia- sono stati fatti grandi passi in avanti. Se oggi per me e mia figlia è possibile essere femministe, lo dobbiamo alle donne che hanno combattuto nel ’68.” Mentre prima una donna era chiamata a conformarsi ad un determinato modello, oggi possiamo dire di essere libere da questi schemi che ci vogliono succubi del potere maschile. “Io per scelta – spiega Mita – non ho mai voluto sposarmi. Non volevo che qualcuno potesse dire ‘Lei è MIA moglie’ e, a causa di questo, molte storie sono finite. La contestazione sicuramente ha giocato un ruolo fondamentale per me: vedendo la mia generazione, per principio, ho voluto essere diversa, non volevo ‘dipendere’ da nessun uomo. Mi sono perfino rifiutata di firmare un contratto che mi vedeva impegnata per dieci anni con lo stesso produttore.”

A rompere questo parziale successo, piaga dei nostri giorni continua ad essere un fenomeno che invece che essere debellato, sembra in continuo aumento: il femminicidio. Ma cosa intendiamo con questa parola? “Quella del femminicidio – sottolinea Murgia – è, da sempre, una delle battaglie che mi sta più a cuore. Prima nemmeno la parola ci era concesso utilizzare. Il termine non indica la morte di una donna, ma ci dice il perché sia morta. L’espressione ‘femminicidio’ si utilizza quando la morte di una persona di genere femminile avviene all’interno di un rapporto di potere uomo-donna, solitamente in una relazione in cui questa sta cercando di uscire dal ruolo e l’uomo non è d’accordo.” L’uso della violenza sulla donna, talvolta riflesso di una tendenza ancestrale del maschio dominante, si rispecchia però anche in forme comuni della lingua sui cui sarebbe bene riflettere. “Spesso – sottolinea Murgia – definiamo l’uomo un cacciatore, senza renderci conto di cosa significhi una cosa di questo tipo. Il cacciatore insegue la preda per ucciderla. Noi utilizziamo un’immagine di morte per definire il meccanismo della seduzione.” Fintanto che nella società si continuerà a sottovalutare questo e gli accaduti, a non fare nulla per impedire che una donna possa essere oggetto di abusi, di violenze e di giochi di potere che la vogliono inferiore rispetto al genere maschile, non possiamo sorprenderci che tutto continui a rimanere eguale e costante. Occorre ricominciare dal basso, dalle famiglie, dalla scuola, mettere in atto un cambio di prospettiva: abolire il pregiudizio secondo cui ‘i maschi devono fare i maschi e le femmine devono fare le femmine’. “Si tratta – aggiunge Mita – di una mentalità secolare che va cambiata assolutamente. Dobbiamo smettere di identificare la donna all’interno di un ruolo prefissato e di giustificare tutto ciò che viene fatto a discapito del genere femminile”.

 

di Nicole Bianchi 

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