Adriana e Giovanni: l’incontro tra due vite spezzate dal caso Moro

DOPO QUARANT'ANNI L'INCONTRO TRA LA TERRORISTA E IL FIGLIO DELL'AGENTE UCCISO

Due storie, due destini incrociati. Da un lato Adriana Faranda e dall’altro Giovanni Ricci. Due persone unite dalla mattina più cupa della nostra storia repubblicana. Il 16 marzo 1978, il gruppo di fuoco delle Brigate Rosse, tra cui la Faranda, blocca la Fiat 130, dove sedeva il leader Dc, e l’Alfetta con a bordo i cinque uomini di scorta. I banditi crivellano di colpi gli agenti e rapiscono Aldo Moro. Il giorno seguente Giovanni Ricci, figlio di uno degli agenti uccisi, vedrà la foto di suo padre sulla prima pagina di Repubblica.

Due vite spezzate che dopo quarant’anni si ricongiungono.

“La prima pagina di Repubblica del 17 marzo 1978 è stata la foto della mia adolescenza”, confessa Giovanni Ricci durante l’evento organizzato al salone ‘Trentin’ della Camera del Lavoro di Parma dalla CGIL giovedì scorso. Un’occasione per superare la stagione degli anni di piombo attraverso un dibattito pubblico e non solo nelle aule di giustizia. Ricci, dopo l’agguato di Via Fani, ha covato solo rabbia e vendetta.

“Ho studiato sociologia e poi criminologia poiché volevo capire il perché di tutto quello che era successo” ribadisce il figlio dell’agente assassinato Domenico Ricci. Una spinta a cercare delle risposte che la giustizia tradizionale non poteva dare. Quattro processi e due commissioni d’inchieste parlamentari per non ottenere nulla. Aumentava solo il desiderio di farsi giustizia da soli.

Giovanni Ricci non sa che la propria vita è strettamente legata ad Adriana Faranda, all’epoca dei fatti una ventottenne studentessa di Lettere che aveva scelto di mollare la propria vita da ‘borghese’ per aderire alla lotta armata portata avanti prima da alcuni gruppi autonomi e poi dalle Brigate Rosse. “Avevo scoperto un mondo in rivolta per i propri diritti; un’epoca di grandi rivoluzioni di cui mi sentivo parte” afferma l’ex membro del direttivo delle Br a margine dell’incontro. Il passo decisivo che spinse Adriana ad abbracciare il terrorismo rosso è la strage di Piazza della Loggia del 1974: “E’ stata una strage politica, una dichiarazione di guerra; pensai che la democrazia era una strada perdente”.

Inizierà così una serie di omicidi, gambizzazioni e atti di violenza da far accapponare la pelle.

La rivoluzione, che doveva pulire il mondo, produrrà però l’effetto opposto. “Dopo il rapimento Moro – prosegue la Faranda – lo Stato si era ricompattato e persino le lotte per i diritti si erano bloccate in nome dell’unità nazionale”. In breve tempo, i brigatisti, uno ad uno, vennero arrestati. Adriana Faranda è una delle prime ‘combattenti’ a finire dietro le sbarre. “Il carcere fu una liberazione poiché potei recuperare il rapporto con mia mamma e soprattutto con mia figlia”. Adriana o ‘Alexandra’, com’era il suo nome in codice nelle Br, uscirà in regime di libertà condizionale nel 1994.

Ed è a pena espiata che inizia il percorso riparativo della ex brigatista con il figlio dell’agente Domenico Ricci.

“La fine della pena non può coincidere con la fine della storia” spiega Giovanni. È Agnese Moro ad inserirlo nel gruppo di vittime del terrorismo che, grazie all’aiuto di mediatori, incontrano ex brigatisti. Tra questi c’è anche la Faranda coinvolta grazie a padre Guido Bertagna. “Ho incontrato queste persone per la prima volta nel 2012 e – prosegue Giovanni – ho scoperto di aver incontrato tre persone che si erano assunte pienamente le loro responsabilità”. Le domande a cui la magistratura e la politica non hanno mai saputo dare una risposta, potevano finalmente essere poste. “Nei processi – completa la Faranda – percepisci come un nemico gli avvocati delle vittime. Nel gruppo, per la prima volta, ci siamo riconosciuti come essere umani”.
Dopo gli incontri – ammette Giovanni Ricci – ho smesso di guardare mio padre come il poliziotto ucciso il 16 marzo 1978 e ho scoperto veramente chi era”.

Aldo Moro e alle sue spalle a sinistra l’agente Domenico Ricci

Non un eroe o una delle “teste di cuoio di Cossiga” ma una persona che amava e sapeva fare il proprio lavoro.

Secondo Ricci, in Italia servirebbe una commissione per la pacificazione come avvenne in Sudafrica poiché sarebbe l’unico modo per formare una delle tante cose che nel nostro paese ancora mancano: una coscienza collettiva in merito alle stragi. “Preferiamo sbattere la polvere sotto il tappeto piuttosto che affrontare quell’epoca”, conclude lo stesso figlio dell’agente.

Cosa è rimasto quindi di quella tragica mattina di marzo?

“Un’angoscia tremenda. In particolare la sensazione di stare facendo qualcosa che avrebbe condizionato per sempre la vita di tutto il Paese – risponde Adriana al termine dell’incontro – quando agivamo dovevamo rimuovere ‘l’aspetto umano’ perché in quel momento l’etica divideva il mondo in due: noi e gli altri”.

Il caso Moro, però, è diventato anche il simbolo dei misteri e degli spettri che si aggiravano in Italia durante gli anni di piombo: P2, servizi segreti americani e sovietici, il Vaticano e il ruolo giocato dalla criminalità organizzata, in particolare dalla banda della Magliana. In merito a ciò la Faranda ha seccamente smentito: “Noi avevamo il sacro terrore di avere contatti con la malavita perché loro ti vendono per nulla, c’era una gran diffidenza verso chi non aveva una radice marxista. I nostri unici contatti erano con gli Autonomi, i quali avevano un canale diretto con il Partito Socialista per arrivare ad intavolare una trattativa”. Tanti, forse troppi, sono i dubbi e i misteri che rimangono irrisolti in merito a quel giorno. Le Brigate Rosse, come sostiene Giovanni Ricci, hanno raccontato l’80% della verità; resta in sospeso un sostanzioso 20% che potrebbe essere colmato dalle istituzioni. “Prima di passare a miglior vita – conclude Ricci – mi piacerebbe che si cominciasse ad intravedere quel 5-10%  di queste verità che mancano“.

di Mattia Fossati

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