Tra i banchi con gli alunni rom: prospettive di intercultura a scuola

TRA DIVERSITA' E ACCOGLIENZA, CHE RUOLO GIOCA IL MODELLO EDUCATIVO? L'ESPERIENZA DELL'ANTROPOLOGA MARA BENADUSI

Trasformazione, diversità, incontro con l’altro, shock culturale: non si tratta più solo di parole ma di realtà che oggi non è possibile ignorare. Ci troviamo inseriti in quella che il sociologo Edgar Morin definisce una società-mondo, priva di barriere e di confini, in cui in ogni momento e in ogni luogo, nel qui e ora, siamo in relazione con tante e diverse creature, nonché culture. Cambiano i modi di pensare, di sentire, di valutare. Ma come comportarsi di fronte ad una società che sembra andare molto più veloce di noi? E soprattutto, che ruolo gioca l’educazione all’interno di questa nuova dimensione globale e interculturale? A cercare di dare una risposta a questi interrogativi è stato l’incontro di giovedì 17 maggio presso l’aula B del polo didattico di via del Prato a Parma dal titolo ‘Culture bambine a scuola. Prospettive antropologiche sull’educazione’, nell’ambito della rassegna ‘Cosa dicono oggi gli antropologi?’. L’iniziativa, coordinata da Martina Giuffrè, docente di antropologia culturale all’Università di Parma, e dal direttore del museo Ettore Guatelli Mario Turci, è promossa dall’assessorato alla cultura del Comune di Parma, dalla fondazione Museo Ettore Guatelli e dalla fondazione Monteparma in collaborazione con il Capas – Centro per le Attività e le Professioni delle Arti e dello Spettacolo dell’Università di Parma e il Teatro delle Briciole. A guidare l’incontro, dopo l’introduzione del professor Paolo Calidoni, è stata Mara Benadusi, docente all’Università di Catania ed esperta di antropologia applicata, assieme alla quale è intervenuta Ada Cigala, ricercatrice in psicologia dello sviluppo e dell’educazione.

GUARDARE DA PROSPETTIVE DIFFERENTI-  Osservare: uno degli strumenti principali a cui fanno ricorso gli antropologi. Ma c’è modo e modo per guardare, così come c’è modo e modo per avvicinarsi alle persone. Un’importante verità. Troppo spesso, nel quotidiano in cui siamo chiamati a vivere tutti i giorni, ci dimentichiamo chi siamo veramente. Si, perché prima di rivestire il ruolo di studenti, insegnanti, impiegati, giornalisti, siamo esseri umani, persone che si portano dietro una storia da raccontare, una cultura e una tradizione da tenere in vita. E allora, prima di additare come ‘diversi‘ o peggio ancora come ‘individui inferiori‘ soggetti che come noi condividono la stessa identica condizione di ‘essere umano’, dovremmo imparare a riflettere e soprattutto a guardare con occhi diversi, accorgendoci di come può cambiare la nostra percezione. Questo uno dei tanti temi che l’antropologia si propone di indagare: mostrare una dimensione umana, soprattutto nel momento in cui si fa riferimento ad un contesto come quello educativo che dovrebbe saper unire anziché dividere.”Oggi ci interroghiamo – spiega Calidoni – su come si raffigurino l’infanzia e le diverse culture bambine che convivono in classe e su come queste immagini influiscano sulle dinamiche di accoglienza. Bulli, vittime, bes, disabili, rom, extracomunitari: sono le categorie con cui vengono indicati abitualmente Giovanni, Abdul, Gloria, Andrea nella quotidianità e nei documenti ufficiali. Sono, invece, le Brave maestre a chiamarli con i lori rispettivi nomi senza denotarli come diversi o portatori di handicap.” Per poter, infatti, comprendere l’insieme di tutte queste dinamiche “è necessario – continua Calidoni – un habitus, un sapere adottare prospettive diverse, un sapere fare che non si affina mai una volta per tutte”.

COME SI COMPORTA LA SCUOLA – A fare ricerca sul tema è Mara Benadusi, che racconta della sua esperienza all’interno di una scuola di Roma in cui erano presenti bambini provenienti da un campo rom. “Non mi interessava focalizzare la mia attenzione sui bambini di origine straniera in quanto tali; il mio interesse era studiare la cultura dell’intercultura: come la scuola si attrezzava per trasformare in qualcosa di concreto un modello educativo che in quegli anni circolava e sul quale si facevano dei ragionamenti oltre a informare le politiche scolastiche. Quali meccanismi si attivavano nella classe? com’era vissuta l’intercultura?” I bambini del campo rom “portavano a scuola – continua la docente – una modalità di occupare lo spazio, una forma di discorso, una tipologia di relazione che metteva profondamente in discussione il senso di appartenenza degli insegnanti e anche dei bambini e molto spesso suscitava una forma di resistenza da parte delle famiglie.” Erano gli stessi docenti a nutrire e ad avere idee diverse su questi alunni. Molti si sentivano insegnanti di serie B, altri non trovavano alcun motivo per insegnare a dei soggetti che non avevano chiaro il valore proprio della scuola, altri ancora non sapevano quale fosse il confine da stabilire fra ciò che accadeva all’interno delle mura scolastiche e ciò che c’era al di fuori. Farsi carico delle storie di ognuno o semplicemente svolgere il proprio mestiere senza curarsi di chi si ha davanti? Questo uno dei tanti dilemmi. A complicare ancora il quadro emergevano chiaramente altre problematiche: i genitori spesso contrari anche solo a far sedere un bambino di un’altra nazionalità vicino al proprio figlio o semplicemente le difficoltà connesse a relazionarsi con soggetti non abituati ad un ambiente così rigoroso. “Il saper fare dello scolaro – racconta l’antropologa – era in questo contesto governato da una serie di narrative retoriche, ma anche impliciti culturali che poi, al di là di quello che le insegnanti o la scuola avevano l’ambizione di fare, funzionavano nel momento in cui loro diventavano dei soggetti in interazione, ovvero quando smettevano di ricoprire un ruolo, smettevano di essere dei soggetti educanti che si rappresentavano all’esterno e dovevano svolgere il loro lavoro nella quotidianità.”

COSA ACCADEVA TRA I BANCHI? – “Il mio compito – spiega l’antropologa – era da un lato ricostruire la dimensione incorporata dell’accoglienza nelle pratiche educative seguendo il lavoro quotidiano e le visioni pedagogiche degli insegnanti e dall’altra cercare di passare dalla cattedra ai banchi analizzando qual era la prospettiva che avevano i docenti stessi. Continuamente mi spostavo e, se ce n’era la possibilità, cercavo di osservare lo sguardo della classe dai banchi alla cattedra e viceversa, proprio perché non volevo che il mio lavoro fosse tutto incentrato sulle maestre. E questo mi ha aperto una serie di spazi di comprensione molto importanti, ovvero qual era lo sguardo degli adulti, che visioni avevano dei bambini e come queste influenzavano le pratiche scolastiche.” Spiccava la concezione di chi si raffigurava i bambini unicamente come delle spugne, contenitori vuoti da riempire senza nessuna capacità di discriminazione, denominati “i figli di“. Chi li considerava, invece, riprendendo un termine coniato dall’antropologo Levi Strauss, dei ‘bricoler‘: soggetti in grado di rielaborare gli stimoli ricevuti attribuendo a questi una nuova connotazione. Altri ancora li ritenevano degli ‘underground‘: bambini che costituivano un mondo a parte rispetto agli adulti, muri impenetrabili tanto da mettere in discussione il “sapere fare” degli insegnanti. “In realtà – spiega Benadusi – non era vero che i bambini non erano in grado di distinguere, sapevano perfettamente riconoscere le differenze fra loro e altri e questo spesso diventava oggetto di discriminazione. Il più delle volte, però, accadeva nell’ambito del gioco, come per esempio con l’insulto ritualizzato, utilizzato non per offendere ma per rompere le categorie.” Altre volte si ricorreva agli insulti anche per ferire la persona che si aveva davanti pronunciando frasi come “da grande diventerai una rom“, generando un non-sense nella vittima già appartenente al gruppo denigrato. E ad avvalersi di questi insulti, come racconta la ricercatrice, “sebbene alle volte  inconsapevolmente, erano anche i docenti che prendevano da esempio un alunno rom al fine di umiliare la classe: vergognatevi, oggi è lei (la bambina rom, ndr) la più brava della classe“.

A venire a galla dalle parole dell’antropologa Benadusi è un altro aspetto da non sottovalutare: la sottile differenza fra un buonismo ostentato e la profondità di certe concezioni, alle volte molto profonde. La violenza sottesa dei docenti sui bambini, un nuovo modello educativo che si vuole esporre ma che spesso si fatica a portare avanti e adaccettare: queste le complesse dinamiche intrinseche nell’interculturalità. Un ‘luogo‘ che molti faticano ad abitare, per di più adulti condizionati da pregiudizi troppo spesso infondati, ma che, per fortuna, in tanti casi nei bambini non sono ancora attecchiti. Per loro spesso il colore della pelle non è rilevante. “Invitare i bambini del campo rom a giocare con il pallone era uno dei più grandi sogni dei bambini, a testimonianza del fatto che essi volevano sottolineare ciò che li accomunava e non ciò che li diversificava.”

 

di Nicole Bianchi 

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