Banca dati del Dna: nuova frontiera del diritto penale

PRO E CONTRO: DALLA GIUSTIZIA GENETICA ALLA PROFILAZIONE DI MASSA A SCOPI COMMERCIALI

Lunedì 10 settembre 1984. Sir Alec Jeffreys, solo nel suo laboratorio di Leicester, scopre il Dna fingerprints, meglio noto come ‘impronta digitale’ genetica. Nello stesso anno Kirk Bloodsworth viene imprigionato per stupro e omicidio di minore. L’imputato si dichiara innocente, ma nulla può provarlo. A parte il suo Dna, che risulta assente sulla scena del crimine. Dopo nove anni di ingiusta galera, Bloodsworth viene rilasciato con la completa caduta delle accuse.
Questa tipologia di caso è ormai una consuetudine per il diritto penale, come per le nostre serie serie tv, Ncis prima tra tutte. Ma ciò non sarebbe possibile senza la raccolta e la conservazione di milioni di campioni di Dna in apposite banche dati che, a partire dall’anno scorso, sono approdate anche sul suolo italiano. Proprio a questo argomento è stato dedicato un incontro, lo scorso 5 ottobre a Parma, dal titolo ‘Giustizia genetica- la Banca Dati italiana del Dna‘.  

UN PROGETTO EUROPEO DECENNALE – Nonostante l’istituto sia stato reso operativo solo nel 2017, la sua storia ha più di dieci anni. Nel 2005, infatti, l’Italia firma il Trattato di Prüm insieme a Austria, Belgio, Francia, Germania, Lussemburgo, Spagna e Paesi Bassi. Il documento rientra negli accordi di Schengen diretti a rafforzare la cooperazione internazionale nella lotta al terrorismo, all’immigrazione clandestina e alla criminalità organizzata. Tra le iniziative c’è l’idea finale di creare un database di dati del Dna europeo. Il progetto, quindi, ha radici molto lontane che risentono non tanto dell’attuale emergenza migranti quanto dell’attacco terroristico dell’11 settembre. Nel 2009 il trattato viene ratificato dall’Italia. A cosa sono dovuti quindi questi dieci anni di attesa?

giustizia genetica

Il Rettore dell’Università di Parma, Paolo Andrei, il secondo da destra, si appresta a introdurre il convegno.

IL FUNZIONAMENTO – La legge n. 85/2009 stabilisce nel dettaglio parametri e protocolli specifici che il nostro Paese ha dovuto attuare per rendere attivo il servizio di raccolta e conservazione dei dati. La banca dati genetica agisce come un database in cui vengono custoditi segmenti di genoma sequenziato, raccolti dalla polizia scientifica nel corso delle varie indagini sulle scene del crimine. Lo scopo è quello di identificare con maggior facilità i colpevoli di reato, l’identità di persone scomparse o cadaveri. Vale la pena ricordare che, al fine di garantire la tutela della privacy dei soggetti coinvolti, la banca dati archivia i campioni di Dna in forma totalmente anonima tramite codici. Le autorità non forniscono quindi alla banca informazioni di tipo anagrafico. “Nel caso italiano la garanzia è stata massima – ha spiegato il direttore della banca Renato Biondo, durante il convegno – è la prima volta in assoluto in cui è stato separato il dato anagrafico da quello genetico”.
In sostanza, il data base confronta dati ‘al buio’ attraverso dei semplici ‘token’ e solo nel momento in cui viene interpellata dalle autorità giudiziarie. L’acquisizione del campione biologico di Dna direttamente dagli individui riguarda i soggetti indicati nell’art. 9 della legge 85/2009:

giustizia genetica

  1. Soggetti in custodia cautelare
  2. Soggetti detenuti o internati a seguito di una sentenza irrevocabile per delitto non colposo
  3. Soggetti arrestati in fragranza di reato o sottoposti a fermo giudiziario
  4. Soggetti sottoposti a misure di sicurezza detentiva

Una persona non può essere sottoposta a prelievo più di una volta. Il campione biologico estratto può essere conservato nella banca per un massimo di 20 anni, allo scadere dei quali viene distrutto. Il profilo genetico ottenuto dal campione sequenziato invece può essere tenuto in archivio fino a 40 anni.

Esiste inoltre una forma di cooperazione transfrontaliera. La banca infatti trasmette profili del Dna verso le istituzioni omonime di stati stranieri e viceversa a seguito di consultazioni e raffronti. Il punto di contatto nazionale per lo scambio dati per le finalità di collaborazione internazionale di polizia è individuato nel Servizio per la cooperazione internazionale di polizia della Direzione centrale della Polizia criminale del Dipartimento della pubblica sicurezza.

giustizia genetica PRO E CONTRO – Senza dubbio l’utilizzo della banca dati del Dna rappresenta una risorsa di altissima utilità in campo investigativo, dal momento che essa rende più agevole l’accertamento di reati non solo di natura penale ma anche civile. Ciò non significa che sia possibile abbandonare del tutto le tecniche investigative tradizionali.

L’uso del materiale genetico non è una novità per la giurisprudenza italiana, ma ad oggi il dialogo tra diritto e scienza sembra ancora arduo. Una prima difficoltà viene dal fatto che, a differenza del diritto, la scienza forense non è una materia certa: come ci ricorda il giudice Gennari “la scienza giudiziaria non nasce dalla scienza teorica ma dal caso concreto” e i dati, oltre a non essere supportati da una teoria, possono essere inesatti, inquinati o addirittura riportati male per via di un errore umano. Nei casi poi in cui il Dna viene utilizzato, a determinare la colpevolezza dell’imputato non è quasi più il giudice quanto la prova genetica. Ciò causa una forte de-responsabilizzazione di questa figura, che perde il suo ruolo fondante: è il giudice a giudicare, interpretando di volta in volta le varie sfumature che una parola può avere all’interno del diritto scritto che, come ricorda il prof. Occhiocupo, deve rimanere “fatto da uomini che giudicano altri uomini”.

Il compito della catalogazione genetica in questo senso sarà quello di accompagnare e migliorare il processo investigativo, non di sostituirlo. Altro elemento da sottolineare è il fatto che la banca del Dna italiana presenta standard elevati in materia di sicurezza e rispetto della privacy, cosa che non sempre si riscontra all’estero. E’ il caso, ad esempio, della banca inglese in cui non c’è alcuna divisione in categorie tra gli individui schedati e che contiene informazioni di tipo anagrafico come nomi e cognomi. Il rischio di stigmatizzazione della giustizia nei confronti di un individuo per eventuali precedenti penali, infatti, non è da sottovalutare perchè verrebbe meno la presunzione di innocenza nei confronti dell’imputato. E’ chiaro, tuttavia, che l’utilizzo di questo tipo di dati debba essere circoscritto esclusivamente all’ambito giudiziario-investigativo e debba essere accompagnato da un adeguato sistema di norme che tuteli il trattamento dei dati da eventuali usi impropri. Licia Califano, docente di Diritto Costituzionale presso l’Università degli Studi di Urbino, è intervenuta a riguardo e ha fatto notare come un utilizzo improprio del dato genetico potrebbe colpire direttamente la libertà dell’individuo. Come? Immaginiamo che una compagnia assicurativa privata entri in possesso di informazioni legate al Dna del suo cliente Mario Rossi e venga a sapere delle sue elevate probabilità di sviluppare in un futuro prossimo una malattia che potrebbe impedirgli di lavorare. Probabilmente prima di offrirgli una copertura assicurativa ci penserebbe su due volte. Nella migliore delle ipotesi gliene offrirebbe una al doppio del prezzo o semplicemente si rifiuterebbe di offrirgliela. Si assisterebbe a un caso particolare di discriminazione genetica. Una cosa ovviamente inaccettabile per una società civile. Per questo è molto importante che i campioni di Dna non escano dai laboratori in nessun modo e per nessuna ragione.

BIOBANCHE E PROFILAZIONE GENETICA DI MASSA – Il problema della protezione privacy sulle informazioni genetiche va oltre l’ambito giudiziario. Cosa succederebbe infatti se i test dei Dna uscissero dai laboratori per finire nelle mani di imprenditori e commercianti? Negli ultimi 10 anni circa si è osservato un interesse crescente per il business della genetica. Un mercato in cui anche le multinazionali del web stanno investendo in modo considerevole. Una su tutte, Google.
Sono circolate notizie che riportano che l’azienda fondata da Larry Page e Sergej Brin stia allestendo in segreto una banca dati genetica che conta già oltre un milione e mezzo di cartelle cliniche. Google dal 2005 ad oggi ha fondato 2 società di ricerca scientifica (Calico e Verily) e altre 78 che monitorano ogni aspetto della salute. Tra queste alcune si occupano solo di immagazzinamento di dati genetici (23andMe, Dna Nexus, Google Deepmind su tutte), altre vendono cucchiai per malati di Parkinson, lenti a contatto per controllare la glicemia ecc ecc. Uno degli scopi del progetto sarebbe quello di vendere informazioni alle case farmaceutiche per poi lucrare sulla pubblicità online mirata di farmaci personalizzati in base al Dna che ne deriverebbe. La profilazione degli utenti online tramite cookie è ormai una pratica consolidata da tempo. I farmaci personalizzati in futuro potrebbero sostituire i medicinali di massa che vanno incontro alla scadenza dei brevetti. E non è tutto: pare che online si possano scaricare app che utilizzando informazioni genetiche al proprio interno siano in grado di consigliarti prodotti da utilizzare, diete da seguire, ristoranti in cui cenare e ogni altra decisione riguardante la vita e la salute. In questo modo in futuro si verificherebbe un declassamento dei professionisti del settore e un aumento esponenziale di medici fai-da-te in grado di autocurarsi e prevenire malattie direttamente con lo smartphone. Google non è nemmeno l’unico attore del web sbarcato in questo business, ma anche aziende come Microsoft, Amazon, Facebook si stanno impegnando in progetti simili.

Il fine è comune a tutti: far trapelare il Dna dai laboratori e farne nuovo strumento per raggiungere i consumatori. Ma sarebbe prudente sostituire il medico di famiglia con un app per il telefonino?

 

di Lorenzo Bonuomo Gloria Falorni

Scrivi un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*