Erberto Zani: da Parma al Myanmar, una vita dietro l’obiettivo

INTERVISTA AL VINCITORE DEGLI INTERNATIONAL PHOTOGRAPHY AWARDS PER I PROGETTI EXODUS E URBAN VISIONS

Erberto Zani è un fotogiornalista parmigiano che da poco è stato premiato agli International Photography Awards di Los Angeles e delle Filippine.

Nasce come giornalista pubblicista nel 2004, anno in cui inizia la collaborazione con la Gazzetta di Parma occupandosi principalmente della stesura dei testi, utilizzando le foto scattate semplicemente per completare i suoi pezzi.
Tuttavia, la fotografia ha sempre rappresentato una forte passione: nata in famiglia, è stata poi coltivata anche grazie ai suoi studi superiori e universitari. È proprio in questi anni che, prendendo in mano la macchina fotografica, inizia a balenargli in testa l’idea che quella sarebbe potuta diventare per lui un’attività a tempo pieno.

I suoi due ultimi lavori, ovvero ‘Exodus’, il progetto che l’ha portato in Myanmar per seguire l’esodo dell’etnia Rohingya, e ‘Urban Visions’, una serie di scatti astratti, hanno ottenuto vari riconoscimenti. Il primo si è classificato secondo per la categoria Event social agli IPA di Los Angeles, e primo per Book/People e Book/Documentary agli IPA delle Filippine; l’altro ha ottenuto il secondo posto agli IPA Filippine nella sezione Fine Art/Abstract.

La descrizione del progetto Exodus dice “This is not an event from the past. It’s happening”.
Partendo dal concetto di ‘sta accadendo’, un fotoreporter in base a cosa sceglie il suo argomento, visto che viviamo in un mondo in cui ‘stanno accadendo’ molte cose?

“Se un evento è già coperto da un gran numero di fotografi con agenzie importanti alle spalle cerco di focalizzarmi su un altro o di lavorarci in un secondo momento, seguendo magari storie minori sempre legate al tema principale. Exodus va un po’ in controtendenza rispetto a questo perché eravamo in tantissimi a seguirlo, essendo tra gli argomenti del momento. Sono stato invitato da dei colleghi bengalesi che mi hanno detto che sarei dovuto assolutamente andare a vedere questa tragedia in atto e così, all’improvviso, ho deciso di buttarmi nella mischia”.

Per l’etnia Rohingya si parla di genocidio in corso. Immortalando situazioni spesso estreme, è impossibile non chiedere a un fotografo se esista un limite da non superare: mai capitato di aver scattato una foto che poi non ha voluto pubblicare perché troppo forte’? 

Nella mia carriera lavorativa questa è stata una delle esperienze più provanti, nonostante abbia lavorato precedentemente in luoghi e situazioni difficili. C’erano un gran numero di vittime ogni giorno, bambini che morivano sotto i miei occhi. Queste cose ti rimangono dentro. Tra quelle che ho scattato, una foto significativa ritrae un padre che, con lo sguardo perso nel vuoto, tiene in braccio il figlio che morirà subito dopo. Quale sia il limite in questi casi è difficile da spiegare. E’ fortemente collegato alla sensibilità di ogni fotografo, che decide in autonomia se superarlo o no. Alcune volte capita che ci si senta di essere di troppo, mi è successo durante i festival religiosi che ho documentato in India: ho messo via la macchina fotografica, preferendo il rispetto per le persone ed il loro culto”.

Sempre progetti di stampo umanitario? Quali sono la spinta iniziale e lo scopo finale?

Ho iniziato come fotografo di pubblicità. La mia passione per i viaggi mi ha successivamente portato soprattutto verso i Paesi asiatici, dove ovviamente ho cominciato a raccogliere diversi scatti. Contemporaneamente, grazie a Forum Solidarietà sono entrato in contatto con l’associazione Amurt, sede di Parma e, da qui,  mi sono appassionato a cause e a progetti umanitari. Un coinvolgimento che è divenuto sempre più intenso, tanto da diventare il centro del mio lavoro fotografico”.

Che rapporto instaura un fotografo con i soggetti scelti? Si crea in qualche modo un legame emotivo? 

L’empatia è un elemento fondamentale in questo lavoro, soprattutto se si scelgono ambiti di stampo umanitario o documentaristico. Nel caso dei Rohingy, ad esempio, è stato impossibile non farsi coinvolgere, vista la situazione estrema. In questi casi, poi, la comunicazione avviene principalmente con gesti, sguardi, sorrisi. Durante la prima fase del lavoro, cioè quella di attraversamento del confine, è stato quasi impossibile stabilire un rapporto con le persone del luogo; arrivati alla seconda fase, dedicata alla vita nei campi profughi, è stato invece più semplice avere un contatto con loro. Alcuni ci hanno addirittura ospitato all’interno delle loro tende, raccontato le loro storie private, offerto cibo e bevande”.

In vista della pubblicazione di un progetto, è inevitabile includere delle foto ed escluderne altre: come sono stati scelti gli scatti di Exodus? C’è una foto preferita, e perché?

“Una prima selezione delle foto avviene in viaggio, la sera stessa. Per il caso di Exodus, essendo nato a posta per una pubblicazione, avevo già in mente l’iter da seguire e con che taglio affrontarlo, dunque, la scelta delle foto è stata una semplice conseguenza. In particolare, fra tutti gli scatti, ve ne sono due che mi sono rimasti dentro: quello con una moltitudine di persone sotto la pioggia, in mezzo ad un campo campo, e quella di un padre con in braccio il figlio che vaga desolato in mezzo a tutte quelle persone”.

Le due categorie in cui ha vinto agli IPA 2018 si differenziano molto l’una dall’altra, così come lo stesso Urban Visions si distingue tra i suoi progetti abituali. 

“Urban Visions è un progetto a cui lavoro da tempo, che dovrebbe diventare un libro, il primo di una serie, verso dicembre. Racchiude foto astratte legate al tema urbano, finalizzate per esposizioni in grande formato. È un progetto personale che avevo nel cassetto da un po’; sicuramente si distingue dagli altri ed è da ricondurre anche alla mia formazione artistica. Non so se funzionerà, ma certamente l’aver ricevuto un premio significa che dei professionisti hanno riconosciuto lo spirito del lavoro”.

Teme che i mezzi di comunicazione possano utilizzare i suoi scatti senza rispettare l’intento iniziale e, quindi, decontestualizzandoli? 

“Sì e no. È successo in passato che utilizzassero mie foto senza autorizzazione, ma da quando mi affido ad un’agenzia mi sento più tutelato: capita che chiedano di poter pubblicare miei scatti e in quel caso ho sempre specificato le mie ragioni. Ovviamente, viste le tematiche ben precise a cui sono legati, sarebbe difficile decontestualizzarli, risulterebbe una forzatura”. 

Nel mondo odierno, soprattutto quello dei social media, ogni utente può diventare fotogiornalista: si scatta, si pubblica e si diffonde con una rapidità ormai straordinaria. 

“Viviamo in un bombardamento costante, siamo soffocati da immagini. Ciò che conta è offrire qualcosa di diverso, dare una propria interpretazione di ciò che si vede: questo permette di distinguersi e questa è la sfida per un fotografo, sia esso amatoriale o professionale”.

Cosa direbbe ad un giovane aspirante fotografo? 

“Di focalizzarsi su passione, empatia, pazienza. È molto difficile emergere, i compensi sono bassi (almeno inizialmente) e i rischi e i sacrifici sono molti. È un lavoro che mette alla prova tanti aspetti, anche quello sentimentale, ma se la passione è forte si deve continuare. E, per farlo, è necessario formarsi: lavorare sul campo e farsi le ossa fin da subito, partendo anche dalle piccole redazioni dei giornali locali, dell’Università. Si deve, inoltre, concentrare l’attenzione su quello che ci interessa veramente, perché esistono diversi generi di fotografia. Sicuramente è un mestiere difficile, ma se è qualcosa che si sente dentro, allora, bisogna seguirla, approfondirla e soprattutto alimentarla”.

Prossima destinazione?

“Sono in partenza per le Filippine, un Paese nuovo per me. Sto portando avanti un progetto sull’estrazione illegale di minerali in giro per il mondo, per il quale sono già stato in diverse nazioni: Congo, India, Colombia e Burkina Faso”.

 

di Giorgia Lanciotti, Melissa Marchi, Beatrice Matricardi

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