Isis, quando la parità è “abominio da estirpare”: le partigiane di Kobane

TESTIMONIANZE DELL'ENNESIMA DEMOCRAZIA DISTRUTTA

arLa lotta al terrorismo è un terreno sempre semanticamente in divenire e acquisisce connotazioni a volte trasversali e inedite. Nessuno avrebbe mai immaginato che contro i sanguinari combattenti dell’Isis, nel Kurdistan siriano, nella strenua difesa della città di Kobane, si sarebbe distinto un manipolo di donne male armate. Chi avrebbe mai immaginato che nell’ambito sessista per eccellenza, la guerra, in questa moderna battaglia delle Termopili, delle donne coraggiose avrebbero conquistato spazi di autonomia e libertà partecipando attivamente ai combattimenti casa per casa, a fianco dei loro uomini, contro il feroce nemico invasore? L’Unità di protezione delle donne (Ypj) è, dalle fonti che ci pervengono, la vera spina nel fianco contro i tagliagole di al-Baghdadi. Sono mamme, figlie, sorelle, cugine. Le loro azioni sono diventate un mito e arrivano all’attenzione di noi occidentali ed europei come una moderna e rivoluzionaria sfida contro il patriarcato millenario e sanguinario che anche dalle nostre parti facciamo ancora fatica a dimenticare.
Le donne rappresentano dei miti in questa situazione e interessante è notare che non sono così distanti da noi: ad avvicinarcele è il racconto di alcune loro connazionali. Basta fare un giro per le vie di Parma per incontrarle e notare la gentilezza e l’apertura mentale che le distingue. Sebbene rappresentino una piccola comunità in città, durante le loro feste annuali, rompendo la giornaliera routine lavorativa, si incontrano per stare insieme, divertirsi, chiacchierare e sentire l’odore della loro prima casa, ricordare la loro patria.

 

LA TESTIMONIANZA DI TULAY – È partita dalla Turchia a bordo di un barcone, insieme ai suoi due fratelli; è arrivata in Sicilia, per poi spostarsi a Lecce, a Roma, a Milano e infine a Parma, dove si è stabilita dal 2003. Tulay è una donna curda che ha deciso di abbandonare la sua terra d’origine a causa della guerra, nella speranza di trovare la pace non solo per lei e per il resto della sua famiglia. “I miei figli sono nati in Italia – racconta – non sanno neanche come sia fatta la Turchia. I miei fratelli non hanno nessuna intenzione di tornarci e sinceramente nemmeno io. Forse un giorno, quando finalmente ci sarà la pace anche lì”. Questa pace di cui parla Tulay, a suo modo di vedere, arriverà per opera delle donne. “Le donne sono più forti degli uomini, sono angeli e soprattutto sono mamme, quindi sono portatrici di amore” dice, spiegando anche che in Kurdistan, più che in Iran o in Iraq, la donna gode di piena libertà: può esprimere il suo pensiero, può imporsi se qualcosa non le sta bene, può prendere decisioni in completa autonomia.
Ma questa vita che normalmente scorre ordinaria e per tanti versi simile a quella che Tulay ha iniziato in Italia, a Kobane è da mesi stravolta dall’attacco dei jihadisti dello Stato islamico che non arretrano nell’ondata di violenza consumata tra decapitazioni, rapimenti e torture. “I membri dell’Isis rapiscono le ragazze e le rivendono a chi cerca ‘carne fresca’. Rinchiudono uomini a caso per poi decapitarli pubblicamente in segno di potere. Di fronte a questi fatti – spiega – non possono neanche essere definiti degli animali, perché gli animali possiedono un cuore e un’anima, cose che loro invece sconoscono. A volte penso che per fare quello che fanno abbiano bisogno di drogarsi, o di alcolizzarsi e quindi di avere il corpo e la mente completamente svuotati”. Tulay ha lasciato parte della sua famiglia in Kurdistan, con la consapevolezza che benché le loro zone non siano le più pericolose, in realtà non si dimostrano comunque sicure: “Non si possono crescere i propri figli in posti in cui, da un momento all’altro, i terroristi entrano con forza nella tua terra, nella tua casa e portano via i tuoi cari perché ‘hanno deciso così’. Chi sono loro per farlo? Che diritto hanno? – continua Tulay –. Il governo turco si ostina a dire che va tutto bene, ma non è così. Mostra e dichiara solo una faccia della medaglia”. Nonostante i sacrifici, le rinunce e il disprezzo per quello che accade nella sua terra, Tulay non ha ancora perso la speranza: “La storia si è sempre ripetuta: è scoppiata la prima guerra mondiale ed è finita; è scoppiata la seconda ed è finita anche quella. Allo stesso modo finirà anche la guerra in Turchia e l’Isis cesserà di esistere, magari quando il popolo riuscirà ad imporsi. E forse allora tornerò anch’io nella mia terra”.

 

 

ar“KOBANE, UN PUNTO DI NON RITORNO” – Ad offrire una testimonianza della reale situazione di quelle terre è Nelly Bocchi responsabile del gruppo Amnesty International di Fidenza. Di ritorno da un recente viaggio nel Kurdistan turco, dopo aver visto con i propri occhi la violenza dei combattimenti dilaganti da mesi al confine siriano, ha messo nero su bianco la situazione vissuta in una lettera che descrive la difficile lotta della ‘rivoluzionaria’ Kobane.

“Nel Kurdistan siriano un folto manipolo di mercenari (Isis, Is, Daesh, chiamiamolo come vogliamo) super armato, con una conoscenza bellica non da poco e con grande perizia mediatica, sta distruggendo l’unica speranza di democrazia di tutto il Medioriente, nata e cresciuta nel Rojava”. Da tutte le piazze delle città europee ospitanti comunità curde risuonano slogan precisi e diretti: “Kobane resisti. Kobane non è sola. Tutti siamo Kobane”, a dimostrazione di come il senso di appartenenza alla stessa cultura e alla stessa etnia possa superare i confini geografici e territoriali. “In una cultura, quella mediorientale, in cui prevalgono i clan e la discriminazione di genere – sottolinea Nelly Bocchi –  il Rojava rappresenta una rivoluzione. Per chi, come l’Isis (che vende le donne a 5 euro l’una, con il cartello del prezzo attaccato al collo), come accade ora a Mosul, il rispetto dei diritti umani fondamentali e nella parità di genere è un abominio da estirpare. E sta avvenendo proprio questo. Oltre a tutte le ragioni economiche, geopolitiche, culturali che si possono leggere nei media liberi”. Per far sì che la loro dignità e il loro diritto di essere rispettati in quanto esseri umani non vengano calpestati, “l’esercito di Rojava, YPG e YPJ, uomini e donne, si stanno battendo fino alla morte”. E la cosa che colpisce maggiormente l’attenzione di tutto il mondo è il coraggio che stanno dimostrando soprattutto le donne: “Sono in prima linea, – racconta ancora Nelly – coraggiose, fiere, ribelli, giovani e anziane con le loro armi vecchie e un po’ arrugginite, contro quelle super moderne del nemico, ma hanno una cosa che fa la differenza: fanno parte di un popolo, hanno la forza di chi sa di essere nel giusto”. A loro- scrive – la morte non fa paura”.
Da molti anni Nelly Bocchi partecipa attivamente al Newroz (capodanno curdo) nel Kurdistan turco e, ciò di cui è stata testimone non può lasciare indifferenti: “Ho provato una grande rabbia nel vedere 10mila soldati turchi, con armi e carri armati, osservare dal confine la lotta strenua dei partigiani di Kobane, impassibili, con la speranza che questa eroica città prima o poi cada, con altrettanta rabbia ho visto la violenza turca abbattersi contro i manifestanti curdi che chiedono giustizia e libertà per i loro compagni siriani e con molta più rabbia sto vedendo l’inazione del mondo”.
I colloqui di pace ci sono stati, è vero, ma come la stessa Nelly Bocchi sottolinea, si tratta di semplici parole “solo sulla carta”. “Kobane lo dimostra e sarà senza dubbio il punto di non ritorno” conclude, con l’unica certezza che lei, il Kurdistan, lo porterà sempre nel suo cuore.

 

 

di Carlotta Falcone, Marica Musumarra, Michele Panariello, Federica Russo

Scrivi un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*