In carcere, perché far pagare ai figli le colpe dei padri?

COME RIPENSARE AL PENITENZIARIO RIPARTENDO DALLE FAMIGLIE


“I bambini sono le prime vittime della carcerazione dei genitori”. Parola di Elisabetta Musi, docente di pedagogia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza, ospite dell’incontro organizzato da Udu Parma per trattare il tema della genitorialità dietro le sbarre di un penitenziario. Un’occasione per raccontare non solo la vita dei detenuti ma anche per gettare un fascio di luce su tematiche più oscure legate al mondo del carcere: l’affettività e la sessualità vissuta dai condannati.

PUNIRE NON SERVE – Lo sbandiera apertis verbis Francesco Zacchè, professore di procedurale penale della Bicocca di Milano: “L’idea che chi sbaglia lo chiudiamo a chiave e poi la buttiamo via non funziona più”. I tassi di recidiva, cioè di chi torna a delinquere, costituiscono una spia per i criminologi: se c’è un passaggio in carcere, dal 50% fino al 80% degli ex detenuti compiono nuovi reati. Motivo? A livello pratico, la pena presenta ben pochi caratteri rieducativi nel nostro ordinamento. “L’obiettivo minimo – prosegue il docente della Bicocca – è smettere di delinquere una volta usciti dal penitenziario”. Quindi, come riferisce la stessa professoressa Musi, “chi esce dal carcere è arrabbiato con la società”.

Ed è proprio tutto ciò a comportare una grande sofferenza sia per il detenuto che per la propria famiglia. “Capita spesso che i parenti attendano delle ore prima di poter vedere i detenuti durante i colloqui in carcere”, spiega Zacché. Oltre all’organizzazione delle carceri, molto spesso vi sono impedimenti geografici. “Immaginate se un detenuto che risiede a Perugia viene mandato in carcere a Venezia, – continua il professore – per la famiglia diventa un impedimento andarlo a trovare tutte le settimane”.

FIGLI DIETRO LE SBARRE – Peggio ancora se il detenuto è genitore di un bambino piccolo: “Il problema dell’affettività dietro le sbarre non riguarda solo le madri ma anche i padri. – spiega Zacché -. Spesso le madri inventano delle scuse per evitare di dire al figlio come mai il loro papà si trova dietro le sbarre“. “Dicono che si trova all’ospedale oppure che lavora all’estero –  aggiunge  Musi – È indispensabile affermare il diritto alla verità verso i figli invece di mentire pensando di non ferirli”.

I dati sono abbastanza inquietanti: sono quasi due milioni i bambini che nel 2017 hanno varcato la soglia dei penitenziari per andare a trovare la mamma o il papà detenuti. Sono ancora pochissime le strutture che si sono dotate di stanze nelle quali i bambini possano giocare prima e dopo aver incontrato i genitori. Quasi fosse una camera di decompressione. Lo ha fatto, per esempio, l’associazione milanese ‘Bambini senza sbarre’ nel carcere di San Vittore creando ‘Spazio Giallo’, che permettere ai ragazzi di essere accolti in un luogo a loro dedicato prima di incontrare il genitore detenuto. Solo in Lombardia, Emilia Romagna, Piemonte e Campania sono stati predisposti spazi simili nelle carceri. Nelle restanti 16 regioni d’Italia nulla è cambiato. Nella casa di Reclusione di Parma, come spiega il responsabile dei detenuti per il Comune, Roberto Cavalieri: “E’ presente uno spazio dove i minori possono sostare e distrarsi con giochi o libri e con personale di un’associazione di volontariato”. Però, continua lo stesso Cavalieri, “siamo lontani dal pensare al carcere a misura di minore e di tutela del valore del dialogo e affettività tra padre e figli”.

Di conseguenza, l’impatto di un bambino con le strutture carcerarie risulta molto violento e in alcuni casi può provocare dei traumi. “È indispensabile – conclude la docente di pedagogia del Sacro Cuore – creare delle strutture che siano un punto d’incontro tra i genitori detenuti e i figli, i quali devono riuscire ad accettare l’esperienza carceraria senza vergognarsi”. Servono quindi, sostiene la Musi, dei gruppi di genitori detenuti che rileggono le loro storie smarcandosi dall’esperienza criminale.

Una situazione ancora più precaria è vissuta dalle madri detenute con un bambino piccolo al seguito. Nel 2018 (i dati non sono ancora definitivi) sono circa 57 mila i detenuti, di cui 2.402 donne. Di queste, 52 vivono con uno o più figli in carcere, per un totale di 62 bambini costretti a passare un periodo della propria vita in un penitenziario. La legge n.62/2011 ha predisposto la creazione di Icam (Istituti a custodia attenuta per detenute madri), vale a dire carceri senza sbarre e guardie in borghese per simulare un’ambiente domestico e quindi rendere meno traumatico la convivenza dei figli con le madri detenute. In questo modo i bambini possono vivere con i loro genitori fino a dieci anni. Queste strutture però non sono presenti in tutta Italia quindi, così come succedeva in passato, ancora oggi i figli trascorrono  i primi tre anni della loro vita assieme alla madre dietro le sbarre di un penitenziario.

“L’Amministrazione penitenziaria – commenta il responsabile dei detenuti di Parma Roberto Cavalieri  – non ha mai manifestato una reale intenzione di risolvere il tema. I recenti casi, drammatici sulle condizioni detentive dei bambini e madri dovrebbero imporre una riflessione da parte di tutti“. Quindi, cosa si potrebbe fare per rendere più civile e meno alienante la vita in carcere per i detenuti? “Aumentare la durata delle telefonate per parlare con le mogli, figli e genitori – propone Cavalieri -. Non si capisce perché si debba telefonare per massimo 10 minuti una volta alla settimana. Bisogna favorire i colloqui alla domenica o negli orari pomeridiani per i detenuti che hanno figli minori, evitando ai familiari di prendere permessi dal lavoro oppure giorni di ferie. Infine facilitare i permessi premio per i detenuti che hanno le idonee condizioni giuridiche. Un permesso da passare a casa con i figli vale molto di più di una stanza verniciata di un colore invitante dentro un carcere”.

Ed è l’immagine migliore per capire che nel nostro ordinamento c’è ancora tanto da fare.

 

di Mattia Fossati

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