De Bortoli agli studenti: “Oggi il consenso è stato scambiato per legittimità”

IL BUON GIORNALISMO SECONDO IL DIRETTORE DEL CORRIERE DELLA SERA

DeBortoliSu invito del prof. Maurizio Chierici, mercoledì 3 dicembre, Ferruccio de Bortoli, direttore del Corriere della Sera, ha dialogato con gli studenti presenti in Aula Magna.
La parola concessa direttamente ai ragazzi ha fatto sì che le domande spaziassero dalle nuove tecnologie dell’informazione, alla politica odierna. Con la passione di chi ama il proprio mestiere, de Bortoli ha indicato le prospettive di un giornalismo che trova, nello stare al passo con i tempi, la giusta via per riscoprire la sua funzione.

In merito alla questione dei nuovi media, ci spieghi come è cambiata l’informazione.

“In generale si può parlare di cambiamento delle tecnologie dell’informazione.
Quando ero giovane, i giornali venivano ancora fatti con i caratteri mobili inseriti a mano e, in questo campo le innovazioni erano davvero lente.
In poco tempo sono avvenute grandi rivoluzioni che hanno cambiato il modo di trasmettere e recepire l’informazione e gli effetti si sono percepiti anche a livello della società.
Un tempo il rapporto tra chi faceva e chi recepiva l’informazione era molto più semplice; era più facile anche nascondere una notizia. Oggi il rapporto tra i due utenti è completamente ribaltato, dal momento che sulla rete ci sono anche contenuti creati direttamente dagli stessi lettori, ed è chiaro che ciò guidi e condizioni il modo in cui i professionisti svolgono il loro mestiere.
Ad oggi ci sembra normale e dovuto ricevere una notizia in tempo reale; qualche decennio fa pareva un miracolo riuscire a pubblicare una volta al giorno.
La tecnologia dell’informazione, oltre ad aver cambiato i mercati, ci ha costretto spesso a privilegiare la tempestività rispetto all’accuratezza. Le notizie sono vive e creative sui social; tutto viene anticipato e c’è l’ansia di essere i primi nel dare una notizia. Poco importa se sia azzardata, incompleta o fuorviante.
È innegabile, però, che l’avvento del web abbia fortemente condizionato in positivo il dialogo tra i cittadini e le istituzioni, basti pensare al sindaco di Parma, figlio di questa nuova generazione tecnologica.
Ma il pericolo più grosso di questa costante evoluzione è per la democrazia rappresentativa che viene messa in crisi di fronte alla possibilità di una democrazia diretta. Ognuno di noi è chiamato a tenere conto di cosa pensa la rete, che non riposa mai e non smette mai di produrre.
La questione è tener sempre presente che tutto ciò che si agita nella rete non è necessariamente positivo; sapere che la nuova informazione dà al lettore una sensazione di potere mai percepita prima e che pensi, per questo, di poter fare a meno dei professionisti.
Non bisogna dimenticare che, se anche tutti abbiamo la possibilità di vivere in diretta gli avvenimenti, non si può rinunciare ad un intermediario che possa spiegare la profondità di quello che viene detto.
La trappola di un’opinione superficiale, riguarda tutti, anche le persone di potere.
Siamo tutti così consci dell’informazione, ma dimentichiamo di far parte di un’opera teatrale e crediamo tutti di avere in mano la verità.
Un buon giornalismo deve smontare le false proprietà, far vedere tutto nella giusta prospettiva, far crescere uno spirito critico e una società fatta di cittadini consapevoli e attenti.
Immagino una piazza virtuale, ordinata in cui distinguere ciò che è falso da ciò che è vero; non una all’apparenza piena di colori ma che rischia di essere una trappola che ci annulla come persone.
Il buon giornalismo deve essere convinto della necessità di specializzare l’informazione.
Ci sono due modi di censurare la verità: quello classico dei regimi e quello moderno che consiste nel rovesciare una massa indistinta di informazioni sul pubblico, dandogli la sensazione di poter conoscere tutto e lasciandolo disarmato per conoscere la profondità. Ecco la “censura 2.0””.

Che rilievo ha il linguaggio utilizzato dal giornalista?

“Ci sono tanti segni di degrado di una società ed uno è l’impoverimento della sua lingua.
Oggi assistiamo ad uno scivolamento dei costumi piuttosto inquietante, mentre in passato eravamo molto più attenti a non urtare la sensibilità del lettore, tanto da essere accusati di rigidità e conformismo.
Sono convinto che spesso sia necessario dare rappresentazioni il più dirette possibile del mondo in cui viviamo anche se credo che oggi ci sia qualche esagerazione nel tentativo di essere franchi. Quello che veramente non tollero sono alcune forme di dibattito pubblico, come i talk show, dove chi è diretto e volgare viene apprezzato maggiormente e afferma con più forza la sua opinione.
La degenerazione del linguaggio pubblico finisce per trasformare la pubblica opinione in curve di tifoseria contrapposte e fa venir meno qualsiasi non crescita. Oggi si è persa la civiltà dell’ascolto, le persone che intervengono non ascoltano, cadendo nella trappola dell’audience.

Perché ha affermato che, nonostante la crisi, i giornali non sono mai stati letti come oggi?

“I giornali vengono da lontano ma non appartengono al passato ed oggi sono letti molto anche se poco comprati.
Inoltre tutto ciò che scrivono i giornali viene metabolizzato subito dai social network; gli articoli sono subito ricopiati e diventano dei curiosi organismi geneticamente modificati.
Dobbiamo ricordarci che di per sé la rete è passiva; il punto d’origine è comunque ciò che pubblicano i giornali.
La rete non fa selezione e il fatto che l’informazione sia pubblica non può diminuirne il valore.
Anzi, il fatto che l’utente web richieda al giornale un attenzione costante, sette giorni su 7, deve tenere alto il livello del servizio.
Quando era solo il giornale ad avere il compito di informare, la notizia veniva data con molta più calma: basta pensare a come la stampa ebbe modo di gestire la strage di piazza Fontana nel ’69. Al tempo esistevano i giornali del pomeriggio e non fu un problema dare una notizia bomba come quella del 12 dicembre dopo ore. Oggi questo sarebbe impossibile perché il lettore, con l’on-line, richiede al giornale un’attenzione continua e ininterrotta.
Una volta in tutta la mia carriera ho spento il telefono: nella notte tra l’1 e il 2 maggio 2011. Quella notte è morto Bin Laden”.

A suo parere, quali sono state le cause che hanno portato al regresso della politica?

“Viviamo una fase di transizione non ancora terminata, che vede una fortissima crisi delle istituzioni democratiche. È ormai da un ventennio che la politica è diventata più liberistica e anche più personalistica; è venuto sempre meno il concetto di interesse pubblico, che pare una mera sommatoria negli interessi privati. Se il nostro paese non si affretta a recuperare il senso di ‘interesse pubblico ’ non avremo più nulla.
È stata colpa di un Paese che ha perso la dimensione del suo essere e il valore della cittadinanza.
È necessario ricostruire l’Italia da un punto di vista morale e ritrovare una forma di orgoglio pubblico”.

A proposito di ‘Patto del Nazareno’, dopo tanti anti anni parliamo ancora di massoneria e politica?

“Sono stato molto criticato per quell’affermazione.
Ho detto che il Patto del Nazareno cambia la costituzione di questo paese; io  vorrei semplicemente che ci fosse più trasparenza. Se ci pensate non abbiamo mai visto foto di Renzi e Berlusconi mentre si stringono la mano. Eppure quegli incontri devono esserci stati.
È inutile negare che la massoneria esista nel nostro paese e, dal momento che qualche sospetto circola, è giusto che si sciolgano i dubbi; se le regole comuni si riscrivono tra forze diverse,  ci deve essere una grande trasparenza su tutte le decisioni che possono cambiare la nostra vita per decenni”.

Può darci la sua opinione sull’articolo di Beppe Severnini, in merito all’Ordine dei Giornalisti?

“Penso che abbia dato dei consigli utili.
Il problema di accesso alla professione è molto serio; proprio nel momento in cui giovani servirebbero per approcciare alle nuove tecnologie, tutto gli viene reso più difficile.
Tuttavia se l’accesso è più difficile, le possibilità sono molte di più. Oggi esistono forme di giornalismo molto variegate ed è molto più facile arrivare trovare un campo di specializzazione e dimostrare quanto si vale”.

Come giornalista sente un senso di impotenza crescente, una scarsa incidenza soprattutto in materia di denunce?

“È vero che la casta ha sviluppato degli anticorpi piuttosto resistenti; ma è anche vero che spesso, nonostante le denunce siano già di per sé inattaccabili, si è passati da a un eccessivo giustizialismo o vittimismo. Il problema viene fatto risiedere sempre nell’altro; il nostro è un paese nel quale tutto sembra essere fuori da noi”.

Il linguaggio gergale ha influenzato i giornali?

“Esistono dei doveri di cronaca ed è giusto che siano fornite parole crude o riflettenti la realtà.
Come in tutte le cose bisogna privilegiare le vie di mezzo.
Il linguaggio di molti giovani scrittori è spesso molto apprezzabile senza rinunciare a freschezza e dinamismo.
Il giornalista influenza con tutto, anche con le fotografie. Quando i talebani entrarono a Kabul e mostrarono una testa mozzata, io non la pubblicai. Oggi non credo che lo rifarei perché mi chiederei se censurandola non facessi un favore a questi signori.
Al contrario pubblicai una foto di Gheddafi morente. I lettori non l’accettarono e quella foto fece storia.
Per i decapitati dall’Isis, qualcuno sostiene che non bisogna fare sconti sull’orrore ma credo si possa far conoscere una minaccia anche con parole sostitutive di tali brutte immagini”.

Come è cambiata l’organizzazione delle redazioni?

“Sulla base di molte esperienze straniere si è percorsa la strada di ‘tutti fanno tutto’.
Ovviamente c’è un problema di competenze dal momento che non tutti sono in grado di produrre materiale di diversa natura, soprattutto video.
Il ‘data journalism’, un approccio che fa un uso intensivo di database, mappe digitali e software per analizzare una notizia, è una forte espressione di modernità.  Ovviamente bisogna stare attenti all’andamento della giornata, agli articoli che raccolgono più attenzioni senza inciampare nella trappola dell’audience”.

Quanto può pesare oggi l’eredità dell’’Editto bulgaro’?

“La tentazione di censurare i giornalisti scomodi c’è sempre. Oggi l’Editto assume le forme di piccole censure, ma questi tentativi di discriminazione sono destinati a fallire; la rete, nella sua vastità, rende questi mezzucci umani davvero blandi.
Trovo che i giornalisti siano scomodi solo in un paese che pensa che l’informazione sia un ‘male necessario’.
Il grande dramma dell’Italia è proprio quello di aver scambiato il consenso per legittimità”.

 

di Silvia Feliziani

Scrivi un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*