Edoardo Fornaciari: cos’è cambiato nel fotogiornalismo?

DA PYONGYANG A SAN FRANCISCO, PASSANDO PER BELGRADO: TOBIA RACCONTA IL SUO FOTOGIORNALISMO


Copertine sul Time L’Europeo. Viaggi in Kenia, Libia, Florida, ma anche in Cina e in Corea del Nord. Numerosi reportage, ritratti. Addirittura l’interpretazione di sé stesso in un film di Giuseppe Tornatore. Sono solo alcune delle avventure che il lavoro di fotogiornalista ha regalato a Edoardo Fornciari, meglio conosciuto come Tobia, che dall’11 febbraio al 13 marzo terrà un corso di fotografia e fotoreportage al Capas di vicolo Grossardi, 4, per gli studenti dell’Università di Parma.

“Voglio dare agli studenti che partecipano al workshop la possibilità di conoscere e di usare il linguaggio della fotografia” spiega Tobia, ma non c’è solo questo: gli incontri sono arricchiti dai numerosi aneddoti che si nascondono dietro alle sue fotografie. Racconti di emozioni ed esperienze esilaranti legate al suo lavoro (d’altronde non vuole assolutamente “risultare una pizza!”). Un mestiere fatto in un’epoca in cui “c’era da fidarsi”, in cui i rulli venivano “lanciati a un motociclista che con una BMW e il casco a scodella li portava all’aeroporto, sfidando la concorrenza”. Un’epoca in cui “gli aeroplani facevano a gara a chi arrivava prima a Parigi per sviluppare”.

I CAMBIAMENTI E LA PERDITA DEL VALORE DELLA TESTIMONIANZA – Nell’ultimo decennio il mondo del fotogiornalismo è stato completamente stravolto: dall’avvento dei social network, dai nuovi strumenti di produzione dell’informazione e dagli smartphone nelle mani di tutti. “Tutto ciò provoca un calo di qualità spaventoso”, commenta Fornaciari.  Ma ciò che più preme sottolineare al fotografo è il cambiamento in atto che sta rivoluzionando il fotogiornalismo e il giornalismo in generale: “È vero che i giornali possono scegliere tra diversi contributi – racconta – ma i contributori sono quasi sempre degli improvvisati, sono occasionali. Generalmente questi fornitori di informazioni non hanno le conoscenze per usare il linguaggio della comunicazione. Per cui dimenticano spesso una cosa fondamentale: l’analisi e la sintesi di un avvenimento e che le informazioni fotografiche devono essere date in un modo molto forte, secco, incisivo.”

La conseguenza di questo stato di cose è quello che Fornaciari definisce “il problema più grosso del fotogiornalismo”, cioè la perdita del valore della testimonianza: “Non della testimonianza in quanto tale – precisa – ma del valore economico della testimonianza”. Fino a qualche anno fa, infatti, pochi uscivano di casa con la macchina fotografica al collo per immortalare gli eventi, mentre adesso “chiunque immortala qualsiasi cosa” e la pubblica: “Facebook in diretta, whatsapp in diretta! Perché con i cellulari in tasca e con la facilità spaventosa di spedire le fotografie agli organi di informazione, i giornali sono ingolfati di immagini. E chi ha campato sulla fotografia giornalisitica, come me, si trova in grosse difficoltà“.

Le immagini prodotte da chiunque, da chi la tecnica e l’esperienza per realizzare una buona fotografia probabilmente non ce l’ha, vengono poi condivise sulla rete a destra e a manca. Il peggio del peggio di questa categoria? I selfie: “Quasi tutti i selfie prodotti nel mondo sono banali, sono come se la persona che la scatta si mettesse in mezzo a una piazza, come una salama da sugo, e dicesse: IO, IO, IO, IO, con gli occhi sbarrati”, commenta ridacchiando Tobia.

L’ESPERIENZA DI EDOARDO FORNACIARI –  Iscritto all’Ordine dei giornalisti dal 21 maggio 1977 e corrispondente dell’agenzia francese Gamma dal 1976 al 1991, per anni ha documentato la vita politica italiana e seguito i principali fatti di cronaca: l’inizio del processo delle Brigate Rosse nel ’78, gli effetti del rapimento di Moro, gli assassinati dalla mafia. Negli anni ’80 ha seguito Berlinguer in Corea del Nord, dove ha fotografato Kim Il Sung. Da Belgrado, invece, ha documentato i funerali di Tito. Ha avuto anche l’occasione di passare del tempo con alcuni personaggi della cultura italiana, come Alberto Moravia e Federico Fellini. “Sia con l’uno che con l’altro sono stato a strettissimo contatto per una settimana– racconta – Fellini, quando mi sono presentato a casa sua alle 8 della mattina (anzi io ero lì dalle 7.30, ma lui è uscito alle 8… ) mi dice: ‘Ah, se vuoi venirmi dietro, tanto vale che tu mi stia a fianco’. Gli ho fatto da autista per una settimana, l’ho portato in giro per tutta Roma: dal dentista, dal barbiere, l’ho fotografato dappertutto”. Ma tra i due ci fu un po’ di imbarazzo: “Io lo chiamavo dottore, maestro. Non sapevo come chiamarlo! A un certo punto mi ha detto: ‘Senti, mi chiamo Federico, facciamo prima, ci diamo del tu’. Per cui, andare in giro nei bar e per le strade di Roma e dire ‘Aspetta un attimo Federico, fermati che ti faccio una fotografia’ , mi gratificava molto di più perché gli altri sentivano”, ricorda sogghignando.

Con Alberto Moravia la situazione fu diversa: “Alberto Moravia era una persona che si annoiava a farsi fotografare, non a caso il suo romanzo più significativo aveva come titolo ‘La noia‘ e la mia fotografia più bella di Moravia è lui annoiato. Con la faccia palesemente da annoiato”, afferma Fronaciari, non troppo entusiasta del tempo passato con lo scrittore. Quello con Sandro Pertini, invece, è stato un incontro più fortunato: “Quando lui la sera del ’78’ è uscito da Montecitorio eletto da presidente, era a piedi, non aveva la scorta, non voleva rompiballe intorno. E allora io mi sono accodato. Ho detto: ‘Mi scusi Presidente, le dispiace se le faccio qualche fotografia?’ Risponde: ‘Fai, figurati!’ E si ferma. ‘Ti piaccio così?’. E io gli facevo le fotografie. Simpaticissimo”.

Fornaciari prende in mano la macchina fotografica alcuni anni prima di quell’incontro: “Mio padre morendo, quando io avevo 17 anni, aveva lasciato in casa una Leica che aveva comprato da un ufficiale tedesco durante la guerra, di cui mi sono servito per fare le prime fotografie – ricorda – e che mi è stata poi rubata a Milano da un imbecille che pensando di fare un grande affare ha preso invece questa vecchia macchina fotografica”. Era il 1969.

Nel 1990 partecipa, con 99 colleghi scelti tra i migliori del mondo, alla realizzazione di un libro fotografico edito dalla Collins a San FranciscoÈ arrivato lontano Edoardo Fornaciari, non senza aver vissuto qualche insuccesso: “Tante volte ci sono stati degli insuccessi”, ammette e la sua espressione sembra voler dire: è umano! “Uno dei tanti insuccessi che ho vissuto? Volevo dimostrare quanto Roma, dove abitavo e che amavo moltissimo, fosse bella. La Roma più bella è la Roma cinquecentesca secondo me, la Roma michelangiolesca, è una roba da diventar matti! Tante volte sono uscito con la macchina fotografica per dimostrarlo e per dimostrare quanto poco fosse rispettata allo stesso tempo. Lo volevo raccontare agli stranieri. E ho fallito”.

Due le lezioni del fotogiornalista di cui fare tesoro: “La cultura, la conoscenza delle cose e la curiosità reggono la fotografia” e  “se ti prefiggi dei temi alti, devi accettare anche dei grandi insuccessi”.

di Eva Skabar

 

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