“Palombella Rossa” trent’anni dopo: le parole sono ancora importanti?

L'ICONICO FILM DI NANNI MORETTI COMPIE TRENT'ANNI: UN VIAGGIO ANCORA ATTUALE TRA SINISTRA IN CRISI E CORRUZIONE DEL LINGUAGGIO

“Noi dobbiamo lottare contro il giornalismo, contro le parole sbagliate!”, così urlava Nanni Moretti in una celebre scena del suo ‘Palombella rossa, film con il quale nel 1990 si aggiudicò il Nastro d’argento per il miglior soggetto originale. La critica al deterioramento del linguaggio e all’uso di parole inappropriate è, prima ancora della questione politica, tema di principale importanza. E non potrebbe essere altrimenti, perché – si sa – “chi parla male, pensa male e vive male”, ce l’ha detto proprio Nanni.

Ma andiamo per gradi e, se con le parole si rischia di farlo arrabbiare, partiamo dai numeri. Il film spegne quest’anno trenta candeline. È infatti il 1989 quando il regista decide di concludere il lungo e felice sodalizio con il suo alter ego Michele Apicella, girando e interpretando l’ultimo film che lo vede protagonista. Ossessivo, paranoico, spesso insoddisfatto, Michele ha vestito i panni dei più disparati personaggi: dall’ex sessantottino di ‘Ecce Bombo‘, al tormentato e incompreso regista di ‘Sogni d’oro‘, dal nevrotico e sensibile professore di matematica di ‘Bianca‘, al sacerdote disilluso de ‘La messa è finita‘. Con ‘Palombella rossa‘, per la prima volta Nanni porta Michele fuori da Roma per le riprese: è nella piscina delle terme di Acireale che si svolge gran parte del film, la storia di un deputato comunista che ha perso la memoria a seguito di un incidente e cerca di ricordare la sua identità durante una partita di pallanuoto. L’amnesia di Michele è metafora della mancanza di memoria storica e della crisi ideologica della sinistra italiana di quegli anni, in particolare del PCI, definito dall’arbitro della partita “un partito ormai inutile, innocuo e tutto da rifare”.

Ma la lotta del protagonista, abbiamo già detto, non si arresta al campo politico e arriva fino a quello verbale. Se il Michele di ‘Bianca’ era ossessionato dal compito di far durare il più possibile le relazioni altrui, ora è l’utilizzo delle parole “esatte” a diventare il suo chiodo fisso. Se nel primo erano “quelli che si vogliono bene” a non doversi perdere, qui pare che siano le parole e il loro significato a non doversi abbandonare.

E cosa ci impedisce di definire attuale questo capolavoro di Moretti? La risposta è semplice: nulla. E la spiegazione altrettanto elementare: siamo spettatori di un contesto politico in cui discorso non è più sinonimo di argomentazione, ma di comizio, di parola dispotica. “Mi sembra, in tempi di violenza verbale e di gente che usa le parole come proiettili, che quei personaggi non abbiano perso di attualità, anzi. Le loro urla anticipavano ciò che abbiamo tutti oggi davanti agli occhi”, diceva lo stesso Nanni poco più di due anni fa, in occasione della presentazione della versione restaurata del film al Torino Film Festival.

Nella pellicola è senz’altro l’ironia a farla da padrone, senza togliere spazio però alla drammaticità della questione. Così, la tragicomica scena in cui la giornalista che intervista Michele tenta di recuperare informazioni utili in tempo reale, sfogliando confusa un “libretto sul PCI”, precede solo temporalmente quella in cui l’utilizzo della parola kitsch fa letteralmente andare su tutte le furie il protagonista, che partorirà la celebre sentenza: “Ma come parla? Le parole sono importanti!

Non è il significato di formule come “matrimonio a pezzi” o “trend negativo” a infastidirlo, ma le parole stesse con cui vengono tradotti questi concetti. Non la sostanza, ma l’espressione. “Trend negativo… Io non parlo così!”, dice stizzito Michele leggendo l’intervista da lui rilasciata, e seguita: “Non bisogna scrivere, un concetto appena viene scritto, ecco, subito che diventa menzogna, non bisogna fare un uso criminale delle parole! Io odio la parola scritta, la vita di un uomo viene sporcata per sempre se qualcuno ne parla su un settimanale!”.

L’assunto di Nanni è chiaro: la corruzione del linguaggio provoca la corruzione della mente. Ma è un pensiero tanto attuale, quanto forse ingenuo: e se il rapporto causa-effetto fosse ribaltato? È il linguaggio a corrompere la mente o la mente a sabotare il linguaggio? Qual è il confine oggi tra l’uso improprio e quello coscientemente ingannevole delle parole? Una cosa è certa: sia per sconfiggere disonestà e furbizia, sia per abbattere l’ignoranza, Nanni ci esorta a inventare un linguaggio nuovo.

Perché è una nuova vita quella che bisogna inventare. Non c’è affatto modo per il regista di rimanere fedele al proposito di lasciare fuori dalla pellicola la componente esistenzialistica propria della sua filmografia. Nel dialogo con la figlia Valentina, una splendida e giovanissima Asia Argento, vediamo riaffiorare crisi e turbamenti individuali: “Sì, guarda, io sono anche noioso, ma pure la vita l’hanno organizzata in una maniera così spaventosa…”; così come nel monologo al termine della partita: “Mi aspettavo di più, no, non dalla partita, la partita è andata come è andata… mi aspettavo di più dalla vita, di più e meglio!”.

L’obiettivo è uscire da uno spazio linguistico, semantico e (soprattutto) ontologico in cui – è evidente – siamo costretti. E se l’unico modo per riuscirci fosse cantare a squarciagola Franco Battiato durante un fallimentare discorso in un talk show politico? O intonarlo nel bel mezzo di una partita di pallanuoto persa miseramente all’ultimo tiro? Poco importa. Anzi, forse la vera vittoria è proprio questa. Poter urlare a qualcuno che “lo andiamo a cercare perché ci piace ciò che pensa e che dice”.

E anche come vive, concluderebbe Nanni.

 

di Federica Gernone

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