La guerra alla cultura e la lotta per salvaguardarla

THE DESTRUCTION OF MEMORY, IL DOCUMENTARIO DI TIM SLADE CONTRO LA DISTRUZIONE DELLA MEMORIA

Biblioteche saccheggiate, tempi rasi al suolo, monumenti distrutti. La devastazione dei simboli di una cultura, come ha dimostrato la storia, è il primo passo verso il tentativo di genocidio. Il documentario The distruction of memory’, che è stato proiettato giovedì 7 marzo nell’Aula Magna dell’Università di Parma, fa conoscere un aspetto della guerra meno considerato: quello contro la memoria e lo spirito di una popolazione. Tim Slade, il regista, ma anche autore e produttore australiano, ha vinto il Premio Hugo al Hugo Television Awards di Chicago (con il documentario 4′) e le sue pellicole sono state proiettate a più di sessanta film festival internazionali. Dopo la riproduzione del documentario sulla distruzione intenzionale del patrimonio culturale, è intervenuto ribadendo l’importanza della “lotta per salvare la cultura“. All’incontro, organizzato dal Centro Studi in Affari Europei e Internazionali, hanno preso parola Elisabetta Fadda, Presidente del corso in Beni artistici e dello spettacolo, la presidente dello CSEIA Laura Pineschi e il rettore dell’Università di Parma Paolo Andrei.

IL FENOMENO – La crescente preoccupazione per il fenomeno, anche da parte di istituzioni legislative che si impegnano a preservare il patrimonio culturale, è dunque strettamente legata alla difesa delle persone. Ma “la questione non è molto visibile“, afferma Tim Slade, e “non possiamo proteggere ciò che non conosciamo”. Espressione di odio, tentativo di spaventare e ferire in qualche modo una popolazione, indebolirla. Il fine ultimo di queste devastazioni è quello di attaccare l’identità e la consapevolezza della gente, per rendere più facile l’aggressione diretta. “La distruzione intenzionale del patrimonio culturale è una vera e propria arma di guerra, nonché un furto alle generazioni future”, spiega la professoressa Pineschi. Un’arma di guerra ancora attuale, basti pensare ai recenti attacchi perpetrati dall’Isis a monumenti e siti archeologici in Siria, Mali e in Iraq. Tornando indietro di qualche decennio, invece, si ricorderà l’attacco del ’92 alla Biblioteca nazionale bosniaca a Sarajevo, o la distruzione del Vecchio Ponte a Mostar, devastazioni che precedettero il genocidio di Srebrenica durante le guerre jugoslave.

Già durante la Seconda guerra mondiale la Germania bombardava i beni culturali inglesi con la scusa di dover attaccare le fabbriche, e, d’altra parte, gli alleati bombardavano i centri storici tedeschi per abbattere il morale degli abitanti. “Ed è successo anche a Parma nel 1944, quand’è stata bombardata la Biblioteca Palatina“, ricorda Elisabetta Fadda. Non che prima del ventesimo secolo simili violenze non avvenissero. Il problema è che si stanno perpetuando ancora oggi. C’è dunque bisogno di una maggiore attenzione al problema e di maggiore sensibilizzazione al fenomeno.

IL DOCUMENTARIO – Il film, che è stato proiettato al British Museum e in università come Harvard, Oxford, oltre che a vari festival e in televisione, è tratto dall’omonimo libro di Robert Bevan. “Ciò che del libro mi ha più colpito, e che sarebbe poi diventato la spina dorsale del mio film, è stato il modo in cui la comunità internazionale ha, ovvero…non ha, risolto il problema“, ha dichiarato il regista. L’idea di creare un documentario sulla distruzione della memoria culturale arriva a Slade nel 2010, ma il film verrà realizzato nel giugno del 2016. Le riprese sono state fatte a Dresda, Sarajevo, Timbuktu, e non solo, ma il simbolo della lotta contro la distruzione e della resilenza per eccellenza è per il regista il Vecchio ponte di Mostar: “La sua lunga storia di divisione è molto importante per le persone che abbiamo intervistato in Bosnia, la loro sensibilità e il loro impegno nel rimettere le cose a posto è qualcosa di veramente potente”, ha spiegato.

Oltre a un percorso storico e geografico attraverso vari casi di distruzione culturale, il documentario fa sentire le voci e i sentimenti di chi ha assistito alla devastazione di chiese, biblioteche o ponti nel suo Paese. Inoltre, offre una spiegazione della situazione passata e di quella attuale per quanto riguarda le leggi a tutela dei beni culturali, rivelando che ancora non sono stati fatti grandi progressi.

LA TUTELA – Raphael Lemkin, avvocato polacco, noto per aver coniato il termine ‘genocidio’, prima ancora della Seconda guerra mondiale esortò la Società delle Nazioni ad occuparsi del ‘vandalismo’, termine per definire la distruzione della cultura di un’etnia e strettamente legato a quella che Lemkin chiamava ‘barbarie’, cioè lo sterminio di un’etnia. È solo nel 1954 che, con la Convenzione dell’Aia, la distruzione dei beni culturali nei conflitti armati viene menzionata. Sarà poi nel 1995, con gli accordo di Dayton, che verranno incluse clausole a difesa di tali beni e la criminalizzazione della distruzione culturale. Resta complicato perseguire e punire i colpevoli: non è affatto semplice, ad esempio, fornire delle prove che attestino l’intenzionalità a colpire un luogo di culto. E non lo è neanche cercare di preservare questi luoghi. La digitalizzazione è un aiuto prezioso, in quanto rende possibile la preservazione digitale dei siti maggiormente a rischio consentendone una più facile ricostruzione futura.

L’impegno alla tutela dei beni cultuali in tempi di guerra è un’operazione pericolosa. Molti sono stati i custodi di chiese o musei che hanno deciso di rischiare la vita per proteggere l’arte: Khaled al-Asaad è stato ucciso nell’agosto del 2015 di fronte al Museo della città nuova di Palmira. Sotto tortura, si era rifiutato di rivelare dove fossero nascoste alcune opere d’arte antica. ‘The distruction of memory’ è dedicato a chi ha sacrificato la propria vita per proteggere la cultura, “lo specchio dell’umanità”.

di Eva Skabar

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