Ecco perché Green Book ha meritato l’Oscar come miglior film

IL FILM MIGLIORE DELL’ANNO È STATO TRAVOLTO DA UN’ONDATA DI CRITICHE, MA LA STATUETTA NON POTEVA CHE ESSERE SUA

Sono ormai passate un paio di settimane dalla notte più stellata dell’anno, ma di ‘Green Book’ se ne è parlato molto poco e neppure con quell’entusiasmo che caratterizza solitamente una vittoria di questa portata.

Forse perché oscurato dalla brillante scia di ‘A Star Is Borne dei due protagonisti che hanno incantato il pubblico del Dolby Theatre, e che continuano a far sognare milioni di fan di tutto il mondo. O forse perché, tutti si aspettavano che la statuetta andasse a ‘Romadi Cuarón e non ad un film diretto dal regista di ‘Scemo e più Scemo’, ‘Amore a prima svista’ e ‘Lo spaccacuori’, per citare solo alcune delle commedie più conosciute ed esilaranti di Peter Farrelly. Quindi non c’è da meravigliarsi se molti degli addetti ai lavori tifassero per il candidato più serio, che affrontasse tematiche forti e con una presa di posizione più critica e profonda. Ma si sa, l’Academy è famosa per i colpi di scena e, dopotutto, aveva già esaudito i desideri di tutti premiando Rami Malek come miglior attore per la sua performance strabiliante nei panni dell’indimenticabile Freddie Mercury.

‘Green Book’ non era neppure il favorito dei bookmaker e in più si sono aggiunte anche le critiche da parte di molti volti noti di Hollywood: una su tutte quella di Spike Lee che a caldo, durante la prima intervista rilasciata subito dopo la vittoria dell’Oscar come Miglior sceneggiatura non originale per ‘BlaKkKlansman’– alla richiesta di commentare la sua reazione ‘furiosa’ – non passata inosservata agli attenti giornalisti presenti al Dolby Theatre – al momento della proclamazione di ‘Green Book’, aveva risposto ironicamente: “Oh aspetta un attimo, che reazione hai visto? Che cosa ho fatto?… No, pensavo di essere al bordo campo al [Madison Square] Garden. L’arbitro ha preso la decisione sbagliata”, per poi sviare ridacchiando e continuando a sorseggiare dal suo bicchiere di Champagne.

Più significative sono state, però, le accuse di essere un film razzista, una storia per bianchi utilizzata per alleviarne i sensi di colpa nei confronti dei neri. E ancora, un film con un grande potenziale, ma niente di più: i temi (le differenze razziali, l’oppressione nei confronti dei neri ancora molto presente nel sud degli USA degli anni Sessanta, la mafia italiana che impera a Brookly) non sono stati approfonditi e sono stati accennati solo da una cascata di stereotipi.

Che le critiche non siano un pretesto a sfondo politico? #BlackExcellence è stato l’hashtag più utilizzato sui principali Social Network, che potrebbe tranquillamente aggiungersi ai numerosi tag impiegati come slogan politici, usati contro questa ondata di odio e di violenza che negli ultimi anni ha travolto ulteriormente gli Stati Uniti. Molti, è vero, si aspettavano che l’Academy premiasse ‘Roma’, il film diretto da un messicano, sui messicani, ambientato in Messico: un bello schiaffo morale – e politico – per Trump. Così non è stato. E non ha neppure vinto un film sui neri diretto da un nero. No, hanno fatto trionfare un film su un’amicizia tra un bianco e un nero, certo, ma diretto da un bianco un po’ fuori dalle righe.

Sembra quasi che ormai non si perda – qualsiasi – occasione per attaccare, criticare e vedere il negativo anche dove ci sono tutte le migliori intenzioni di fare qualcosa che dica il contrario, come se ci fosse una forza esterna che spingesse tutti obbligatoriamente a trovare quel ‘ma’ che capovolga il senso delle cose verso il polo opposto.

In realtà sarebbe bene che ogni tanto ci si liberasse dalla maschera del critico e che si guardasse a ‘Green Book’ per quello che è: un ‘classicone’ in perfetto stile americano, la storia di un’amicizia extra ordinaria tra un buttafuori italoamericano (Viggo Mortensen, candidato nella categoria di Miglior attore protagonista) e un pianista afroamericano (Mahershala Ali, premio oscar come Miglior attore non protagonista), durante gli anni Sessanta.

Dai primi minuti del film, si viene catturati subito da una genuina e coraggiosa leggerezza con cui viene raccontata l’ennesima testimonianza di razzismo contro i neri. E poi si ride anche, di quelle risate che si sentono fragorose nella sala del cinema, senza vergogna di esplodere di spontaneità, che ti fanno uscire contento di aver preso parte a questa storia. Ti si riempiono gli occhi di lacrime nel vedere il buttafuori, dai modi decisamente burberi, cercare di insegnare al ricco pianista nero a vivere più con spensieratezza, senza vergognarsi delle sue origini black che non devono per forza essere viste come etichetta stereotipata, ma anche – e soprattutto – come motivo di orgoglio. Mentre dal suo lato, con il suo fare elegante e colto, vediamo l’artista insegnare al suo nuovo amico modi gentili, garbati, ad avere pazienza anche di fronte alle ingiustizie e persino a scrivere lettere d’amore per la moglie. Ed è tutto vero e semplice.

Peter Farrelly – grazie al contributo delle interpretazioni magistrali dei due protagonisti – è riuscito quindi a mettere in scena una storia vera e di amicizia insolita per quegli anni, tra un povero bianco italo-americano e un musicista classico, ricco e nero, senza dover per forza abbandonare la sua cifra stilistica da commediografo. Non c’è stato nulla di più paradossale nell’accostare questi due personaggi con freddezza, da spettatore esterno e non da regista-analista: ha messo in scena due vite, così come sono state, piene di ingiustizie, di amare verità e di stereotipi, che non sono stati volutamente eliminati o approfonditi, quasi a voler cercare una scusa per averli usati perché altrimenti avrebbe voluto significare eliminare la realtà dei fatti. Tutti siamo vittime dello stereotipo comune e tutti lo utilizziamo come difesa contro ciò che non accettiamo come diverso da noi.

Un viaggio nel profondo sud degli Stati Uniti che ha visto unire, per scopi personali differenti, due anime identiche. Per una volta si è voluto raccontare una storia dai temi forti, con una commedia dipinta di amara leggerezza. Alla fine è tutto nelle mani degli spettatori, che devono provare a scavare nel profondo di loro stessi, nella Storia e riflettere a fondo su ciò che Peter Farrelly ha voluto lasciarci con ‘Green Book’.

Quali sono, dunque, le caratteristiche che un film deve avere perché si aggiudichi la statuetta più ambita del cinema? I criteri utilizzati sembrano essere segreti, visti i frequenti colpi di scena, ma quel che è certo è che debba trattarsi di un film pieno, con una storia vera – non solo nel senso di realmente accaduta – che per tutta la durata della proiezione non ti faccia pensare ad altro che alla vicenda a cui si sta assistendo e che alla fine ti lasci stampato in faccia un sorriso, il segno delle lacrime o qualsiasi altro indizio di emozione, destinato a farti riflettere nelle ore o persino nei giorni successivi. ‘Green Book’ ha tutto questo, forse anche molto di più e il suo Oscar è stato più che meritato.

Come accade, spesso ci si ferma solo al “si dice che sia un film razzista”. Ma “una cosa è una cosa, non quel che si dice di quella cosa”, per citare un altro film da oscar, ‘Birdman’.

Consiglio: se potete, è uno di quei film da vedere assolutamente in lingua originale. Il doppiaggio italiano fa perdere molto dell’interpretazione, soprattutto quella di Viggo Mortensen che interpretando un italoamericano è stato, ovviamente, doppiato con accento siciliano.

di Greta Ammendola

Scrivi un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*