“La scaltra peruviana” e il fattaccio di Ancona

NON ABBASTANZA BELLA PER ESSERE VIOLENTATA. QUESTA LA SENTENZA EMESSA DA TRE GIUDICI DONNE DELLA CORTE DI APPELLO DI ANCONA

Foto di Sonia Golemme/ Flick.com

Tre giudici donna hanno firmato una sentenza che giudicava una vittima di stupro poco credibile in quanto troppo bruttina per essere stata davvero violentata. No, non è uno scherzo. E no, non è Lercio. Ma andiamo con ordine.

Nel marzo 2015 una ragazza peruviana esce a bere qualcosa con due compagni delle scuole serali. Una birra tira l’altra, la situazione si scalda e la giovane si apparta con uno dei ragazzi. Fin qui niente di strano, ma il rapporto sessuale, prima consensuale, smette di esserlo.

La 25enne ci ripensa. È un suo sacrosanto diritto. Il ragazzo però non la pensa così e, mentre l’amico fa da palo, continua a fare ciò che stava facendo. La ragazza, che chiameremo Anna, nome di fantasia, si reca in ospedale con la madre, scatta la denuncia e nel luglio 2016 si apre il processo. I giovani vengono condannati in primo grado a cinque e tre anni, ma fanno ricorso; la Corte d’Appello di Ancona il 23 novembre 2017 dà loro ragione.

Le motivazioni che accompagnano la sentenza fanno desiderare la fine da questa squallida puntata di Scherzi a parte. Sì, perché il verdetto dichiara che Anna è un po’ troppo mascolina per essere stata oggetto di attenzioni del genere, che lo stupratore la riteneva tanto brutta da salvarla sul telefono con il nome “Vikingo” e che quindi è di gran lunga più probabile che la giovane si sia inventata tutto. Perché in fondo dai, è davvero poco carina, la fotografia presente nel fascicolo lo dimostra.

Tre giudici della Corte d’Appello, non di Miss Italia, signori, che sono anche tre donne, hanno ritenuto che una ragazza di 22 anni abbia provocato un compagno inducendolo ad avere rapporti sessuali con lei, “per sfida”, si legge nella sentenza. Tre donne hanno pensato che colei che viene definita, nelle carte del processo, “scaltra peruviana”, abbia fatto tutto apposta e abbia tirato quindi in ballo due poveri ragazzi innocenti.

Nessuno discute il lavoro della Corte d’Appello, né tanto meno la possibilità, per due imputati, di fare ricorso e vincerlo. Altre, però, potevano e dovevano essere le motivazioni di questa sentenza. Perché dichiarare che una ragazza poco avvenente – secondo quale criterio, poi? – non sia una vittima di stupro credibile, dà un inquietante e pericoloso messaggio: ti violento tanto sei brutta, nessuno ti crederà. Eppure, quando nel 2018 una donna di 70 anni fu rapinata e violentata da un 40enne, nessuno mise in discussione lo stupro. E per fortuna. Forse la voce di un’anziana è più credibile di quella di una giovane un po’ brilla? O forse il problema è che la giovane un po’ brilla non è italiana? No, sarebbe davvero troppo.

Precisiamo. La questione non è che tre donne, a prescindere dal loro essere giudici, debbano parteggiare per una ragazza, in nome di chissà quale solidarietà femminile. No. Un giudice deve essere super partes, senza condizionamenti di genere. Ogni ruolo ha le sue responsabilità. “In definitiva, non è possibile escludere che sia stata proprio Anna a organizzare la nottata ‘goliardica’, – si legge nella sentenza riportata dai quotidiani nazionali- trovando una scusa con la madre, bevendo al pari degli altri per poi iniziare a provocare”. Attenzione, non si tratta di giudizi frivoli e maligni fatti in confidenza con un’amica dal parrucchiere, ma di pareri espressi da tre pubblici ufficiali che hanno deciso deliberatamente di far entrare, nella corte che presiedevano, il loro essere donne prima che giudici. E allora, se si sceglie di mettere in campo la propria femminilità, bisogna farlo nel totale rispetto del genere che si rappresenta. Rapportarsi alla vittima solo ed esclusivamente in quanto magistrate nell’esercizio delle loro funzioni, questa era la loro responsabilità. Hanno deciso di essere anche donne giudicanti. Avrebbero dovuto farlo meglio.

La Cassazione ha annullato il verdetto e il processo verrà rifatto. Anche se chiamarlo “verdetto” conferisce forse una dignità giuridica a una decisione che non la meriterebbe.

 

di Bianca Trombelli

 

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