Van Gogh, il folle sociologo dell’Arte

UN UOMO FRAGILE, SOLITARIO E DALL'ANIMO RIBELLE CHE CON I SUOI QUADRI CI RESTITUISCE LA DIGNITÀ DEGLI ULTIMI

Sguardi segnati, occhi stanchi, mani imbruttite, corpi stremati dalla fatica, anime messaggere di valori straordinari. È il racconto per immagini, colori e sfumature della semplicità delle piccole cose, della povertà priva di ogni romanticismo di cui V. Van Gogh si fa autore col dipinto a olio su tela I Mangiatori di Patate‘.

QUEL RAGAZZO CHE SOGNAVA DI DIPINGERE –  Come esseri umani siamo fatti di povertà, ci mancherà sempre qualcosa che sia una gioia, una malinconia, la libertà, la capacità di amare piuttosto che una posizione lavorativa dignitosa, ed è la vita che sceglie per noi, sin dalla nascita, cosa concederci e di cosa privarci. A Vincent Van Gogh, un ragazzo sognatore dalle umili origini, la vita aveva concesso il dono della pittura ma lo aveva, altresì, privato degli strumenti economici necessari per un perfezionamento tecnico che gli avrebbero garantito una carriera artistica sicuramente meno sofferta e una vita meno marginale rispetto alla società in cui, spesso e volentieri, ha ricoperto il ruolo di ‘escluso’.
La vocazione religiosa, avvertita negli anni della gioventù, trova nel pittore piena realizzazione, dopo essere entrato in stretto contatto coi minatori e con la fatica del loro lavoro, nell’amore per i poveri, per i derelitti, per gli incivili, i grezzi, gli ignoranti a cui nessuno mai prima aveva riservato lo spazio ‘immortale’ di una tela.
Spogliarsi delle proprie vesti per scegliere lo status quo della povertà, mischiarsi tra contadini e pastori per scrutarne i volti, sporcarsi le mani della fatica dei campi, fiutare la natura per coglierne gli odori: è ciò che rende eccezionale l’artista olandese, uomo fragile e solitario dall’animo ribelle, dotato di una percezione sensitiva alquanto insolita e perciò spesso incompresa.

IL QUADRO COME SIMBOLO SOLIDALE CON IL LAVORO DEI CAMPI –  Non è un’opera di denuncia sociale, né di esaltazione della nobiltà del lavoro dei campi: è l’espressione profonda di solidarietà con i sentimenti di fatica, miseria e convivialità di una famiglia di contadini dalle espressioni composte e serie che esprimono una dignità tale da riscattare la propria misera condizione esistenziale. Lo stesso Van Gogh, nella piena consapevolezza del suo talento, in una lettera al fratello Theo, il quale lo sosteneva economicamente, scrive: “Ho cercato di sottolineare come questa gente che mangia patate al lume della lampada ha zappato la terra con le stesse mani che ora protende nel piatto. E quindi parlo di lavoro manuale. E di come essi si siano guadagnati il cibo. Ho voluto far pensare a un modo di vivere completamente diverso dal nostro, di noi esseri civili”.

La scelta di rappresentare il momento più intimo di una famiglia intenta a consumare il prodotto del loro duro lavoro giornaliero trova coerenza con l’utilizzo di colori scuri e pesanti, dal grigio al brunastro, che sembrano inglobare i personaggi in un richiamo suggestivo alla terra, ai campi, alla fatica. Unica fonte di luce, seppur fioca, è quella della lanterna posta al centro della scena di modo che potesse mettere in risalto i tratti caricaturali e grotteschi dei volti e delle mani, piegati dalla brutalità della spossatezza.
Ruolo protagonista all’interno del dipinto è attribuito al piatto di patate e cicorie che sembra brillare di luce propria, quasi come se fosse l’unica fonte di forza da cui attingere per affrontare le fatiche che verranno il giorno successivo in cui, inevitabilmente, si farà ritorno nei campi. Il momento è gioioso, di condivisione e di liberazione dalla schiavitù del lavoro ma è anche spunto di riflessione sulla misera condizione di povertà con cui, nonostante il sacrificio, questa famiglia è costretta a combattere quotidianamente.

Avvincente è, poi, l’attenta analisi della posizione in cui è ritratta la ragazzina di spalle. Un alone biancastro sembra avvolgerla creando un suggestivo effetto di controluce, quasi a simboleggiare una piccola speranza riposta nel futuro, nella ricerca di un riscatto morale che spetta proprio a quella ragazzina ricercare e raggiungere, nonostante le difficoltà evidenti della situazione di partenza in cui si trova costretta a vivere. È come se il pittore volesse salvarla da una vita di stenti, come se lo stesso Van Gogh, ancora agli inizi della sua carriera da artista, difronte alle proprie difficoltà trovasse un modo catartico per partecipare emotivamente a quella condizione e riuscisse a trovare del positivo per credere che sia possibile un riscatto.

“Continuai a dipingere e a ripetermi di guardarmi dentro. Ho passato tutta la vita da solo chiuso in una stanza. Ho avuto bisogno di uscire a lavorare per dimenticare chi sono. Sentivo il bisogno di essere fuori controllo, di essere in un continuo stato febbricitante. Viene definito l’atto di dipingere per un motivo. Più veloce dipingo, più mi sento bene, più trovo motivo alla mia esistenza”, ha rivelato lo stesso Van Gogh poco prima di morire.
Sembra un rito, quello che i contadini di Nuenen stanno svolgendo seduti attorno alla loro tavola imbandita di piccole ma grandi cose, un rito che attinge ai più profondi valori umani del lavoro, della semplicità, della ricchezza, seppur paradossale, dell’umiltà e della famiglia.
Il dipinto è conservato al Rijksmuseum Vincent Van Gogh di Amsterdam, in cui si conserva la più grande collezione dell’arte fiamminga e una considerevole collezione di arte asiatica.

DOVE SI TROVA LA SOGLIA TRA RICCHEZZA E POVERTÀ? – Il concetto di povertà è insito nella condizione stessa dell’umanità, nell’esistere. Non ci sarà mai nessuno tanto ricco da poter comprare la vita stessa, poiché tanto alto è il suo valore e tanto fragile è la nostra condizione di fronte ad essa. La ricchezza è, dunque, quel fiore che coltivato giorno per giorno produce frutti, i frutti dell’anima.
Trovarsi tra gli ultimi, in una società globalizzata sempre tesa all’omologazione, è una condizione privilegiata se si dovesse tener conto di una povertà che colpisce più gli animi che le tasche.
È povero chi vuole sempre troppo, è povero chi non sa amare e non si lascia amare, è povero chi ha perso la capacità di meravigliarsi davanti alla maestosità della natura, è povero chi tende a prevalere sugli altri giocando con le loro debolezze, è povero chi è convinto di essere padrone del mondo, è povero chi non ha speranza.
Era ultimo tra gli ultimi chi, nel lungo percorso ad ostacoli che è la vita, ha comunque trovato un modo per riscattarsi, come ci insegna Van Gogh. Era ultimo tra gli ultimi chi non ha trovato conforto negli altri, ma in sé stesso. Era ultimo tra gli ultimi chi non ha mai dimenticato le proprie radici e con umiltà ha scoperto il coraggio di crederci sempre. Era ultimo tra gli ultimi chi ha colto un modo tra i tanti per rendersi immortale.

di Massimiliano Erculeo

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