Bernardo Valli agli studenti: “Per fare i giornalisti bisogna essere onesti”

L'INVIATO SPECIALE DI 'REPUBBLICA' RACCONTA IL MESTIERE DI CRONISTA

ValliGiovedì 4 dicembre, in Aula Magna, Bernardo Valli, inviato speciale di Repubblica, ha dialogato con gli studenti. Ha aperto l’incontro il rettore Loris Borghi, invitando Valli ad assistere alla cerimonia di conferimento della laurea ad honorem a Bernardo Bertolucci del 16 dicembre.

“Ringrazio il rettore e il mio amico Maurizio (Chierici, ndr) per avermi invitato qui con voi e per l’invito alla proclamazione della laurea ad honorem a Bertolucci. Al suo nome mi vengono in mente tante cose. Attilio Bertolucci, il padre di Bernardo, era un grande poeta e insegnava Lettere al Maria Luigia quando lo frequentavo anche io. Mio fratello era un ottimo studente mentre io ero mediocre, anzi, si può dire che ero proprio un cattivo studente! Attilio era un professore particolare perché dava ai suoi studenti consigli sui libri da comprare: titoli che allora erano poco conosciuti. Io ero molto pigro e ricordo che leggevo i libri che mio fratello comprava su consiglio di Attilio ma nemmeno li guardava. Queste letture hanno condizionato la mia vita. Ricordo Dumas e tanti altri che alimentavano la mia fantasia di adolescente di provincia.
La provincia è un grande trampolino, quasi tutti i grandi scrittori nascono in città minori dove crescevano la frustrazione, la voglia di evadere e si ha il tempo di sognare. Nella provincia di allora, che non esiste più perché il mondo è cambiato e si è dilatato, andare a Milano era un grande viaggio, un avvenimento, chi andava a studiare a Bologna aveva la sensazione di espatriare. Ho lasciato Parma molto presto, seguendo i miei sogni di avventura, ma sono riuscito a mantenere l’amicizia con Bernardo Bertolucci, perciò ringrazio ancora per l’invito alla proclamazione.”

 

Dopo l’introduzione, sono gli studenti del corso di Giornalismo e Cultura editoriale a intervistare Valli.

Il mestiere di inviato speciale incontra molti problemi di sicurezza e siamo bombardati da notizie che arrivano direttamente dalle zone di guerra senza la mediazione del giornalista tramite Facebook, Twitter, internet. C’è ancora bisogno della figura professionale dell’inviato?

“Precisiamo che le notizie non arrivano dal nulla. C’è sempre qualcuno che le va a cercare e questi è il personaggio chiave del giornalismo, il cronista: le notizie che sentiamo in televisione o che leggiamo sui giornali o sul web vengono raccolte da cronisti, da agenzie. Alla fonte del giornalismo c’è sempre il cronista che esiste sempre, anche se anonimo. Il cronista non è solo quello che va in guerra ma anche quello che riporta un incidente stradale. Il giornalismo come sistema informativo esisterà sempre, sono i mezzi che cambiano. Se non avessimo avuto i cronisti, non avremmo mai saputo nulla dello scandalo romano e quindi non avremmo potuto quantificare la corruzione del sistema politico.

Il giornalismo è cambiato profondamente. Io ho mandato le prime corrispondenze per telegrafo, poi siamo passati al telex e l’informazione si è quindi accelerata: è emersa la velocità come caratteristica fondamentale del giornalismo.”

Cosa hanno perso e cosa hanno guadagnato il giornalismo e la figura del reporter di guerra in questa evoluzione?

“E’ cambiato tutto. Se arrivavi a Pechino nel 1970 dovevi immediatamente cercare di prendere contatto con qualcuno del posto, con l’ambasciata o con un collega. Una volta il giornalista era meno informato ma seppur l’informazione era limitata, era anche personale, vi si intravedeva il carattere del giornalista che viaggiava: c’era la Cina di Chierici, la Cina di Valli e via dicendo e attraverso tutti i racconti si arrivava alla sensazione generale della Cina. Ora, se apro il computer ho già tutte le notizie di base perciò faccio un articolo più esatto ma senz’anima.”

Negli ultimi tempi il linguaggio della stampa ha assunto dei connotati a volte volgari. Le capita di scrivere una parolaccia per rafforzare un concetto?

“Le racconto un episodio. Un grande giornalista morto suicida era a lavorare in Francia e un giorno vede che le persone che gli stanno intorno si passano di mano in mano il giornale Le Figaro e, incuriosito, riesce a recuperarne una copia. In prima pagina c’era un articolo nel quale compariva la parola ‘merda’. Una cosa del genere non era mai accaduta fino ad allora e questo giornalista è andato alla redazione de Le Figaro per capire come questa parola fosse potuta uscire sulla prima pagina di uno dei giornali più importanti di Francia. Il correttore di bozze di allora era un vecchio colonnello che aveva censurato inizialmente la parola ma quando il caso era arrivato al direttore, questi ha riunito il consiglio e ha deciso di farla uscire.”

L’informazione può manipolare il potere nei conflitti di guerra? E qual è il potere di internet?

“Ho sempre fatto questo mestiere sapendo che non avrei cambiato la realtà. In tutti gli anni della mia carriera ho cambiato opinione al riguardo della guerra. I corrispondente di guerra è un grande rompiscatole, va a scavare nella propaganda degli eserciti: per esempio, in Vietnam non c’era censura ma l’esercito raccontava un sacco di balle.”

C’è grande differenza tra il giornalismo italiano e quello europeo?

“Io parlo sempre male di questo mestiere ma vi confesso che se dovessi ricominciare a vivere lo rifarei perché mi ha permesso di seguire i grandi avvenimenti che hanno caratterizzato il mio tempo.

Bisogna fare una distinzione anche nel giornalismo europeo. Quello anglosassone è il frutto di una civiltà commerciale, dell’imperialismo e del colonialismo inglese (e di riflesso si è creato quello americano) quindi era un giornalismo caratterizzato da notizie esatte. Il Times di Londra in prima pagina non pubblicava notizie ma solo annunci pubblicitari, almeno fino al 1960 circa. Era un giornalismo che si avvaleva di grandi editoriali ma le notizie dovevano essere esatte perché l’Inghilterra era una potenza commerciale e aveva bisogno di dati certi. Il giornalismo francese, invece, è stato molto importante ma di stampo pamphlettario: non a caso, una delle sue pagine più straordinarie è stata il ‘J’accuse’ di Zola, che è fondamentalmente un attacco. Il giornalismo italiano ha sempre sostenuto di ispirarsi a quello inglese e tedesco mentre, in realtà, subiva forti influenze dalla Francia.

Oggi la differenza si è molto attenuata ma quando vedo che ci sono otto pagine dedicate alla politica interna mi infastidisco, vuol dire che restiamo legati al provincialismo.”

Secondo lei, è giusto dare visibilità pubblicando le atrocità di gruppi come l’Isis? Non sarebbe meglio dare la notizia in modo meno enfatico?

“Io credo che si debba pubblicare tutto. E’ vero che spesso si fa un favore a questi gruppi ma se si segue questo criterio non si dovrebbero pubblicare le notizie sui delitti. Credo che si debba semplicemente seguire un certo criterio, avere un po’ di buon senso. La storia dell’Isis e del califfato è stata molto deformata. Esattamente un secolo fa si è dissolto l’Impero Ottomano alla fine della prima guerra mondiale e sono venute a crearsi diverse nazioni che, per secoli, avevano vissuto sotto dittatura.

‘Califfato’ significa ‘luogotenente’ e ‘successore’ e dopo la morte di Maometto si formarono due tendenze: una che voleva che i familiari del profeta guidassero l’islam e i sunniti che sostenevano che la comunità dovesse eleggere un nuovo capo.

Cosa ha formato l’Isis? La componente principale deriva dall’esercito di Saddam Hussein che è stato distrutto dagli americani: i soldati si erano dati alla macchia con le loro armi e si erano dispersi per poi unirsi ai musulmani dissidenti seguaci di Al Qaeda. Si forma così una guerriglia antiamericana che piano piano assume sempre più un carattere religioso. Gli americani creano delle milizie mercenarie ma quando se ne vanno, sale al potere uno sciita che commette un errore colossale: perseguitò i sunniti, che costituivano una buona percentuale di abitanti e tolse il denaro ai miliziani creati dagli americani, che si infiltrano nella guerra civile siriana.”

Quando torna a casa dopo un servizio in zone di guerra ha l’impressione che la gente riesca a capire ciò che accade e come si sente, da cronista, di fronte all’opinione pubblica?

“I giornalisti, di solito, spiegano quello che loro non hanno capito, che è un’arte del nostro mestiere. Quello che mi ha sempre stupito è che, in realtà, l’opinione pubblica sa molto di più di ciò che pensiamo. Gli anziani dicono che i giovani sono ignoranti ma io non lo credo: parlando con i più giovani li ho sempre trovati estremamente informati e con un’idea abbastanza precisa di come funziona il mondo.

Chi aiuta i giovani ad avere idee precise? I giornali qui fanno ben poco. I giornali italiani sono uno strumento di informazione che tratta principalmente le vicende interne, mentre si occupano di quelle estere solo in momenti di forte tensione. La televisione? Ho un grande rispetto per questo mezzo come quello che ho per le auto (e specifico che preferirei tornare ai tempi in cui si andava a cavallo). Il testo di un giornalista della tv è di dieci o quindici righe, non di più: si riescono a dare tutte le sfumature di un evento?

La gente non legge i giornali, che hanno perso più della metà delle loro tirature e tra un po’ di tempo, forse, saranno ad uso e consumo di un pubblico particolare.

Il giornalista deve difendersi dall’editore che è una grande potenza perché decide tutto, da chi va a fare un servizio allo spazio da riservare ad un articolo. Il direttore deve convivere con l’editore che può essere un avversario. Tutto questo fa del giornalista una persona fragile e corruttibile.”

Lei nella sua scrittura ha saputo mantenersi oggettivo pur senza abbandonare la passione. Per un aspirante giornalista, quale consiglio può dare per essere obiettivo senza farsi prendere troppo dalle passioni?

“E’ un’alchimia molto difficile. Io non so cosa significhi essere obiettivo. Le idee sono quelle che sono e traspariscono anche nella scelta delle notizie ma non deformano i fatti. Bisogna essere onesti: la gran parte della mia vita l’ho passata a correggermi.”

 

di Silvia Moranduzzo

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