L’insostenibile leggerezza dell’essere alla moda

FAST-FASHION? LA SOSTENIBILITA' AMBIENTALE PASSA ANCHE PER LA T-SHIRT A BASSO COSTO

 

Zygmunt Bauman, nel suo ‘Amore liquido’ ammoniva l’umanità contro i legami usa e getta. “Le relazioni – diceva, parafrasandolo – non sono come delle t-shirt, che si possono usare una volta e gettare quando non piacciono più. L’amore merita perseveranza”. Ecco, Zygmunt Bauman con questa frase non educava alla sostenibilità. La moda usa e getta, quel fenomeno che è stato soprannominato ‘fast fashion’, oltre a molte controversie, non si può dire sostenibile. Per ‘fast fashion’ s’intende quel settore dell’industria dell’abbigliamento che produce collezioni ispirate all’alta moda, ma messe in vendita a prezzi contenuti e rinnovate in tempi brevissimi.

Storicamente il fenomeno si stanzia all’inizio degli anni 2000, quando catene di negozi economicamente ‘abbordabili’ hanno visto aumentare il loro flusso di clienti. Tutto ciò ha innescato un meccanismo per cui la produzione di nuove collezioni fosse un obiettivo da inseguire, e che praticamente ogni settimana i clienti potessero affacciarsi nei negozi e trovare sempre nuovi abiti da comprare. Questo ha fatto in modo che si passasse dalle 4 stagioni ‘classiche’ alle oltre 50 che il mondo della fast fashion dettava, facendo la fortuna di questi brand ma la sfortuna dell’ambiente. Quando compriamo a 9,99, sentendoci dei maestri dell’economia domestica, ci chiediamo mai per quale motivo quell’indumento costa così poco? No. Perché l’affare fatto ci rende momentaneamente troppo felici per pensare alle conseguenze. Comprare a 9,99 non vuol dire solamente che si sta comprando una merce non di qualità, come, superato il momento di fugace felicità, arriviamo a comprendere. Comprare a quel prezzo vuol dire soprattutto che la sua produzione, dalla filiera allo smaltimento, ha più di qualcosa che non va.

L’INSOSTENIBILITA’ DELL’INDUSTRIA. I DATI – A riguardo è interessante leggere “Panni Sporchi“: il report di Greenpeace che racconta tutto ciò che si nasconde dietro la filiera della produzione industriale dell’abbigliamento. Quello che è un costo bassissimo per il consumatore nasconde, tanto per cominciare, un costo altissimo per il pianeta e non solo. In media, nel suo ciclo di vita, un indumento figlio della fast fashion risulta dannoso per l’ambiente durante ogni fase della lavorazione: la produzione delle fibre causa il 18% delle emissioni di gas totali prodotte dall’industria manifatturiera, quella dei filati il 16% e quella legata all’utilizzo da parte del consumatore, che comprende lavaggio, asciugatura e smaltimento, ben il 39%. Le fibre sintetiche, come il nylon e il poliestere sono poi quelle con gli effetti peggiori sull’ambiente: in quanto materiali plastici, che derivano dal petrolio, per la loro produzione il settore dell’abbigliamento utilizza 98 milioni di tonnellate di risorse non rinnovabili.

All’industria dell’abbigliamento è da attribuire il 20% dello spreco globale di acqua. La fibra naturale più utilizzata, il cotone, richiede circa 11.000 litri d’acqua per produrre un chilo di materiale, 2700 litri in media per una normale t-shirt. Utilizzare materiali a basso costo comporta ovviamente uno sforzo maggiore nella lavorazione che vuol dire spreco di risorse elevato all’ennesima potenza per sopperire alla scarsa qualità dei materiali. Inoltre, l’intera produzione tessile globale è responsabile dell’emissione di più gas serra rispetto alla somma degli spostamenti aerei e navali del pianeta. Parliamo circa del 10% dell’emissione globale di anidride carbonica del mondo.

LO SMALTIMENTO – Il ciclo di insostenibilità del settore poi riguarda anche la fase di smaltimento. Al presunto termine della propria vita, poi, l’85% dei vestiti prodotti finisce in discarica e quindi bruciato, producendo una quantità enorme di gas e sostanze nocive per il pianeta. Solamente l’1% della produzione finisce per essere riciclato. Inoltre, la messa in vendita in 50 settimane di abiti che risultino appetibili al mercato implica una sovrapproduzione di merce per i singoli negozi, merce che rimane invenduta e poi smaltita. Per capirci, parliamo di numeri a 9 zeri. Come riportato da Bloomberg, nel 2015, l’industria dell’abbigliamento ha prodotto oltre 100 miliardi di capi per 7 miliardi di persone, la cui conseguenza è stata di 4,3 miliardi di dollari di merce invenduta. Come smaltire questo grattacielo di indumenti? Bruciandoli, provocando emissioni di anidride carbonica per 1,35 tonnellate per megawattora, più della combustione del carbone e del gas naturale.

IL CAPITALE UMANO – C’è un dato, poi, che non viene praticamente mai considerato: l’etica. Quando sull’etichetta della nostra t-shirt leggiamo la nazione in cui questa è stata prodotta, raramente pensiamo al fatto che stiamo indossando il lavoro di una manodopera a basso costo, che vive ai limiti della schiavitù. Chiuse in capannoni semidistrutti, senza alcun tipo di tutela, persone, per lo più bambini, producono abiti economici per il nostro mondo occidentale. Bangladesh, Cina, Vietnam, sono solo alcuni dei luoghi di provenienza dei nostri capi, luoghi in cui la manodopera è pagata dai 30 ai 40 centesimi l’ora. Come racconta il New York Times, nel 2013 lo stipendio minimo di un lavoratore del Blangladesh era di 38$ al mese. Oggi le condizioni sono migliorate, portando il salario a “ben” 68$ dollari.

Quando pensiamo alla recente “Via della seta” inaugurata dal governo, dobbiamo pensare che un paese come la Cina, in pochi anni, è passata dall’essere un paese con un’economia in via di sviluppo a uno con un’economia necessaria al mondo occidentale. Questo è anche figlio delle condizioni di vita disastrose dei suoi lavoratori, che devono stare a leggi del mercato insostenibili per continuare a sopravvivere. È necessario sottolineare che, a fronte di recenti proteste messe in atto da chi ha a cuore queste problematiche, tanti brand di fast fashion si sono impegnati per cercare di ottenere dei risultati che conferissero dignità lavorativa alla loro manifattura. Non sempre però si è riusciti nell’intento, perché fare i conti con uno Stato che fa di questa economia il proprio modello di sviluppo risulta davvero come contrapporre Davide a Golia.

 

LA SALUTE – C’è poi un altro dato su cui riflettere. Indossare questo tipo di abiti danneggia non solo la salute di chi li produce, esponendoli a rischi incalcolabili, ma anche noi che li indossiamo. Infatti, ad ogni lavaggio, gli indumenti di bassa qualità che abbiamo acquistato rilasciano delle microfibre e microplastiche che sono dannose prima di tutto per la nostra salute. Lavare, per esempio, una giacca sintetica comporta il rilascio in lavatrice di 1,174 milligrammi di microfibre in media, il 40% delle quali arriva a fiumi, mari e oceani. E, com’è facilmente intuibile, da lì giunge nel sale da cucina, oltre che in tutti i gradini della piramide alimentare acquatica. Parliamo di dati da non sottovalutare, e per capirlo basta anche solamente pesare a quanto spesso laviamo gli indumenti di uso più comune. È obbligatorio quindi capire la necessità di allungare la vita dei nostri capi, non etichettandoli come usa e getta, ma conferendo loro quantomeno la dignità che non è data a chi li produce. Riutilizzare un paio di jeans che pensavamo di non mettere più costituisce un regalo fatto all’ambiente e alla nostra salute, pensando diversamente la globalizzazione del nostro tempo.

IL COMPROMESSO – Alcuni dei brand più famosi, anche tra quelli che hanno fatto della fast-fashion la loro fortuna, hanno fatto i conti con l’insostenibilità della propria produzione. Ne è scaturita una particolare attenzione alla tematica, che ha comportato la nascita di collezioni dedicate alla sostenibilità e all’etica della propria produzione. Su internet sono facilmente ricercabili i nomi di quei marchi attenti a non fare del male al pianeta (o a farne il meno possibile), così come di quelli che utilizzano materiale riciclato per la propria produzione. Ci sono poi i tessuti “sostenibili”, come la canapa o lino, il cotone se ben utilizzato, il caucciù o la gomma naturale. Tanti brand sono nati negli ultimi anni proprio con lo scopo di fare moda sostenibile, dando alla luce prodotti che non hanno esteticamente nulla da invidiare a quelli “canonici”. Da sempre, il problema di una vita sostenibile è legato al prezzo di questa, e sarebbe una bugia affermare che questo non sia un problema vero. Tanti di questi marchi, però, si prodigano e attivano costantemente in sconti che rendano accessibili i loro prodotti, proprio perché la filosofia alla base di una certa produzione può valere quanto (se non di più) il ricavo aziendale. La vera speranza, però, è legata alla consapevolezza dei compratori. Quando la nostra sensibilità sarà davvero vicina a queste tematiche, allora potremo davvero invertire una tendenza, e mettere i bastoni tra le ruote a chi, solleticandoci l’appetito, ha creato questa tendenza.

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