Barcellona vs Madrid, tempi supplementari?

LA PARTITA CON LE ULTIME ELEZIONI DELLO SCORSO APRILE, È FINITA 1 A 1. ORA SI SPERA CHE, CON L'ESITO DEL PROCESSO CHE COINVOLGE DODICI LEADER INDIPENDENTISTI, SI ARRIVI AL TRIPLICE FISCHIO FINALE.

Sergio Marchi / Flickr

A Barcellona appese ai balconi ci sono le bandiere della Catalogna, i cartelli sono in Catalano, sui muri e sull’asfalto si vedono disegnate coccarde gialle, le stesse che si vedono cucite sui petti degli indipendentisti più entusiasti e orgogliosi. Sono simboli di una secessione annunciata e il segno distintivo di un Paese da sempre esistito e che sente, di questi tempi, sempre più forte e giusto il desiderio di reclamare la propria identità.

Sono tanti gli interrogativi che sorgono parlando di indipendenza a Barcellona. La questione sembra essere – come tutte quelle legate al potere – mossa soprattutto da ragioni economiche: “Tutti i nostri soldi vanno a Madrid (sede del potere centrale del Paese), che però non investe su di noi, lasciandoci senza prospettive future”. Sono queste le prime motivazioni che emergono parlando con la gente della capitale catalana, prima ancora delle ragioni culturali, che non sono assolutamente da dare per scontate: i catalani sono stanchi di lavorare per gli altri e non ricevere nulla in cambio. Alcuni vorrebbero anche che la Catalogna diventi come i Paesi Baschi, regione che gode di semi-indipendenza economica da Madrid e che in questo modo riesce a mantenere buona parte delle proprie ricchezze all’interno.

Per capire meglio la situazione attuale, dobbiamo fare un passo indietro e ricordare i due avvenimenti scatenanti gli arresti dei dodici principali leader, fatti che hanno interessato l’autunno di due anni fa e che, per la violenza che li ha caratterizzati, restano ad oggi scolpiti nella memoria degli indipendentisti, scaldando ancor di più i motori della lotta per l’indipendenza.

Il 1 ottobre del 2017, giorno del referendum proibito, si riversarono su Barcellona migliaia di agenti della Polizia nazionale e della Guardia civile, con l’ordine di bloccare il voto. L’ordine fu applicato con l’uso di una violenza brutale: molti manifestanti furono feriti e il Governo spagnolo si trovò al centro delle critiche mondiali. Anche la polizia catalana finì nel vortice delle accuse, per aver “fatto finta di niente”, collaborato per la riuscita del referendum e difatti, l’allora capo della polizia è ugualmente accusato di ribellione.

L’ altro avvenimento, motivo d’accusa da parte de Tribunale supremo, risale invece a qualche settimana prima la vietata votazione: la grande protesta organizzata fuori dal ministero dell’Economia catalano. Circa 40mila persone si radunarono per protestare, capitanati dai leader delle due principali organizzazioni indipendentiste catalane, Jordi Sanchez e Jordi Cuixart, i primi ad andare in prigione con l’accusa di ribellione, il reato più grave. La manifestazione era stata indetta per impedire l’arresto dei funzionari che, all’interno dell’edificio, si stavano occupando dell’organizzazione del referendum.

Barcellona, sede del governo catalano. Lo striscione appeso, scritto in catalano, recita: “Libertà d’opinione e d’espressione. Articolo 19 della Dichiarazione universale dei diritti

Se dodici dei leader più importanti si trovano attualmente dietro le sbarre da due anni, a non esserci è il membro più importante, l’allora presidente Carles Puigdemont che, da altrettanto tempo, si trova in esilio in Belgio, con la consapevolezza che non potrebbe tornare in Spagna da uomo libero. Puigdemont aveva fatto approvare al Parlamento catalano – che è tuttora a maggioranza indipendentista – leggi che avrebbero portato ad organizzare un referendum sull’indipendenza della Catalunya. Ovviamente le leggi non ottennero approvazione dal Tribunale costituzionale spagnolo e il tanto voluto referendum fu dichiarato illegale dalla Magistratura.

Il processo iniziato a Madrid a febbraio di quest’anno, vede quindi coinvolto mezzo Parlamento catalano che, quel famoso autunno di due anni fa, aveva appoggiato la secessione della Catalunya. L’accusa principale che pende sulle loro teste, è gravissima e secondo le norme del codice penale prevede fino a trent’anni di reclusione: ribellione, per aver tentato in vari modi, persino incitando alla violenza, di ottenere la secessione di una regione del paese con un referendum considerato illegale dalla Magistratura e la conseguente dichiarazione di indipendenza, a seguito dell’esito positivo del voto, proclamata con l’approvazione del Parlamento locale. Una mossa, secondo il Tribunale supremo, volta a modificare il sistema costituzionale del Paese. Secondo molti penalisti, però, che hanno studiato le accuse, non ci sarebbero stati atti di violenza e questo è quello che si sente anche dalle molte persone comuni interpellate in giro per Barcellona, che dicono banalmente: “non sono mica entrati in città con i carri armati, sono accusati di aver fatto un colpo di stato quando in realtà volevano solo far votare le persone, per dimostrare la volontà di indipendenza chiesta dalla maggioranza della regione”. In questo caso, allora, potrebbe esserci uno spiraglio per i dodici: il Tribunale –se cambiasse idea- potrebbe prendere in considerazione il reato di sedizione, meno grave di quello di ribellione, che accusa sempre di protesta violenta, ma con l’obiettivo di modificare leggi invece che l’ordine costituzionale. La sentenza dovrebbe arrivare prima di agosto e c’è molta attesa per le sorti de i dodici.

Sembra esserci molta speranza per un buon esito del processo, anche grazie al punto messo a segno dal movimento Indipendentista catalano, portando la partita su un pareggio: durante le elezioni dello scorso aprile, gli Indipendentisti hanno infatti conquistato il Parlamento di Madrid, aggiudicandosi ben quindici seggi. Una vittoria importantissima, che potrebbe aprire al dialogo.

La questione dell’indipendenza è molto più grande di quello che sembra e le ragioni non sono solo economiche, anche se sono quelle su cui premono di più i leader del movimento. Dietro c’è tutto un discorso sull’identità, sul sentirsi stranieri in quello che dovrebbe essere il proprio Paese. Si tratta di parlare un’altra lingua e non volerla perdere, di avere un’altra cultura e continuare a trasmetterla ai propri figli e di continuare a rispondere “Della Catalogna” alla domanda “Di dove sei?”. La fiamma dell’indipendenza è ben lontano dallo spegnersi, alimentata ancor di più dagli avvenimenti passati, le cui conseguenze si sono trascinate fino ad oggi. I catalani non dimenticano le violenze che hanno subito per voler esprimere la loro posizione politica nei confronti di Madrid, con il voto del referendum. E non dimenticano gli arresti di dodici persone, in attesa di giudizio da due anni, in prigione con la vita in sospeso.

di Greta Ammendola

 

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