Usato e abbandonato: il popolo curdo e la guerra senza fine

IL PUNTO DELLA SITUAZIONE

Negli ultimi anni siamo stati abituati a sentir parlare dei curdi e dei loro rapporti altalenanti con Paesi come Stati Uniti, Russia e Turchia. Oggi veniamo travolti dagli aggiornamenti: i turchi iniziano una guerra contro i curdi e gli U.S.A. rispondono con un silenzio assenso. Sappiamo che il Medio Oriente è sempre stato zona di conflitto ma sappiamo chi sono i curdi? Conosciamo la loro storia, la loro cultura? Cosa sta succedendo in questi giorni sui confini della Turchia?

Immagine di Sky TG24

CHI SONO I CURDI? – I curdi, nonostante la loro presenza in tutta Europa, sono un gruppo etnico situato nel Kurdistan – non un vero e proprio Stato, ma una regione geografica con una forte identità geopolitica – che comprende la Turchia sud-orientale, l’Iran nord-occidentale, l’Iraq settentrionale e la Siria settentrionale. Parlano la lingua curda, hanno proprie tradizioni, un proprio diritto e la religione più praticata è l’Islam sunnita. La popolazione stimata è di circa 30-40 milioni di persone, il che li rende il quarto gruppo etnico più numeroso del mondo a non avere una nazione e a formare, negli stati dove sono insidiati, importanti minoranze: in Iraq e in Turchia sono un quinto della popolazione e in Siria sono il 5% e formano la più numerosa minoranza. La grande popolazione e le grandi differenze etnico-culturali hanno fatto nascere nel popolo curdo sentimenti nazionalisti e il desiderio di avere una propria patria dove esprimere liberamente la propria cultura e tradizioni. Sogno che, tra l’altro, trova la propria legittimazione giuridica nel principio di autodeterminazione, alla base del diritto internazionale.

LA STORIA – La grande opportunità di indipendenza fu intravista alla fine della Prima Guerra Mondiale quando con il trattato di Sevres, che poneva fine all’impero turco-ottomano, Francia e Inghilterra promisero di creare uno Stato curdo dallo smembramento dell’ex impero. Tuttavia questo sogno fu infranto poco dopo con il trattato di Losanna, nel 1923. Da lì il popolo curdo ha messo in atto rivolte e azioni di guerriglia per ottenere, se non una nazione, almeno parità di diritti e libertà, ma questi tentativi sono sempre stati stroncati con repressioni violente da parte degli Stati coinvolti (in particolare Turchia e Iraq) e prevalentemente ignorati dalla comunità internazionale. Celebre esempio è quello della Repubblica di Mahabad (1946), situata in territorio iraniano, che fu la culla dell’autonomismo curdo e che possedeva istituzioni proprie come amministrazione, scuola, infrastrutture, esercito, parlamento e dove si parlava ufficialmente la lingua curda. La bandiera – ancora oggi usata come identificativa del nazionalismo curdo – dimostrava, riprendendo la bandiera iraniana con un sole al centro, la sola volontà di autonomia e maggiore liberalismo e non una netta separazione dallo stato. Tuttavia, dopo solo undici mesi, l’esperimento finì privato del sostegno internazionale e il governo centrale iraniano riprese il controllo dell’area.

La ricchezza idrica e petrolifera della zona, e la sua importanza strategica, hanno portato a violente azioni di repressione della missione libertaria del popolo curdo: l’Iraq di Saddam Hussein ha utilizzato armi chimiche uccidendo migliaia di persone e facendone emigrare altrettante; durante la Guerra del Golfo (1990-91) la diaspora si ritrovò le porte sbarrate del governo di Ankara. Costretti a vivere in una zona di confine e a subire costantemente la negazione violenta della loro identità – e la tortura, come oppositori del regime -, nel 1978 nacque il Partito dei lavoratori curdi (PKK) con a guida Abdullah Öcalan. Inizialmente di stampo nazionalista e marx-leninista, con intenzione di fare del Kurdistan un’entità statuale, fu accusato di far parte di un’associazione terroristica da Turchia, U.S.A. ed Europa. Dalla fine degli anni ’90 il partito si basa sul confederalismo democratico: è promotore di un’idea di democrazia diretta non guidata da un governo statale ma da assemblee municipali e cittadine e di un’ecologia sociale. Di ispirazione a questo partito, nacque sotto i curdi siriani il Partito dell’Unione Democratica (PYD): esso si dimostrò fondamentale nella battaglia contro l’ISIS e per questo fu sostenuto dagli Stati Uniti e dalla comunità internazionale. Successivamente fece dei territori sequestrati all’organizzazione una federazione amministrata dai curdi – il Rojava: controllato dalla milizia del PYD, continuò a combattare a fianco dell’esercito siriano contro il ‘nemico comune’ ma, con la proclamazione della federazione, si scontrarono con il governo il quale definì il tentativo di autodeterminazione curdo incostituzionale. La vena democratica-socialista che lega il PYD al PKK e la loro influenza sul territorio non preoccupano solo Erdoğan che teme una simile rivalsa anche in Turchia, ma anche Siria e Stati Uniti.

CURDI TRADITI – Per comprendere la situazione attuale è necessario  ricordare in breve ciò che avvenne alcuni anni fa e chiarire il motivo per cui il popolo curdo si sente tradito dal mondo occidentale.
Il Partito dell’Unione Democratica (PYD), che controlla i territori curdi attraverso l’unità di protezione popolare (YPG), ricevette il supporto degli U.S.A. perchè fornirono essenziale aiuto nella guerra contro l’ISIS. Nel corso del 2015, grazie a questa alleanza, i guerriglieri curdi riuscirono a riconquistare il Rojava e a espandersi anche in aree precedentemente occupate da popolazioni arabe. Tra il 2016 e il 2017 il controllo su queste aree venne rinforzato, dando anche un contributo determinante alla sconfitta dell’ISIS.

Questi avvenimenti suscitarono grande simpatia da parte del mondo occidentale, grazie anche all’ideologia espressa dal PYD. Il movimento infatti riconosce alle donne gli stessi diritti degli uomini, al punto che esistono anche milizie curdo-siriane composte da sole donne, che combattono a capo scoperto contro gli estremisti islamici. Inoltre il Rojava ha una Costituzione di stampo democratico, pluralista e liberale, con enfasi sull’ambientalismo e sul ruolo delle comunità locali nella gestione del potere. Alcune di queste idee, come spiegato nel paragrafo precedente, avvicinano il PYD al Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), guidato da Abdullah Öcalan. Il fatto che il PKK sia considerato un’organizzazione terroristica dal Governo turco, è una delle cause dell’offensiva nel nord-est della Siria.
Offensiva in realtà iniziata già nel 2015, con l’obiettivo di tenere i curdi lontani dal confine. Per risolvere questa crisi, a fine agosto scorso, è stato firmato un accordo tra curdi, U.S.A. e Turchia: i curdi si sarebbero ritirati dalle zone di confine in cambio della protezione americana a livello diplomatico e militare.

Come era logico pensare, visti gli avvenimenti precedenti, i curdi si aspettavano di ottenere sostegno dal mondo occidentale durante l’offensiva di questi ultimi giorni. Ilham Ahmed, presidente del Comitato esecutivo del Consiglio democratico siriano, ha di recente pronunciato a Bruxelles un discorso in cui chiede all’Europa di sanzionare la Turchia: “Gli Stati dell’UE devono ritirare il prima possibile i loro ambasciatori dalla Turchia perché questa sta violando troppe leggi internazionali e continua a danneggiare la Siria. Questo crimine va fermato e la Turchia deve essere sanzionata per quello che ha fatto”.

TRUMP E LA RISPOSTA AMERICANA- Sabato 5 ottobre il presidente turco Erdogan ha fatto un annuncio che ha dato inizio alla drammatica situazione attuale: “Condurremo un’operazione aerea e su terreno”. Dichiarazione che ha scatenato una forte reazione da parte dell’YPG, in attesa dell’aiuto americano mai arrivato.
Il 7 ottobre è stato annunciato il ritiro delle truppe statunitensi dalla Siria, con parole molto chiare da parte del presidente Trump che su Twitter ha scritto: “I curdi hanno combattuto con noi, ma sono stati pagati con un gran quantitativo di denaro ed equipaggiamento per farlo. Hanno combattuto i Turchi per decenni […], è tempo per noi di uscire da queste ridicole guerre senza fine, molte di queste tribali, e di riportare a casa i nostri soldati. Combatteremo dove ci sarà un beneficio per noi, e combatteremo per vincere”. Queste parole hanno formalmente dato il permesso alla Turchia di far partire l’offensiva, volta ad arginare la creazione di uno Stato curdo indipendente vicino al confine. Il Pentagono ha poi chiarito che verranno ritirati solo un piccolo gruppo di soldati stanziati al confine turco.
Un altro segnale è stato lanciato sempre lo stesso giorno dal presidente Trump su Twitter: “Come ho già detto in precedenza, e solo per ribadire, se la Turchia fa qualcosa che io, nella mia grande e insuperata saggezza, considero off limits, distruggerò e cancellerò completamente la sua economia (l’ho già fatto prima!)”.
Parole sicuramente di grande impatto mediatico, che hanno fatto puntare i riflettori dei media sul comportamento degli U.S.A., ma rimane da chiedersi quanto di ciò che ha scritto sia un’effettiva minaccia e quanto sia solo una mossa per attrarre l’attenzione della stampa, grazie anche al gran numero di interazioni con questi tweet.

LA GUERRA – Poche ore dopo l’annuncio americano Erdogan ha fatto partire un raid aereo contro le forze siriane vicino ad Al-Malikiyak, nell’estremo nord della Siria, vicino al confine iracheno. Nello stesso giorno il presidente turco ha anche reso noti gli obiettivi del suo piano: oltre alla guerra contro il gruppo curdo considerato terrorista, la Turchia vorrebbe ricollocare 2 milioni di profughi siriani nell’area ora controllata dai curdi. Ovviamente non si è fatta attendere la reazione curda, per voce di Kino Gabriel, portavoce delle Forze Democratiche Siriane, che ha definito l’atteggiamento americano come “una pugnalata alle spalle”, ricordando la promessa fatta dagli U.S.A., che “non avrebbero mai consentito alcuna operazione militare turca contro la regione”.

Un ulteriore sviluppo si è visto il 9 ottobre, quando l’esercito turco è entrato in Siria insieme a 14.000 membri delle milizie locali dell’Esercito siriano libero, evidentemente cooptati da Ankara. L’obiettivo ufficiale, per giustificare l’attacco, è la volontà di “evitare la creazione di un corridoio di terrore a cavallo del nostro confine sud e per portare la pace nel territorio”, come dichiarato da Erdogan. In risposta, le Forze Democratiche Siriane, guidate dai curdi, hanno dichiarato di aver respinto l’offensiva terrestre turca sul confine settentrionale della Siria. Purtroppo non si tratta di una notizia certa, l’unica fonte a questo proposito è un tweet di Mustefa Bali: “L’attacco a terra da parte delle forze turche è stato respinto dai combattenti delle Forze Democratiche Siriane (Fds)“.

Il 17 ottobre gli Stati Uniti hanno invece fatto una proposta al Governo di Ankara: fermare per cinque giorni le operazioni militari per dare il tempo ai curdi di lasciare le aree di confine con la Turchia, in cambio della promessa di non imporre nuove sanzioni e di rimuovere quelle già approvate la settimana precedente. Stando ai piani turchi, i curdi dovrebbero lasciare la safe zone, che corre lungo il confine tra Turchia e Siria a est del fiume Eufrate e si estende per circa 30 km a sud della frontiera. Tuttavia, il comandante delle Forze Democratiche Siriane, la coalizione arabo-turca che combattè contro l’Isis, ha affermato di aver accettato l’accordo solo per quanto riguarda la zona tra Ras al Ain e Tal Abyad, dove si sono concentrati la maggior parte degli attacchi.
Il ‘cessate il fuoco’ turco però non sembra essere molto convinto. Il 18 ottobre in Siria sono continuati i combattimenti, con attacchi aerei e di artiglieria contro i civili e l’ospedale di Ras-al-Ayn, stando alle parole di Bali su Twitter. Erdogan ha negato questi attacchi, ma ha pronunciato un ultimatum: la sera di martedì 22 ottobre l’operazione militare riprenderà se i curdi non saranno stati evacuati dalla safe zone. Inoltre, la Turchia non compirà altre operazioni militari nel nord-est della Siria se la Russia rimuoverà i curdi dell’YPG anche da Manbij e Kobane.
Questo ultimo punto è stato discusso il 22 stesso durante il vertice con Vladimir Putin a Sochi. Entrambe le parti hanno presentato l’incontro in maniera molto enfatica. “Spero che la rinnovata cooperazione tra Mosca e Ankara possa contribuire ad una risoluzione rapida ed efficiente a tutte le tensioni che stanno affliggendo la regione” ha dichiarato Putin. Parole molto simili anche quelle di Erdogan: “Questo incontro è davvero una grande opportunità per raggiungere la pace”. Al di là delle parole propagandistiche ad oggi sono state previste altre 150 ore di tregua. Il Washington Post tuttavia ha descritto la situazione in territorio siriano durante le prime ore dell’incontro: le Forze Democratiche Siriane hanno dichiarato di non essersi ancora ritirati del tutto dalla safe zone a causa di alcuni attacchi turchi che sarebbero ancora in corso. Un esponente delle FDS ha dichiarato: “Sembra che la Turchia non sia seria riguardo all’accordo. Ad ora non ci sono ritiri da altre aree”.

LE REAZIONI DELL’UE – L’Unione Europea ha ufficialmente chiesto alla Turchia di fermare l’offensiva militare a causa della destabilizzazione della zona, delle sofferenze dei civili e del rischio di una rinascita terroristica. Inoltre il ricollocamento auspicato da Ankara dei profughi siriani difficilmente potrebbe rientrare nei parametri delle Nazioni Unite, come stabilito dall’Alto Commissario per i rifugiati.
La condanna all’offensiva turca è netta anche da parte del governo italiano, come dimostrano le parole del Ministro degli Esteri Luigi Di Maio: “Penso che l’iniziativa militare della Turchia in Siria sia assolutamente inaccettabile, la condanniamo. Rischia di compromettere la lotta al terrorismo perché le azioni di forza militare in passato hanno sempre fatto proliferare il terrorismo. Dal punto di vista del Ministero degli Esteri e del Governo l’unica strada da perseguire è quella delle Nazioni Unite”. Stessa preoccupazione anche da parte del premier Giuseppe Conte, che teme un’ulteriore destabilizzazione della zona.
Queste parole però hanno portato ad un’inevitabile conseguenza: la minaccia da parte di Erdogan di aprire le porte verso l’Europa ai 3,6 milioni di rifugiati siriani attualmente in Turchia, infrangendo quindi l’accordo preso nel 2016 con l’Unione Europea che prevedeva il respingimento dei profughi sulla rotta balcanica in cambio di 3 miliardi di aiuti economici alla Turchia. Per ogni profugo siriano rimandato in Turchia dalle isole greche, l’Ue accettava di trasferirne uno in Europa utilizzando canali umanitari.

POSSIBILE RINASCITA DELL’ISIS? – Una grave conseguenza dell’attacco turco è il rischio di una rinascita dell’ISIS. Nel campo di Al Hol, controllato dai curdi siriani alleati degli Usa, infatti, sono detenuti circa 10.000 combattenti jihadisti, insieme a circa 2.000 foreign fighters. Il rischio è che la reclusione si trasformi in un focolaio per una nuova ondata di diffusione dell’ideologia jihadista. Pericolo reso maggiormente concreto dalla sospensione da parte curda delle decine di operazioni antiterroristiche contro l’ISIS, condotte quotidianamente.
Secondo fonti curdo-siriane, come spiega anche La Repubblica, inoltre, la Turchia avrebbe bombardato anche un campo di reclusione a Chirkin, in cui sono imprigionati un gran numero di combattenti dell’ISIS, con lo scopo, secondo l’YPG, di favorire la fuga dei jihadisti.

SOSTEGNO INTERNAZIONALE ALLE VITTIME – A causa dell’attacco turco alle milizie curde sarebbero stati uccisi 174 ‘terroristi’ tra membri dello YPG e del PKK, stando alle parole di Erdogan. Tuttavia, secondo il Rojava Information Center, sarebbero morti anche 11 civili curdi. La certezza comunque è che il pericolo è concreto per i civili, 60.000 dei quali sono già in fuga. In una conferenza stampa a Montecitorio, Ahmad Yousef, membro del consiglio esecutivo della Federazione della Siria del Nord, ha avvertito del rischio, oltre all’esodo di 2,5 milioni di persone, di un genocidio a causa della mancata distinzione tra militari e civili da parte della Turchia. Numeri che rendono maggiormente macabro il nome dato a questa guerra da parte di Ankara: Operazione Fonte di Pace. In Turchia, infatti, è vietato parlare di guerra, pena atroci ripercussioni: il massacro dei curdi è presentato come necessità vitale per il popolo turco. Contro il massacro e contro la falsità propagandata da Erdogan sono nate molte iniziative di solidarietà, tra le quali anche un appello proposto da La Repubblica, firmato da intellettuali e premi Nobel e al quale è possibile per tutti aderire, perché “la causa curda ci riguarda. Le guerre si combattono con armi fabbricate e vendute da noi, ci riguarda perché i curdi sono stati gli unici in grado di fermare l’avanzata dell’Isis, ci riguarda perché la Turchia riceve soldi dall’Europa per fermare i migranti siriani”.

Oltre a questi atti di solidarietà a livello nazionale, non possiamo dimenticare di citare le numerose manifestazioni in sostegno delle vittime, che si sono svolte nelle maggiori città italiane. Un atto invece pratico è stato quello fatto dal Comune di Parma, dove è stata approvata all’unanimità in Consiglio Comunale una mozione che chiedeva la condanna dell’attacco turco verso i curdo-siriani. Inoltre, su iniziativa del vice-sindaco Marco Bosi verrà per il momento rimossa la bandiera turca da Ponte delle Nazioni, in maniera da rendere evidente il dissenso dell’amministrazione cittadina nei riguardi delle politiche aggressive di Erdogan.

di Laura Storchi e Lara Boreri

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