Stop ai colpi di testa sul campo da calcio. È così pericoloso?

GLI USA CI HANNO GIÀ PENSATO, LA SCOZIA RIFLETTE. STOP AI COLPI DI TESTA IN CAMPO PER SALVAGUARDARE LA SALUTE DEI RAGAZZI

Uno stop ai colpi di testa per evitare la punch drunk syndrome. Questo è quanto ha deciso la federcalcio statunitense già nel lontano 2014 ed ora il movimento calcistico scozzese. Una decisione preventiva, volta a preservare la salute dei calciatori già dall’età delle giovanili. Ma cos’è esattamente questa sindrome e perché si è arrivato a tanto? Le ragioni dietro una scelta particolare, ma salva vita.

LA MALATTIA DEI PUGILI –  L’encefalopatia cronica traumatica progressiva, identificata come ‘demenza pugilistica’ è stata scoperta nel 1920: “Essa si verifica in alcuni calciatori professionisti in pensione o del college e altri atleti che hanno avuto un trauma cranico ripetitivo e in alcuni soldati con danni cerebrali secondari a lesioni chiuse alla testa a causa di un trauma da esplosione”. Così si può leggere su msdmanuals.com sito d’informazioni sanitarie dal 1899. Ma non è tutto in quanto la F.P.I (Federazione Pugilistica Italiana) nel corso del decennio tra il 1970 ed il 1980 analizzò circa 451 pugili, notando che il 21% dei dilettanti e ben il 43% dei professionisti mostrava una asimmetria con dilatazione ventricolare e con percentuali più basse ma pur sempre importanti un’atrofia delle circonvoluzioni. Così riporta Margherita Frau su boxe-mania.com ed aggiunge: “Venne stabilita una media da cui ne usciva che la sindrome riguardava una parte dei pugili tra il 9 e il 25%, comparendo tra i 7 e i 35 anni dopo l’inizio dell’attività”.

L’ALLARME IN SCOZIA E LO STUDIO PROMOSSO DALLA F.A. – È proprio dalle terre d’oltremanica, in particolare dalla Scozia, che scatta l’attuale allarme: “Lo stato di demenza senile denunciato di recente dalle famiglie di Peter Cormack, ex centrocampista del Liverpool anni ’70, e George Reilly, 62 anni, ex Watford e Wba hanno fatto preoccupare i vertici della federcalcio scozzese”. Riporta così Iacopo Iandiorio per la gazzetta.it che aggiunge come la F.A. (Football Association) in collaborazione con il sindacato dei calciatori abbia finanziato uno studio svolto dall’Università di Glasgow per capire questa patologia.

Lo studio ha riportato dati allarmanti: la ricerca durata quasi 2 anni ed effettuata su 7.676 ex calciatori scozzesi, nati fra il 1900 e il 1976 e curata dal neuropatologo Willie Stewart – che iniziò ad interessarsi di questi casi già nel 2002 – fece una clamorosa scoperta. Il rischio per i calciatori di ammalarsi, rispetto a persone della stessa età e condizioni di vita, è cinque volte superiore per l’Alzheimer, di quattro volte per malattie neuromotorie come la Sla e di due volte per il Parkinson. Un risultato che fa riflettere e che fa capire meglio la preoccupazione per i giovani calciatori.

E IN ITALIA? – Nel Bel Paese per ora l’allarmismo non è ancora scattato, ma potrebbe succedere ben presto. O forse no. Stando a quanto dichiarato dal Dott. Alberto Turchetta – responsabile di Medicina dello Sport dell’Ospedale Bambino Gesù di Roma – e riportato da Michela Crippa su insiemeinfamiglia.com non sarebbe il caso di allarmarsi inutilmente: “Non è il caso di creare inutili allarmismi – afferma il dottore – l’ultima ricerca, basandosi sui campionati USA maschili e femminili, ha messo in luce come il numero di commozioni cerebrali presentate dalle giocatrici fosse al secondo posto in una lista di dieci discipline (e al quinto per i maschi)”. Non si tratterebbe però di un risultato allarmante: “Si parla di 450 commozioni cerebrali su 1 milione e seicentomila esposizioni (dove in una partita 11 contro 11 le esposizioni sono 22). È come se in un campionato con 20 squadre si verificassero 2 commozioni cerebrali in tutto”.

Dunque quale sarebbe la decisione migliore da prendere? Non è ben chiara ancora la strada da percorrere, ma comunque la Scozia sembra essere indirizzata verso l’eliminazione assoluta – a partire da gennaio 2020 – dell’uso del colpo di testa negli Under 12. Una scelta salva vita? I dati degli studi ci sono, ora non resta che aspettare in futuro e capire se la scelta avrà portato ad un calo dell’incidenza della malattia. Resta il fatto che i rischi sono reali e dunque non si può far finta di nulla, in quanto in gioco ci sono la vita presente e futura di milioni di ragazzi che praticano calcio a livello giovanile. Per salvaguardare dei futuri calciatori in erba – non ancora pienamente coscienti dei rischi ai quali vanno incontro – l’intervento delle società, dei genitori e delle federazioni è necessario e di fondamentale importanza. Chi metterebbe mai a rischio la salute di proprio figlio consapevolmente?

di Riccardo Cisilino

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