Congedo di paternità: un diritto o un dovere?

L'EQUO RICONOSCIMENTO DELLA PATERNITÀ CONTINUA AD ESSERE IN ITALIA UN VALORE POCO ACCETTATO. È ARRIVATO IL MOMENTO, PER GLI UOMINI, DI PRETENDERLO

Ancora troppo spesso e sopratutto in Italia  si sente parlare di gender gap che, per coloro che simpatizzano poco con gli inglesismi, indica una condizione di disparità di trattamento fra la donna e l’uomo. Ovviamente è la prima a trovarsi in difetto rispetto al secondo. Sul posto di lavoro, gli ultimi dati Eurostat (2018) confermano questo trend: l’Italia è uno dei Paesi europei con la maggiore disparità uomo-donna, a livello occupazionale.

Fonte: Eurostat

Ma per evitare che questo articolo diventi un manifesto femminista, preferisco affrontare la questione gender gap, da un diverso punto di vista: quello dell’uomo. A tal proposito, va citata la questione relativa al congedo di paternità, di cui ultimamente si sente parlare. For fortuna, aggiungo io. Si tratta della possibilità per il neo-padre di prendersi alcuni giorni di lavoro, retribuiti, da trascorrere con il figlio nato. Va precisato che, in Italia, una donna incinta ha diritto ad un’astensione dal lavoro della durata di 5 mesi.

Ma per quanto riguarda invece i diritti del padre, la durata del congedo è decisamente inferiore: siamo infatti fermi a 5 giorni lavorativi che l’uomo può chiedere, con una retribuzione al 100%. Nel 2019 l’UE ha, però, approvato una direttiva con cui riconosce l’estensione del congedo di paternità obbligatorio a 10 giorni dalla nascita del figlio. Di conseguenza, l’Italia dovrà, entro un periodo di tre anni, recepire la direttiva europea ed ampliare il periodo di paternità.

In ogni caso, anche se portato a dieci giorni, il congedo per i padre resterebbe comunque molto basso. Per meglio comprendere la precarietà della situazione italiana, è sufficiente citare il caso finlandese. Da poco eletta, la prima ministra Sanna Marin ha deciso di alzare a 164 giorni lavorativi (retribuiti) il periodo di congedo riconosciuto a ciascun partner, dopo la nascita del figlio. Certo, quella è la Finlandia e noi siamo l’Italia. Ma 164 a 5 è comunque molto grave.

Ad ogni modo, ho qualche riserva a credere che chiunque riconosca la paternità come un diritto del padre, tanto quanto la maternità lo è per la madre. Mettendo allora da parte i ‘sentimentalismi’, la questione può essere affrontata sotto un’ottica differente: quella economica. Lasciando il carico di un figlio – sempre che non siano gemelli – sulle spalle della madre, infatti, non si fa che peggiorare la cosiddetta motherhood penalty. Si tratta della pausa lavorativa della donna che ha una ricaduta inevitabile sulle sue capacità di guadagno e dunque sull’economia stessa.

Non solo: la motherhood penalty può avere anche delle ricadute sul tasso di natalità, laddove una donna lavoratrice non si senta sufficientemente tutelata da parte dello Stato, nel vivere la propria maternità. Sappiamo bene che in Italia il tasso di natalità è in costante diminuzione: ogni anno arrivano nuovi grafici e tabelle che lo dimostrano. Ma se il bel paese non riesce ad offrire sufficienti garanzie all’istituzione famigliare, ha ben poco di cui lamentarsi. In tutto questo, il legittimo riconoscimento dei diritti e, mi permetto di dire, dei doveri che spettano anche al padre deve essere assunto come parte del problema.

Un grafico di openpolis mostra la decrescita infelice dei nati in Italia dal 1862 al 2017.

Forse, a capirlo è stata la ministra per le Pari opportunità Elena Bonetti, intenzionata a rispettare quanto prima la direttiva europea relativa all’estensione del congedo di paternità obbligatorio fino a dieci giorni. Ma come già detto, siamo ancora lontani dal poter parlare di neutralità nel rapporto maternità/paternità. Sarebbe tuttavia riduttivo fare di questo argomento una semplice mancanza statale. Quella che va cambiata, infatti, non è una legge antiquata, ma una mentalità, quella patriarcale, per cui certe faccende competono alla sola donna. E questa mentalità non è radicata tra i palazzi di governo, ma fra le persone.

La stessa Finlandia, prima citata, si presta come esempio perfetto. Una ricerca pubblicata dalla casa editrice Sage Journal , dimostra infatti come nel paese, l’80% dei padri approfitta del periodo di paternità di cui dispone in concomitanza con la madre (della durata di tre settimane). Tuttavia, per quanto riguarda la quota di congedo parentale che lo Stato riconosce alla coppia e che dev’essere divisa equamente fra il padre e la madre, lo studio mostra uno scenario diverso. “Sharable parental leave, however, is predominantly taken up by mothers”. Nel caso di condivisione delle ore di congedo fra il padre e la madre, ovvero, è quest’ultima a usufruire in maniera predominante delle ore di permesso.

Un’altra ricerca pubblicata sulla rivista accademica Journal of Public Economic riporta, invece, l’analisi condotta sul caso spagnolo, dopo che nel 2007 era stato alzato a 2 settimane il periodo di congedo di paternità. La ricerca, dal titolo Il congedo di paternità riduce la natalità?, dimostra la presenza di una correlazione fra l’introduzione della riforma e la minore predisposizione del padre ad avere un altro figlio, se non dopo un adeguato periodo (circa sei anni). “We show that parents who were (just) entitled to the new paternity leave were less likely to have a subsequent child within the following six years”.

È dunque inutile colmare un vuoto legislativo con delle riforme, se prima non si abbattono le strutture mentali della tradizione patriarcale. E per farlo è prima di tutto necessario sfatare la profonda e radicata convinzione che i ruoli genitoriali sono dati per genere. Altrimenti, in futuro rischieremo di avere padri a cui è riconosciuto il diritto di restare a casa con i propri figli, ma decidono deliberatamente di non farlo.

 

di Martina Santi

Scrivi un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*