Cos’è davvero il Karma? Tra stereotipi e realtà

Nel cuore delle religioni orientali: storia e falsi miti del principio di causa-effetto più famoso e abusato di sempre

È destinato ad essere il capro espiatorio quando non si passa un esame. È merito suo quando si ottiene una promozione a lavoro. È da sempre oggetto di strumentalizzazione di pregiudizi. Ma è solo questo? Forse il Karma è molto di più…

Il senso spirituale della vita

Il Karma, in Sanscrito “karman”, significa “agire”. Esso non può essere compreso a pieno se non si prende in considerazione la stretta connessione con il concetto di Dharma, ovvero la legge universale che governa le nostre vite e che regola i modi di vivere che impediscono alla società, alla famiglia e alla natura di cadere vittime del caos: ciò include i doveri, i diritti, il comportamento appropriato e la religione.

Nelle religioni e nelle filosofie orientali il Karma è ciò che si muove verso un fine, in relazione al principio causa-effetto che vincola tutti gli esseri al ciclo della vita, della morte e della rinascita. I principi del Karma si sono sviluppati dalle Upanisad vediche, i testi sacri del Brahmanesimo ovvero una religione dell’India generatasi intorno all’ultima letteratura vedica tra II millennio a.C e metà del I d.C. Queste sacre scritture sono fondamentali nell’Induismo, Buddhismo, Gianismo e nelle altre religioni orientali.

Fin dalla Grecia antica l’idea di reincarnazione è legata alla tradizione culturale: i Greci la chiamavano “metempsicosi”“trasmigrazione delle anime”. Platone sostenne che l’anima sa tutto perchè ricorda il mondo in cui era prima di incarnarsi e che sceglie il luogo, il tempo e le caratteristiche della nuova vita. Ognuno sceglie la vita che vivrà prima dell’incarnazione ricevendo un Daimon, compagno che ricorda il disegno di vita scelto portatore del proprio destino.


La reincarnazione era nota anche in culture come quella degli Indiani d’America e in molte tribù africane. Inizialmente il concetto era accettato anche dagli Ebrei e prima ancora dagli Esseni. Nella tradizione induista, invece, il ciclo di vite in cui l’anima si incarna durerà fino a che questa non si libererà dal debito karmico, giungendo all’illuminazione.

In Occidente il concetto orientale di Karma si diffuse nel XIX secolo grazie alla Società Teosofica e si sviluppò mediante le odierne filosofie New Age. Rudolf Steiner, fondatore dell’antroposofia, sostenne che il corpo dipende dalla legge dell’ereditarietà, cioè il progetto dell’Io prima di incarnarsi e degli eventi della vita successiva come opportunità per evolvere. Secondo la fisica quantistica, la reincarnazione esiste, ma le vite precedenti sono in realtà esistenze non passate, ma semplicemente in sincronia con il presente.

Per gli Occidentali il concetto di Karma è ridotto all’idea di ‘destino’, cioè il risultato delle proprie azioni o come un Dio che determina il fato. Poichè la religione cattolica non crede nel principio karmico perchè non crede nella reincarnazione delle anime, il Karma è stato reinventato diventando una responsabilità delle proprie azioni in questa vita, non in quella futura.

Tutti i piani dell’esistenza dell’uomo sono dominati dalla Legge del Karma. In connessione alla Legge del Dharma, ogni azione compiuta nella vita produce un Karma che può essere positivonegativo. Lo stato materiale e spirituale di ogni essere vivente è la conseguenza del Karma accumulato in miliardi di vite precedenti. Per liberarsi, l’uomo deve raggiungere un’elevata condizione spirituale grazie a un Karma positivo, arrivando all’Illuminazione, il Nirvana, la completa liberazione e la fine del ciclo.

Per arrivare a ciò ogni individuo deve seguire le 12 Leggi del Karma, una vera e propria guida. Secondo la legge, non esiste nessuna divinità che possa annullare gli effetti di un’azione cattiva. Un Karma negativo può far rinascere un individuo nel mondo animale o nel mondo demoniaco, in un piano esistenziale più basso all’uomo o come uomo che si trova ad un livello spirituale basso. Un Karma positivo può, invece, far rinascere come uomo di elevato livello spirituale, nel mondo divino o in un piano esistenziale superiore all’uomo.

La strumentalizzazione

Il Karma quindi è una legge di causa ed effetto e di responsabilità. La parola “legge” ci suggerisce un ambito sociale, civico: non è solo quindi una visione religiosa, ma una parte pratica della vita degli uomini. Tutto ciò che una persona fa genera del Karma.

Purtroppo nell’evoluzione storica del Buddismo fu alterato il significato originario di questo principio e divenne dominante l’idea di un karma che vincola la vita dell’individuo. Su questa idea hanno poi marciato capi religiosi per il controllo dei propri fedeli. Ma perché si interpreta in modo così erroneo il concetto che sta dietro alla parola – fin troppo spesso utilizzata – “karma”?

Dall’antichità e ancora oggi, in India e nelle vaste regioni abitate dalla cultura buddista, una grande responsabilità l’hanno avuta diversi uomini religiosi dalle idee distorte, con manie di controllo del popolo. Spesso si affermava che solo il clero avesse il potere di cancellare il male e le offese passate: la credenza comune era che solo i sacerdoti potessero liberare le persone dalla prigione del Karma.

In passato questo principio è stato usato in modo negativo per far sì che i membri svantaggiati della società accettassero le condizioni di vita che si trovavano ad affrontare e che venivano imposte dai piani alti. La maggior parte della popolazione veniva presa da un senso di impotenza e timore. I capi religiosi avevano in mano uno strumento forte: il messaggio che se ci si fosse comportati nel modo sbagliato, secondo la società del tempo, si avrebbero avuto conseguenze negative, senza poter cambiare la propria situazione. 

Sicuramente queste idee si diffondono in un ambito religioso autoritario dove l’obiettivo è quello di strumentalizzare l’individuo in quanto fedele. Questo accadde ad esempio nell’antica India dove il karma era un principio della religione brahmanica. L’elemento culturale predominante era dato dalla speculazione e dalla religiosità. L’istituzione dell’ordinamento castale assicurava la supremazia dei sacerdoti (brahmani).

Questo però non è il vero significato buddista di karma. Il messaggio e lo scopo non è quello di temere per il futuro, sedersi e accettare passivamente le proprie disgrazie pensando solo ai propri errori. Il punto di vista dovrebbe essere positivo: ci si dovrebbe sempre muovere verso un miglioramento della propria persona e della propria condizione. Nulla è mai perduto e soprattutto la colpa non definisce l’identità dell’individuo. 

Dall’insegnamento del Daishonin, monaco buddista giapponese vissuto nel XIII secolo, impariamo che il karma è qualcosa che si può combattere e superare: il suo approccio è basato sull’umanesimo e non sull’autoritarismo. Il pensiero fondante umanista di Daishonin e della sua corrente era che le persone avessero la possibilità di migliorarsi: l’uomo in quanto essere credente veniva messo al centro della sua stessa fede, e non controllato da terzi. A questo punto di vista si oppone quello dei sistemi religiosi autoritari, che cercavano di far passare il concetto erroneo di un karma immobilizzante, un karma che il singolo non avrebbe mai potuto cambiare, se non sottoponendosi al controllo di uomini con una carica importante nell’ordine religioso

“Che Karma di m…a” Cit.

“Stamattina, alzandomi, ho sbattuto il mignolino contro uno spigolo: maledetto karma!”, “Proprio oggi volevo andare a correre e invece piove, il karma mi odia”, o ancora “Trovo il mio maglione preferito ma non c’è la mia taglia, c’è lo zampino del karma”: quante volte abbiamo sentito frasi del genere? Quante volte abbiamo etichettato il karma per qualcosa che in realtà non è?

Nonostante questo termine venga utilizzato sempre più frequentemente e sia stato adottato appieno nel vocabolario quotidiano, sembra che non tutti abbiano compreso il significato di “karma”. Lo intendiamo in maniera erronea o impropria, associandolo al destino. Si giustificano le proprie azioni con il karma, quando chi ci piace non è interessato/a a noi, quando non non si passa un esame, quando litighiamo con i nostri genitori, quando perdiamo il treno per andare in università. Lo veneriamo quando qualcosa va per il verso giusto, quando il professore si complimenta, quando arriva un regalo, quando qualcuno ci fa una sorpresa.

Ad ogni buona azione compiuta, ci si illude che possa arrivare un premio; al contrario, si piomba nel tormento quando si è consapevoli di aver agito in maniera sbagliata e aspettando che il male ci si rivolti contro. Eppure è davvero questo il karma? La risposta è no. Il karma si basa sul rapporto causa-effetto, questo è vero. Ed è anche vero considerare i fattori di interdipendenza e di impronta del karma. Il primo può essere spiegato tramite la sentenza “tutto si relaziona con tutto”: ogni frase detta può influenzare l’azione di un’altra persona, che successivamente avrà ripercussioni su un’altra situazione, che inciderà sulla vita di un altro individuo, e così via. Il fattore impronta è la consapevolezza che ognuno è, sintetizzando, artefice del suo destino.

E allora? Perché è sbagliato pensare che sia il karma il colpevole di quella torta bruciata, piuttosto di quel volo cancellato all’ultimo oppure di quel brufolo spuntato proprio la sera del primo appuntamento? Il karma agisce tenendo conto di una moltitudine di aspetti. Tutto ciò che avviene è il prodotto di una serie infinita di moltiplicazioni. Il più grande equivoco? Pensare che tutto ciò che ci accade sia frutto solo ed esclusivamente del nostro ego. 

di Giorgia Cocci, Camilla Bosi e Chiara Paini 

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