Il circolo vizioso della bellezza: la donna ‘perfetta’ ci tormenta ancora

La concezione del corpo femminile nel 21° secolo tra social, pubblicità e fragilità umane

 

 

“Quando hai 17 anni e sei una ragazza, tutto il mondo ti dice cosa devi fare del tuo corpo. Tua madre ti dice: Cambia vestito! E’ da adulta quello! Troppo appariscente! Troppo corto! La scuola ti dice: Copriti le spalle! Copriti le gambe!”. Così nel film “Selah e the Spades“, Selah – la protagonista interpretata da Lovie Simone – descrive in poche, semplici frasi il mondo delle ragazze. 

Il nodo cruciale è il corpo, ciò che la società impone e ciò che la società si aspetta. Non necessariamente questo dualismo coincide.

È un continuo paradosso, nel quale le ragazze tentano di rimanere a galla, con l’unico risultato di perdere di vista loro stesse e la loro soggettività. “Sei troppo grassa, dimagrisci!”, “Mangia! Cosa fai la dieta?”. “Vestita da ‘maschiaccio’ non attirerai mai l’attenzione dei ragazzi” ma con la minigonna sei una “facile”. È in questo modo che la giovane donna di 13 anni si affaccia per la prima volta alla scuola superiore e alle prime relazioni, venendo catapultata in un mondo dove rimanere fedeli a sé stessi non è per niente facile.

Ma perchè questa ricerca di un corpo ideale? Perchè cucire sul proprio corpo un manichino socialmente accettabile, ma fragile dentro?

Harry Stack Sullivan – psicanalista americano dello scorso secolo – definisce il sè come l’immagine che ognuno di noi ha di sè stesso. Il concetto di sè cambia in relazione ai rapporti sociali, nei quali gli altri fungono da specchio e rimandano ciò che pensano di noi. Di conseguenza, queste opinioni influenzeranno inevitabilmente le nostre.

Paola Colombini, professoressa di Scienze Umane e Filosofia al Liceo Carlo Sigonio di Modena, spiega invece che i ragazzi di oggi sono immersi in una società legata al ‘consumo dell’immediato‘, dove le priorità, rispetto a cinquant’anni fa, sono radicalmente cambiate; dove ogni cosa, nella maggior parte dei casi, deve essere concessa immediatamente e non vi è più la trepidazione dell’attesa. A poco a poco si è diventati più fragili, più deboli e più suscettibili al giudizio altrui perchè nella piramide dei bisogni, quello più importante, è diventato il bisogno di appartenenza e di approvazione. La cosiddetta autopresentazione – cioè l’immagine che si dà di sè – diventa il fulcro delle nostre esistenze e nel momento stesso in cui viene attaccata o giudicata, una parte di noi si sgretola.

La prova del dolore 

Questa continua ricerca verso la bellezza assoluta si scontra con la realtà. Lo specchio diventa il peggior nemico delle donne. La risposta a “chi è la più bella del reame?” non corrisponde mai a noi stesse vero?

Ma chi lo ha deciso? Perchè la domanda di confronto con una modella sorge spontanea? Perchè, prima di tutto, non ci si chiede chi ha imposto questo canone di bellezza?

Una possibile risposta ci viene data dal sito web Il corpo delle donne: “La moda ha una grande influenza: un corpo magro è più elegante, si dice. Sì? Magro quanto?”; “un corpo senza forme è anche molto più facile da vestire…”.

Le donne si focalizzano e mirano a questa perfezione fittizia, finendo per disprezzare sè stesse e ciò che rappresentano. Così, oltre allo specchio, si aggiunge un ulteriore nemico: il proprio corpo. Sofia Bignamini, psicologa e psicoterapeuta – autrice di Quando nasce una donna (2020) – spiega in numerose interviste che il corpo, in questi casi, si trasforma in qualcosa con cui prendersela e, attaccandolo, si riesce a rientrare in possesso di sè stessi, come se il dolore ne fosse la prova. Così, ci si ritrova ad affrontare un corpo che subisce l’ennesimo cambiamento, allontanandosi sempre di più da quell’immagine di perfezione insita nelle nostre menti.

 

 La mercificazione del corpo femminile

La bellezza idealizzata ci costringe a vivere in un circolo vizioso, nel quale più partecipiamo, più la voragine si stringe intorno a noi e meno ne siamo consapevoli. Maura Gangitano e Andrea Colamedici spiegano, in un’intervista rilasciata sul canale Venti, che la società odierna viene definita ‘la società della performance‘ – frase che dà il titolo al loro libro, pubblicato nel 2018 dall’editore Tlön – all’interno della quale siamo costantemente sotto esame e il margine di sbaglio non può esistere. La nostra performance, il nostro corpo, le nostre giornate, la nostra famiglia, il nostro umore, devono necessariamente essere perfetti.

Questa immagine spinge a provare la cosiddetta ‘ansia da prestazione’, alimentata dalla continua messa in scena della sessualizzazione del corpo femminile all’interno di programmi televisivi e pubblicità, le quali gridano che “la donna deve essere in questo modo”. Un articolo pubblicato sul sito web Rivista delle scienze sociali   spiega questo fenomeno in una sola frase: “L’ostentazione del corpo femminile è consumistica e dà valore alla donna in quanto merce e all’uomo che la possiede in quanto padrone di un oggetto di valore“.

Incapaci di guardare altrove, associamo alla perfezione l’idea di accettabilità, facendo dell’estetica la nostra priorità. Ci copriamo così di un amor proprio prettamente selettivo, incentrato sul ‘sembrare’ e non più sull’ ‘essere’.

“Distratti da noi, fino a diventare perfetti sconosciuti a noi stessi, ci arrampichiamo ogni giorno su pareti lisce per raggiungere modelli di felicità che abbiamo assunto dall’esterno” scrive infatti Umberto Galimberti, nel suo libro I miti del nostro tempo pubblicato nel 2009 da Feltrinelli Editore.

La rappresentazione femminile nel piccolo schermo

Una delle maggiori influenze sulla concezione di bellezza e di corpo femminile viene sicuramente dai prodotti mediatici che consumiamo, come la televisione e le serie tv. 

La professoressa Sara Martin, docente di Televisione e nuovi media all’Università di Parma, fa presente come il fenomeno della stereotipazzione della donna accada soprattutto nella televisione italiana. 

“La rappresentazione del corpo femminile negli anni ’90 fino a metà dell’inizio degli anni 2000 era codificata nella figura femminile mercificata. – spiega la professoressa Martin – Adesso le cose sono indubbiamente cambiate a livello generale, anche se a livello nazione la televisione italiana propone ancora modelli ancora molto stereotipati, notare l’abbondanza di questi stereotipi nei reality show”. Difatti, questo genere di programmi spesso rispecchia il gusto di massa, che è legato all’immagine femminile della valletta o della velina: una donna giovane, caucasica, dal corpo esile ma con abbondanza di forme. Ad oggi, è raro trovare protagoniste della televisione popolare che abbiano le rughe o la pelle scura, o che siano semplicemente più morbide.

Ma nel mondo del piccolo schermo ci sono anche serie televisive che hanno fatto passi in avanti decisamente importanti, a cominciare da prodotti come Sex and the City fino al più recente The Handmaid’s Tale. 

Il cambiamento dietro e davanti la telecamera

Oggi il cambiamento, tuttavia, è evidente. Sul piccolo e grande schermo troviamo attrici e rappesentazioni femminili non più ventenni o taglia 38. Questo considerevole passo in avanti deriva anche dai progressi avvenuti dietro la telecamera. Non è più così insolito trovare registe, produttrici e sceneggiatrici donne, il che comporta un’ottica diversa attraverso cui viene guardato e costruito un personaggio femminile. Però, come fa presente la professoressa Martin, “la posizione di potere nella filiera di costruzione dell’audiovisivo ha un certo peso”, ma non significa che questi prodotti “più vicini alla sensibilità femminile, siano dei prodotti dedicati alle donne” come spesso si può pensare.

La docente porta come esempio Fleabag, una serie scritta, diretta e interpretata da una donna, Phoebe Waller Bridge, che con sole due stagioni ha rivoluzionato il mondo delle serie televisive. Solo nella stagione 2019 degli Emmy ha vinto in ben quattro categorie, compresa “Miglior serie comica”. Con queste vittorie, ha provato a pubblici e critici piuttosto scettici che non solo le donne possono e sanno essere divertenti, ma soprattutto che non creano contenuti rivolti e apprezzati solo da un pubblico femminile.

Tra il progresso ed il politically correct

Le conquiste in termini di rappresentazione hanno sicuramente contribuito a modificare la passata concezione di bellezza, che, sebbene risenta molto degli stereotipi di cui si è nutrita nei decenni, si sta sicuramente evolvendo.

Una delle problematiche più importanti di oggi è il ruolo delle persone di colore nei prodotti televisivi e seriali, in particolare delle donne. Spesso, la presenza di personaggi non caucasici sembra forzata, innaturale. Come ci fa notare la docente Martin, “soprattutto negli show dedicati ai più giovani presentano sempre un personaggio per ogni etnia o categoria, e questo vuol dire cercare di essere politicamente corretti”. Ma la vera rivoluzione e cambiamento culturale si avrà solo quando ci sarà “una situazione liberata da questo tipo di categorizzazione”. Ci sarà, quindi, solo “nel momento in cui potrò scegliere un interprete o personaggio a prescindere dal colore della pelle. Quando un cast di quattro donne nere ed una donna bianca” non sarà notato come una stranezza, ma “chiunque lo potrà guardare senza porre attenzione a questo particolare”. 

Nonostante questa situazione si ripresenti sia in Italia sia oltreoceano, ci sono prodotti che si distinguono per aver superato queste barriere, proponendo una serie di personaggi femminili che sono estremamente complessi e variegati, indubbiamente differenti dalle usuali rappresentazioni: si tratta, cita la professoressa Martin, di Euphoria, il recente successo di HBO diretto da Sam Levin, o, nel panorama italiano, SKAM, il remake di una serie norvegese curato da Edoardo Bessegato. Il successo di quest’ultimo show è un chiaro segnale di come il pubblico italiano possa accogliere favorevolmente rappresentazioni libere e diversificate di donne e ragazze, così diverse dall’ideale su cui insiste la televisione.

Ma un futuro dove le donne verranno rappresentate senza alcuna discriminazione è molto lontano, specialmente nel nostro paese. Ad oggi, nell’ambito della televisione come in ogni altro, ci sono ancora troppe difficoltà, e troppe pratiche, come le quote rosa o il tokenism, che sembrano essere più un cerotto che copre la ferita che una vera e propria soluzione. Non per altro, uno dei principali dilemmi contemporanei è: bisogna accettare queste regolamentazioni, che sottolineano come ci sia bisogno di una norma perché le donne o persone di diverse etnie vengano incluse nel mondo lavorativo? Oppure bisogna rifiutarle nell’utopia che, un giorno, non ce ne sia bisogno. A questo riguardo, la professoressa Sara Martin, sebbene le disapprovi , ricorda che “se non ci fosse bisogno di una regolamentazione sul tema in qualsiasi ambiente lavorativo, avremmo vinto. E’ un prezzo da pagare per tentare di andare nella direzione giusta”

di Alessia Sargenti e Teresa Tonini 

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