Cara mamma, il 2020 non mi ha capita

Dialogo con una madre per raccontare cosa è stato il 2020 per una studentessa lontana da casa

Ciao ma’, è gennaio, ci siamo. Valigia rosa e sono pronta a partire. Il vento nuovo di un nuovo anno e il sole tipicamente tiepido per casa nostra fanno compagnia a te e papà che, orgogliosi e pensierosi, mi salutate con la mano mentre un autobus si allontana per portarmi alla mia nuova vita.

Battito di ciglia, è già marzo. Quest’anno inizia a farsi sentire. Ho già fatto tre esami, sono stanca, ma sono felice.

Cara mamma, oggi ho fatto le lasagne. Io! Proprio io! La tua viziata e maldestra figlia, a cui ne hai dette di tutti i colori per aver lasciato il latte sul fuoco facendolo bruciare la mattina prima di partire. Oggi è domenica e ho fatto le lasagne. L’odore di sugo misto al calore del sole che inonda questa piccola cucina mi riportano da te.

Mamma, V. mi raggiunge per il mio compleanno, lo sai? Sono entusiasta. Certo, le notizie degli ultimi giorni su questo nuovo virus non sono rincuoranti; le università rimarranno chiuse per qualche giorno, ma solo per precauzione! Tu non ti preoccupare, è lontano, e io sono felice.

Cara mamma, V. non viene più. Hanno chiuso le regioni. Forse ora un po’ vorrei tornare a casa.

Cara mamma, ieri mi sono persa nel turbinio delle notizie, ho guardato il tg, e voglio decisamente tornare a casa, ma tu e papà mi avete fermamente detto di rimanere qui per il momento, mi avete detto che è meglio così. Lo so che vi faceva male il cuore.

Vi ho dato ascolto, sono rimasta qui. Per questo, d’un tratto, oggi che è domenica, ho fatto le lasagne e mi sono accorta che non cammino più scalza, mi rendo conto del fatto che sto crescendo più in questi mesi di quanto non abbia fatto negli ultimi anni.

Altro battito di ciglia ed è già aprile, come ci siamo arrivati?

Quante cose che ho da dirti mamma e quante non te ne dico. Io e te non abbiamo mai parlato tanto, abbiamo sempre fatto, piuttosto. Ma fare, stando dietro ad uno schermo, è un po’ difficile.

Forse qui avrò un po’ più spazio per raccontarti. Qui siamo solo le parole ed io, e mando avanti loro.

Ricapitoliamo: non cammino più scalza, faccio il caffè, i tegami fatti di sugo sono un po’ meno miei nemici e oggi è Pasqua. Auguri, ma’, dai un bacio a papà.

Sono stanca, stanchissima, ma io e le mie coinquiline stiamo bene tutto sommato. Guardiamo 3 cartoni animati al giorno, facciamo la spesa online e la sala comune è sempre in disordine. Solo quella però, ti giuro.

Comunque sta mattina c’è il cielo azzurro ed il sole non è caldissimo. C’è l’aria fresca, l’aria delle sette del mattino. C’è l’odore di caffè appena fatto e se tengo lo sguardo fisso in alto mi sembra di stare a casa.

Mi manchi ma’.

 

Caro 2020, parlo un attimo con te adesso…

Sì tu, proprio tuTe l’ho chiesto io di farmi crescere, è vero, ma forse mi hai frainteso anche se a modo tuo hai mantenuto la parola.

Con te ho imparato ad apprezzare le piccole cose, per quanto suoni banale. Ho imparato a non vergognarmi nel dire ai miei genitori che sento la loro mancanza, che li penso e che li amo. Ho imparato a non trascinarmi e a lasciare andare. Ho imparato a sorprendermi, a rivalutare e preservare i posti e le persone di sempre. Ho imparato quanto è bello tornare e quanto lo sguardo di una persona possa rimanerti in testa, come fosse una canzone. Ho imparato, nell’interminabilità dei tuoi giorni, che guardarsi indietro non fa poi così paura.

Anzi è proprio bello guardare a chi eri e a chi sei diventato. Ho imparato quanto è bello andare a correre alle sette del mattino mentre Parma si sveglia, quando quello della corsa è l’unico momento della giornata per respirare aria fresca. Beh, forse non ho corso tutto il tempo, ma proprio il fatto di rallentare di tanto in tanto mi è servito ad apprezzare la bellezza. Perché sì, caro 2020, tu mi hai insegnato che stare fermi, o rallentare, non è per forza un male. Mi hai insegnato a scorgere tra le crepe la vera bellezza. La bellezza della pizza fatta in casa. La bellezza degli spazi e delle emozioni condivise.

Ho imparato che una casa è molto più che un posto in cui tornare. Una casa è l’impronta sul muro lasciata da quella persona in quell’occasione. E’ il sole di mattina in cucina e di pomeriggio in sala. È i vestiti di R. sul letto e tutti i burrocacao di F. sparsi ovunque.

Ho imparato il gusto di notare questi dettagli, che altrimenti mi sarebbero sfuggiti e si sarebbero persi nella frenesia dei giorni comuni. Ho imparato quanto è importante il Qui ed ora e quanto pesi il rimpianto di non averlo fatto prima.

Non essere andata prima a quel concerto, non aver portato prima il gelato alla mia migliore amica nei momenti no, non essermi messa prima il rossetto rosso e non essere andata prima a cena con lui.

Ho imparato quanto l’avere tempo possa diventare una pericolosa arma a doppio taglio se non lo sai gestire. Quanto diventi importante distinguere chi ti manca quando c’è rumore, da chi invece ti manca quando tutto sembra tacere.

Ho imparato che per quanto tu possa sentirti sola, piccola e fragile lontano da tutto, per quanto tu abbia bisogno di esternarlo, gridarlo e piangere, stringi ancora un po’ i denti, sempre un pochino di più, perché c’è chi sta peggio, ma soprattutto, potresti stare peggio proprio tu.

“Io avevo paura, così sì inventò un trucco, dipinse una porta magica sulla parete della mia camera, così se avessi avuto paura avrei potuto aprirla. (…) Disse che avrei potuto aprirla una sola volta, quando ne avrei avuto bisogno, ma una sola volta. Così quando avevo paura pensavo che potevo resistere un altro po’, o che forse il giorno dopo avrei potuto avere più paura…” questo il giochino che la  madre di Tokyo in La Casa di carta si inventò per farla sentire al sicuro. Ecco, io ho imparato ad aspettare, prima di aprire la mia porticina.

Ma soprattutto, caro il mio assurdo anno, grazie a te ho imparato a fare le lasagne.

 

Vedi, io oggi ho voluto andare controcorrente. Siamo tutti d’accordo sul fatto che ci hai tolto davvero tanto, ma essendo abituata a vedere il bicchiere mezzo pieno, ho voluto portare alla luce quello che ci hai dato, per salutarti.

Però devo dirtelo: mentre il 31 dicembre dello scorso anno allo scoccare della mezzanotte, prendendo spunto dalla mia canzone preferita, mi auguravo di vivere sulla mia pelle, di amare, di farmi male, pensavo più ad un amore nuovo che a sette mesi consecutivi passati lontana da casa con in corso una pandemia. È evidente che qualche volta veniamo fraintesi, anche se, dopotutto, è stata una blessing in disguise. Non tutto il male è venuto per nuocere, infatti, e anche se il male è stato tanto, tanto è stato anche quello che mi ha lasciato.

Caro 2020, di sicuro ti ricorderò, tutti lo faremo. È  quasi ora di lasciarti andare e spero che per farti perdonare, starai buono buono ad aspettare con noi l’anno che verrà. Solo, se posso chiedere all’universo quest’eccezione, vorrei ripetere il mio desiderio per il 2021 sperando questa volta di non essere equivocata e di avere un po’ più di leggerezza. Quindi, caro 2021, uso ancora le parole dei Nomadi, e ti dico: “Io voglio vivere, ma sulla pelle mia, io voglio amare…”, ma per favore, stavolta, non calcare troppo la mano.

 

di Gianna Maria La Greca

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