Gli Stati dis-Uniti d’America: smettiamola di stupirci dell’ovvio

Donald Trump è la causa di tutto ciò? O forse è la miccia che innesca divisioni già presenti da tempo?

Quello a cui abbiamo assistito mercoledì 6 gennaio scorso segnerà inevitabilmente e per sempre la storia americana. Prima l’assedio, poi l’irruzione a Capitol Hill (sede del congresso statunitense) da parte di un cospicuo gruppo di rivoltosi pro-Trump che interrompe la cerimonia di ratifica dell’elezione di Joe Biden. L’esiguo corpo di polizia sbaragliato, la marcia dei facinorosi nella sala del Senato, la fuga dei politici scortati fuori dall’aula. Alla fine, il bilancio salirà a 5 morti, 13 feriti, oltre 50 arresti, saccheggi e distruzione.

L’accaduto ha sicuramente scosso la sensibilità di tutti. Scene che solitamente releghiamo a nazioni povere, instabili e terzomondiste, si sono verificate nella prima economia mondiale sotto gli occhi attoniti di tutti i paesi. Tutti ci siamo stupiti. Ma a pensarci bene, esattamente, di che cosa ci dobbiamo stupire?

Non credo che l’accaduto non si potesse in qualche modo prevedere o immaginare. Credo che nessuno possa dirsi così cieco da non aver notato il grande mutamento che la comunicazione politica americana (non solum sed etiam) ha subito negli ultimi decenni. Di sicuro quest’ultimo mandato ha rappresentato l’apice di questo profondo sconvolgimento, sia dal punto di vista mediatico che, di conseguenza, da quello sociale e di piazza.

Ora, volendo analizzare più approfonditamente le cause dell’accaduto, di certo risulterebbe superficiale relegare il tutto a una semplice bravata fascista, così come dire che questa “non è l’America”: come ha dichiarato Joe Biden nel suo discorso. I motivi che hanno spinto queste persone a violentare i palazzi del potere sono ben più profondi e ben più radicati nel tessuto socioculturale statunitense di quanto possiamo immaginare.

Non è infatti la prima volta che si verificano scontri violenti. Basti pensare a quest’estate dove le proteste del movimento Black Lives Matter riempivano le piazze di molte città americane, causando forti scontri tra i manifestanti e la polizia, e dove, troppo spesso, si consumarono abusi sulla folla da parte delle forze dell’ordine. Come è stato fatto notare da molti, i corpi di polizia hanno evidentemente usato due pesi e due misure nelle vicende di Capitol Hill (dove era quasi inesistente) e in quelle delle piazze di BLM, dove invece la repressione è stata spesso brutale e ingiustificata. Ma commentare l’ovvio non è e non vuole essere lo scopo di questo editoriale.

La miccia che qualche mese fa ha innescato queste vicende è stata l’uccisione di George Floyd da parte della polizia di Minneapolis durante il suo arresto. Questo spiacevole evento ha dato evidentemente fuoco a polveri che si stavano però accumulando da parecchi anni. Le due vicende, se pur diametralmente opposte, condividono però un’origine comune, che non è banalmente da identificare nella figura di Donald Trump (pur se la sua figura abbia magnificamente cavalcato l’onda) ma bensì nei profondi cambiamenti economici e internazionali che, dalla caduta del muro di Berlino ad oggi, hanno visto la prima potenza mondiale cominciare a perdere colpi.

In un paese dove il solo parlare di sanità pubblica o di restrizioni alla vendita di armi viene immediatamente tacciato come estremismo di sinistra, il ruolo storico statunitense nel secolo scorso può diventare un buon punto di partenza. Lo scontro tra il blocco occidentale e l’Unione Sovietica nel secolo breve ha fatto sì che le classi dirigenti americane, così come i grandi monopoli economici, identificassero nel blocco socialista il nemico numero uno. Tant’è che votare Democratici o Repubblicani nel ‘900 non era motivo di violenti scontri sociali come lo è oggi. Al massimo era motivo di un’accesa lite con lo zio redneck. In Europa occidentale, benché fossimo parte del patto atlantico, questa uniformità di vedute e comunanza di obiettivi tra i vari partiti non si è verificata come negli USA. I rappresentanti comunisti (ma in generale di sinistra) delle varie nazioni europee partecipavano con discreto successo nei dibattiti pubblici durante la guerra fredda (in Italia il PCI raggiunse oltre il 30% dei voti nell’ ’84), e molte conquiste sociali come sanità e scuola pubblica, statuto dei lavoratori (etc), ottenute grazie alle lotte di migliaia di militanti, non sono realtà così scontate oltre oceano. Anzi, sono spesso pratiche da ripudiare proprio perché facenti parte di un mondo, quello socialista, che è da sempre acerrimo nemico di tutti gli stati uniti, sia Democratici che Repubblicani.

Crollato il muro di Berlino e dissoltasi l’URSS (siamo nell’ ’89) il nemico comune scompare, e lo scacchiere internazionale muta improvvisamente. Coloro che dalle guerre mondiali (gli USA) ne erano usciti prima potenza, economicamente e militarmente, ora cominciano a perdere il primato. Nuovi competitor emergenti come la Cina o l’India accelerano inesorabili, e assottigliando sempre di più il gap con la bandiera a stelle e strisce. Il mondo si apre in una nuova corsa al progresso tecnologico, alla conversione verde, all’automazione e tutto ciò non fa altro che frammentare gli interessi economici dei grandi gruppi e monopoli statunitensi che oggi non vanno più d’accordo come allora.

Che i due principali partiti politici americani ricevano soldi e finanziamenti da multinazionali e gruppi finanziari privati non è affatto un segreto. Anzi, i bilanci sono tutti pubblici e le cifre di cui si parla sono veramente spaventose. Il fatto che ora diverse aziende statunitensi abbiano divergenze di interessi a causa della scomparsa del nemico comune fa sì che i due partiti si polarizzino sempre di più raggiungendo livelli di scontro mai visti prima.

La politica estera ed economica di Donald Trump rappresenta in tutto e per tutto l’astio smisurato che l’America – e con America intendo diversi gruppi monopolistici e multinazionali – ha nei confronti delle nuove potenze mondiali emergenti. L’imposizione di dazi sulle importazioni cinesi e su alcuni prodotti europei, gli ammonimenti – anche al nostro paese – per l’adesione alla nuova  Via della seta, la sigla dei patti di Abramo e il rafforzamento delle relazioni diplomatiche in medio-oriente sono tutti esempi di strategie volte a impedire la corsa delle nuove potenze economiche e a ristabilire il primato mondiale statunitense. Chiaro che, al contrario, chi in Cina (o India o Africa o medio-oriente) possiede aziende, impianti di produzione, insomma denaro, non si esimerà dal foraggiare il partito Democratico, cercando di sventare il più possibile un governo a guida repubblicana.

In questo scenario gioca anche un ruolo fondamentale l’influenza delle organizzazioni corporative territoriali nordamericane, sia laiche che (spesso) religiose, indirizzando enormemente il voto di interi gruppi sociali nei diversi stati. Si pensi ad esempio allo Utah, dove più del 60% della popolazione è membro della Chiesa mormone, che vota Partito Repubblicano da 50 anni. Questo, legato anche al sistema elettorale americano “pigliatutto” (sistema maggioritario con collegi plurinominali) contribuisce a gettare benzina sul fuoco soprattutto negli “swing state” dove poche manciate di voti possono assegnare tutti i grandi elettori a un candidato, determinando o meno la sua vittoria.

Ora che gli interessi delle grandi aziende sono frammentati anche i partiti si polarizzano grazie alle logiche dei finanziamenti privati, intensificando la lotta mediatica e di comunicazione, e a cascata anche l’elettorato tenderà a spaccarsi nelle varie fazioni, costituendo così una bomba a reazione che aspetta solo la miccia per poter esplodere (vedi George Floyd e i discorsi fomentatori di Trump).

Senza capire ciò si rischia di rifuggire la verità, relegando come exploit trumpiano i numerosi scontri sociali culminati con l’assalto al congresso di mercoledì. Donald Trump non è la causa di tutto ciò che è avvenuto durante il suo mandato, bensì costituisce solo la miccia che innesca divisioni già presenti da tempo. In queste logiche di radicalizzazione del conflitto prendono anche sempre più piede varie teorie del complotto (come QAnon) ed anche movimenti di estrema destra come i “Proud Boys” che abbiamo visto tra le fila dei facinorosi di mercoledì. Il tutto riconducibile sempre all’inasprimento del linguaggio propagandistico degli ultimi anni che indubbiamente si riflette sull’elettorato americano.

D’altra parte, le classi popolari statunitensi faticheranno a trovare in Joe Biden (così come per Trump) un degno rappresentante. Benché il neopresidente eletto possa dirsi più moderato nei toni del suo predecessore, le logiche che spingono la frammentazione politica sono da ricercarsi, come precedentemente detto, nella divergenza degli interessi monopolistici delle grandi aziende. Il capitalismo sfrenato è il vero motore di questo processo e difficilmente Biden ne scalfirà le logiche.

 

di Michael Nova 

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