Fino all’ultima goccia: l’emergenza acqua è già realtà

Più di 2 miliardi di persone bevono ogni giorno acqua contaminata o non hanno accesso a servizi igienico-sanitari di base. Ecco come gli effetti del cambiamento climatico inaspriscono una crisi idrica già in atto: guerre, epidemie e migrazioni gli scenari

 

Bambina pakistana raccoglie acqua contaminata. Source: UNICEF Pakistan/2012/Asad Zaidi

Quando pensiamo all’acqua, solitamente ci vengono in mente immagini in cui è rappresentata, complici le pubblicità televisive, nella sua forma più ‘pura e cristallina’: una sorgente di montagna, un rubinetto con flusso continuo, un bicchiere trasparente. Tutti luoghi dell’immaginario collettivo che fanno di questa risorsa un bene sempre disponibile, incontaminato e sicuro. Oggi sappiamo però che a causa del riscaldamento globale questo bene si fa sempre più scarso e ricercato. In alcuni casi si tratta di una vera corsa all’accaparramento delle fonti idriche.

Ebbene, rispondere concretamente a questa emergenza sarà la vera sfida del secolo. Cerchiamo di capire cosa sta accadendo.

Siamo fatti della stessa sostanza…degli oceani

H₂O è la molecola che ha permesso la vita sulla Terra. Di tutta la massa del pianeta rappresenta solo lo 0,2%: di questo il 96,5 % è l’acqua che troviamo negli oceani. Solo una piccolissima percentuale è la componente atmosferica, tuttavia questa è fondamentale per il cosiddetto ciclo idrologico, che fa sì che l’acqua si ridistribuisca sui continenti sotto forma di pioggia, dopo l’evaporazione.

Alcune precipitazioni avvengono sui mari, altre, tramite ruscellamento, fluiscono verso laghi e fiumi, oppure si infiltrano nel terreno. Qui possono raggiungere in profondità gli acquiferi, cioè rocce saturate con acqua mobile, che possono affiorare o filtrare altri corpi idrici. In ogni caso, il flusso superficiale o sotterraneo favorisce l’eventuale rientro in mare, da dove il ciclo ricomincia. Le falde sotterranee rappresentano il 30,1% dell’acqua dolce totale, mentre i ghiacciai dispongono della maggiore riserva (68,7%), contro lo 0,8 % del permafrost e lo 0,4% dell’atmosfera e della superficie.

Oceano Atlantico, dalla punta estrema orientale dell’Irlanda del Nord (Fairhead, Ballycastle)

L’acqua è fondamentale per le piante e tutte le specie animali, in quanto permette gran parte delle operazioni metaboliche. Infatti, non solo le cellule, ma tutti i compartimenti extracellulari sono costituiti da un’abbondante componente acquosa che determina il corretto funzionamento dei principali processi biochimici e fisiologici.

L’uomo, che è costituito dal 60-70% d’acqua, ha bisogno di circa 2 litri al giorno e può sopravvivere senza bere fino a 5 giorni, sebbene già al secondo comincino a manifestarsi i primi disturbi da disidratazione. Le fonti idriche sono state decisive per lo stanziamento dell’uomo nel Neolitico in aree specifiche e per l’inizio dell’attività agricola. La vicinanza di fiumi fu determinante per la nascita e lo sviluppo di civiltà quali quella sumera e quella egizia, attorno al Tigri, all’Eufrate e al Nilo. Un’agricoltura florida, resa possibile dall’attività irrigua, consentì un incremento demografico, via via continuo per l’affinamento delle tecniche e delle scienze, nonché per il perfezionamento di tutte le altre attività antropiche.

Vale la pena notare che se 8.000 anni fa eravamo circa 1 milione di persone, solo nel 1900 si toccò il 1° miliardo, ed ad oggi invece siamo ben 7,8 miliardi. L’acqua non è aumentata con noi, però. Si stima che ogni persona necessiti, in media, di 500.000 litri all’annoSe dovesse verificarsi un ulteriore incremento demografico, l’acqua presente sulla Terra non riuscirebbe più a coprire la richiesta di ciascuno.

I primi sistemi di approvvigionamento idrico

I Sumeri per primi, nell’altopiano iranico, si ingegnarono per captare le acque sotterranee con gallerie drenanti dette qanāt: un vero e proprio sistema di cunicoli verticali collegati ad un canale in lieve pendenza che garantiva non solo l’irrigazione di vasti territori, ma anche la stessa raccolta idrica. Simili alle qanāt, le foggara presenti in Algeria o le quettara del Marocco erano pensate come acquedotti speciali, in grado non solo di captare le acque delle falde, ma di sfruttare il fenomeno della condensazione. Si capisce come in aree particolarmente aride del mondo questi sistemi siano stati determinanti anche per le stabilizzazioni e sedentarizzazioni delle popolazioni.

All’interno di una qanā(Shafiabad, Iran)

Al 300 a. C. in Nordafrica sono databili invece macchine idrauliche come lo chadouf e la noria, utilizzate per sollevare l’acqua dai pozzi. Per comprendere però l’eterogeneità di queste strutture basti menzionare i Greci e le loro krenai (già dall’VIII secolo a.C.), o gli Etruschi con la loro grande rete di gallerie atte a rifornire di acqua colline e alture spesso distanti dai bacini idrici. L’esempio più celebre di ingegneria idraulica è senz’altro, però, quella che vede protagonisti i Romani, con i loro acquedotti capaci di drenare enormi quantità di acqua, come nel caso del Pont du Gard, in Francia, che riusciva a veicolare fino 20.000 m³ al giorno.

L’acquedotto romano del Pont du Gard, Francia

Quel che può sorprendere è scoprire che tutte questi rete idriche erano sostenibili. Rispettavano, infatti, i tempi di ‘rigenerazione’ dell’acqua e le falde non erano mai asciutte, proprio perché bisognava garantire sul lungo periodo e specialmente nei periodi siccitosi la quantità minima all’irrigazione e al sostentamento.

Come il riscaldamento globale alimenta lo stress idrico

Quando ragioniamo a proposito della scarsità d’acqua, generalmente pensiamo solo a quelle aree del pianeta che hanno un clima secco con precipitazioni annuali esigue, a cui spesso si aggiungono eventi calamitosi: guerra, epidemie, carestie. Ad oggi, sappiamo però che il cambiamento climatico derivante dall’immissione nell’atmosfera di gas serra ha portato a un aumento delle temperature che inevitabilmente produce una serie di fenomeni su larga scala. È chiaro che le aree del pianete già segnate da sofferenza idrica conosceranno un peggioramento rispetto alle attuali condizioni, tuttavia saremmo in errore se pensassimo che quei problemi riguardano solo una determinata regione del globo.

Dacca, la capitale del Bangladesh, dopo il passaggio del ciclone Aila nel 2009

I ghiacciai si stanno sciogliendo e questo fa sì che il livello degli oceani cresca: si stima che entro il 2100 si possa toccare la soglia del metro. Ad essere in pericolo non è solo la biodiversità della regione artica, ma tante città – oltre a diverse isole –  rischiano di essere sommerse, da Miami a Venezia, da Giacarta a Sydney. A ciò bisogna aggiungere ulteriori elementi, come il cambiamento dei regimi pluviali e delle nevi, nonché l’acidificazione dei suoli e degli oceani. Gli studiosi hanno infatti già cominciato a registrare aumenti di intensità negli uragani e nelle piogge, che andranno a colpire ulteriormente la disponibilità idrica e il suolo coltivabile.

E per quanto riguarda l’acidificazione degli oceani, dovuta all’aumento di CO₂ nell’atmosfera, dobbiamo aspettarci un’amplificazione degli effetti del riscaldamento globale. Se il mare è considerato il polmone del mondo, con l’abbassamento del suo pH e l’aumento delle deforestazioni, assisteremo ad una diminuzione di ossigeno con effetti visibili per l’uomo e quindi non solo a danno degli ecosistemi marini, comunque fondamentali per gli equilibri climatici.

A ciò sommiamo che la fusione dei ghiacci può causare infiltrazione di acqua salata all’interno delle falde più esposte e accelerare fenomeni di subsidenza – fenomeno per cui il fondo marino o la piattaforma continentale si abbassano sotto il peso di altri sedimenti, causato principalmente dal sovrasfruttamento degli acquiferi. L’aumento delle temperature sta producendo anche una diminuzione dei ghiacciai montani e delle nevi perenni, e questo impatterà enormemente sull’approvvigionamento che viene dai bacini superficiali.

Il Gomukh, parte terminale del ghiacciaio del Gangotri, nell’Himalaya, da cui si originano le sorgenti del Gange

Lo scioglimento delle calotte polari poi provoca anche un raffreddamento degli oceani responsabile di cambiamenti relativi alle correnti oceaniche, come quelli rilevati sulla corrente del Golfo che sta subendo un rallentamento dovuto proprio all’immissione di acqua dolce che modifica i livelli di salinità e densità, e che potrebbe portare a climi più rigidi nel nord Europa e a climi più secchi nella fascia del Sahel, in Africa subsahariana.

Non dobbiamo dimenticare, inoltre, un altro scenario possibile e allarmante: il permafrost delle regioni artiche, fondendosi, potrebbe rilasciare nell’atmosfera enormi quantità di metano e anidride carbonica, contribuendo a quell’effetto serra intensificato dalle attività antropiche che sovrautilizzano i combustibili fossili.

Consumi e sprechi

È evidente quanto sia importante un intervento tempestivo per far sì che le emissioni di gas serra diminuiscano. Più di 2 miliardi sono le persone a rischio per l’emergenza idrica, divisi tra quelli che non hanno accesso ad acqua potabile e quelli senza servizi igienico-sanitari di base. Questo vuol dire che c’è anche un’emergenza sanitaria: basti pensare a tutte le malattie infettive da contaminazione delle acque, dal colera al tifo, dalla legionella alla poliomelite, passando per le patologie diarroiche che rappresentano nel mondo la seconda causa di mortalità nei bambini di età inferiore ai 5 anni.

Se poi è vero che solo uno 0,5 % dell’acqua dolce totale è accessibile, non contaminata, questa è distribuita in maniera disomogenea nel mondo, e non sempre ne facciamo un uso consapevole. Sulla piattaforma Aqueduct del World Resources Institute, un centro di ricerca di Washington specializzato in tematiche ambientali, è possibile visionare sia le mappe e le lista dei paesi relative allo stress idrico di base, che misura il rapporto tra prelievi idrici totali e le risorse idriche rinnovabili disponibili, sia quelle relative al rischio di siccità. Ad un primo sguardo è possibile comprendere come il problema riguardi realtà geografiche diversissime fra loro: principalmente Paesi come Cina e India, che detengono il primato demografico mondiale, gran parte del continente africano, America centrale, Australia, Medio Oriente e Europa meridionale. Ciò che li differenzia però è l’utilizzo, l’accesso e il tipo di infrastrutture legate all’approvvigionamento d’acqua: i consumi di un cittadino libanese non sono gli stessi di uno italiano o di uno cinese.

Rischio idrico complessivo nel mondo (Source: Aqueduct, WRI)

La gestione del bene più prezioso che abbiamo non è delle migliori. Guardando al consumo d’acqua per attività antropiche, sappiamo che il 70% è destinato all’agricoltura e all’allevamento, contro un 22% industriale e un 8% ad uso domestico. In tutto questo, bisogna soprattutto considerare il fattore demografico. Ad una domanda naturalmente corrisponde un’offerta, ma dal fatto che siamo tanti non deriva necessariamente che possiamo chiedere alla Terra più di quel che è in grado di darci. Ad una fetta della popolazione mondiale sempre più esigente e in sovrappeso fa da contraltare una realtà ai limiti della sopravvivenza. Tuttavia non è una situazione sostenibile ancora per molto.

Consideriamo per un momento lo spreco alimentare: un terzo del cibo prodotto non viene mangiato, semplicemente viene buttato. Aggiungiamo il sovraconsumo in paesi dove l’obesità e il sovrappeso hanno numeri allarmanti (circa due miliardi di persone): solo questo si traduce in un surplus idrico che ci viene a costare 2,2 miliardi di metri cubi d’acqua e 4 miliardi di tonnellate di CO₂ in più. Dobbiamo infatti considerare l’impronta idrica, cioè il volume totale di acqua impiegato lungo l’intera catena di produzione per ottenere un determinato bene. Ormai non è più un mistero che gli alimenti di origine vegetale abbiano sull’ambiente un impatto minore rispetto a quelli di origine animale: optando per diete a base vegetale potremmo ridurre il fabbisogno di suolo coltivabile mondiale di 3,1 miliardi di ettari. E siccome, come si è detto, i settori agricolo e zootecnico occupano i primi posti nel consumo idrico, capiamo quanto sia importante adottare scelte consapevoli.

Consideriamo ora l’industria e l’energia. Se è vero che l’acqua è impiegata in maniera massiva in tutti i processi di lavorazione delle merci, qualche volta dimentichiamo il settore energetico, da quello idroelettrico (dighe a bacino o ad acqua fluente) a quello del carbone e del nucleare, fino agli idrocarburi. In molte aree del mondo l’acqua presente sul territorio a malapena serve a coprire il fabbisogno agricolo e domestico: se però in quegli stessi Paesi l’industria energetica è asse portante dell’economia, capiamo come sia facile che quell’acqua venga sottratta a piccoli agricoltori o pescatori, solo quantificando i danni all’uomo. Anche sbarrare tratti d’acqua con le dighe, soprattutto per fonti contese, spesso può rappresentare una forma di controllo a senso unico che lascia famiglie e coltivazioni di tipo estensivo totalmente – per usare un gioco di parole – all’asciutto.

Water grabbing: le tante corse all’oro blu

Acqua vuole dire potere. Lo sanno in Cambogia, dove hanno inaugurato nel 2018 una diga per sbarrare il Sesan, tributario del Mekong, per rifornire d’acqua la capitale Phnom Penh, costringendo le popolazioni locali a spostarsi. Lo sanno in Medio Oriente, dove per decenni dal 1951 Giordania, Siria, Israele, Palestina e Libano si sono contesi l’area del bacino del Giordano a colpi di sbarramenti e deviazioni di tratti d’acqua, arrivando al conflitto militare più e più volte. Lo sanno a Dimock, negli Stati Uniti, dove la compagnia estrattiva Cabot Oil and Gas, con una serie di errori commessi con il fracking – tecnica di estrazione di idrocarburi che prevede la fratturazione delle rocce con l’utilizzo di acqua e agenti chimici – contaminò le falde destinate al rifornimento della città. Questi non sono episodi isolati, capitano continuamente ma troppo poco balzano all’attenzione dei media.

L’acqua è ormai un bene economico quotato in borsa. Il water grabbing, neologismo coniato su imitazione del più noto land grabbing, indica proprio la corsa all’accaparramento di questa risorsa. Certo, il problema si connette a quello dei terreni coltivabili convertiti in monocolture intensive da parte di terzi, detentori di monopoli industriali e colossi stranieri della finanza. Questi mettono le mani sulla loro preda, con la promessa del lavoro e dietro il pagamento di concessioni e permessi di ricerca a buon mercato per tot anni, al termine dei quali sgombrano il campo.

I danni che creano però sono enormi e a lungo termine: una volta che le falde saranno state prosciugate, i terreni deprivati di ogni nutrimento, che cosa sarà delle popolazioni locali? Quando ormai le loro terre saranno state bruciate? Dobbiamo credere a ragione che questi fenomeni alimenteranno vertiginosamente le realtà migratorie. Senza tener conto di problemi annessi quali ad esempio l’uso di pesticidi, che causa 200.000 morti all’anno, di cui la maggior parte nei Paesi in via di sviluppo. In un mondo che sta sempre più facendo i conti con gli effetti del cambiamento climatico e vede alcune sue aree a rischio desertificazione, bisognerà scegliere delle colture sostenibili e favorire la cosiddetta ‘neutralità nel degrado del suolo’, espressione coniata dalla Convenzione contro la desertificazione (UNCCD) delle Nazioni Unite: una strategia per far sì che i territori recuperati compensino quelli desertificati.

Viene chiamato oro blu, e non senza ragione. D’altra parte c’è anche una corsa all’acqua sia da parte delle industrie del beverage, dalle bibite in bottiglia alla birra, sia da parte dei gestori delle utility, in questo caso del servizio idrico integrato. Ad oggi molte città hanno optato per una rimunicipalizzazione dell’acqua dopo l’ondata di privatizzazioni che ha interessato principalmente la seconda metà del secolo scorso, ma per molte società rimane un business.

La situazione italiana

L’acqua è entrata nel mercato come un future, ossia un contratto sul valore futuro. La sua mercificazione è una questione dibattuta anche in Italia: il 28 gennaio Il forum italiano per i movimenti per l’acqua ha lanciato un appello al governo con una petizione per chiedere l’estromissione di questa risorsa dai mercati finanziari. Dopo il referendum del 2011, che ha significato un tentativo di cambio di marcia rispetto ai progetti di privatizzazione ma non ha influito in maniera risolutiva sul problema della remunerazione del capitale investito, si torna a parlare di acqua come bene pubblico. Secondo alcuni, la logica del profitto incentiverebbe le società alla distribuzione degli utili tra gli azionisti senza piani di ammodernamento e di resilienza delle infrastrutture. In altre parole, si fa dell’acqua una merce di scambio che non prospetta investimenti in loco.

Sappiamo del resto che la gestione idrica degli ultimi anni ha fatto letteralmente acqua da tutte le parti. Basti menzionare la crisi idrica del 2017, che fece emergere le carenze del nostro sistema: già allora l’Istituto di ricerca sulle acque (Irsa) del Cnr aveva lanciato l’allarme circa l’inadeguatezza e l’insufficienza di alcuni bacini a nostra disposizione in caso di siccità. A questo è correlata la questione non da poco dell’obscolescenza delle dighe e delle tubature, che si connette a sua volta non solo alla disponibilità idrica e alla sicurezza, ma anche alla questione degli sprechi.

Secondo gli ultimi dati Istat, il Belpaese poi si piazza al secondo posto in Europa dopo la Grecia per consumo pro capite, pari a 153 metri cubi annui per abitante, contro i 30 di Malta, ultima in classifica, e ugualmente è fra i Paesi a sfruttare maggiormente le risorse idriche del territorio (84% sul totale). Difatti ha uno stress idrico medio-alto.

 

Insomma, se da una parte l’acqua (si stima un 42%!) si perde negli impianti e non arriva mai a destinazione, dall’altra c’è uno sovrasfruttamento anomalo. Con gli effetti del riscaldamento globale, poi, capiamo bene che la situazione non è rosea. Secondo alcuni i piani tariffari italiani sono troppo bassi rispetto a quelli dei vicini europei, per cui maggiori investimenti agevolerebbero quei deficit già palesatesi. In pratica, sembra che si spenda troppo poco per il servizio idrico (circa 40 euro per abitante all’anno contro i 100 della media europea), una controtendenza invece rispetto a quello che paghiamo per l’acqua in bottiglia: ne compriamo il doppio rispetto al resto d’Europa, con un’immissione di CO₂ pari a 1,2 miliardi di tonnellate.

Come prepararsi al meglio

Possiamo a ragione dire che il problema dello stress idrico ci trova impegnati su due fronti: da una parte la gestione di quel che abbiamo già, evitando sprechi e sovraconsumi, e dall’altra la ricerca di strategie e soluzioni alternative. In Italia l’uso spropositato di acqua in bottiglia, che segna un ulteriore dispendio idrico (per produrre un litro ne servono altri 8), si comprende anche alla luce della generale diffidenza per le reti pubbliche. Eppure queste sono sicure e controllate. Una soluzione scontata rispetto agli sprechi e alle carenze italiane sarà l’ammodernamento degli impianti, dalle tubature ai depuratori. Questi ultimi ad esempio potrebbero garantire non solo un riutilizzo dell’acqua, in Italia stimato solo al 50%, ma una prevenzione essenziale dalla contaminazione delle falde sotterranee, che porta inevitabilmente a una riduzione ulteriore della disponibilità totale. All’Italia l’inefficienza dei sistemi di trattamento delle acque reflue sono finora costate ben 77 milioni di euro per quattro procedure d’infrazione delle normative europee, spese che aumenteranno se non interveniamo al più presto.

Recentemente si è parlato molto del cosiddetto bonus rubinetti proposto con la nuova legge di bilancio, ma che in mancanza del decreto attuativo dovrà aspettare: è prevista l’erogazione di 1.000 euro per la sostituzione di sanitari, rubinetti e colonne doccia con mezzi più efficienti e anti-spreco. La domanda é: con un sistema idrico nazionale fatiscente la distribuzione di questi contributi da destinare alla rubinetteria e sanitari di privati è una soluzione o un mero palliativo che poco ha a che vedere con il reale spreco sul territorio italiano? Se è vero che ogni passo nei confronti della cosiddetta transizione ecologica è sempre ben accetto, nondimeno non bisogna fare l’errore di pensare che queste piccole strategie rappresentino il vero punto di svolta.

C’è tanto da fare e gestire le risorse economiche al meglio è fondamentale. A questo riguardo, come si legge in un recente dossier di Legambiente, una proposta per alleggerire la spesa pubblica può essere anche quella di alzare il canone di concessione per le compagnie delle acque minerali in bottiglia –  attualmente pari a 0,2 centesimi di euro al litro imbottigliato – a un minimo di 2 centesimi, che farebbe incassare alle Regioni 262 milioni in più.

Una novità che ci fa ben sperare è l’entrata in vigore a gennaio della Direttiva Europea 2020/2184 sulle acque destinate al consumo umano e che prevede maggiori controlli e garanzie. Sempre Legambiente preme perché il governo:

1) ratifichi il Protocollo Acqua e Salute OMS-UNECE (United Nations Economic Commission for Europe) che, oltre a portare alla luce le criticità preminenti del nostro sistema, invita a un approccio interistituzionale;

2) approvi prima del 2029 i Piani di Sicurezza dell’Acqua (WSP), che propongono una strategia di prevenzione e controllo estesi a tutta la filiera idropotabile.

Entro il 30 aprile poi gli stati membri dovranno presentare i Piani nazionali di ripresa e resilienza (PNRR). “La Transizione ecologica deve migliorare e proteggere le nostre risorse idriche: con il PNRR stiamo lavorando su questa tematica, per mettere in sicurezza l’infrastruttura, i bacini idrici e gli alvei naturali” – così si è espresso il Ministro della Transizione Ecologica Roberto Cingolani in occasione della Giornata Mondiale dell’acqua lo scorso 22 marzo.

Un altro passo decisivo al fine di salvaguardare la nostra penisola dallo stress idrico sarà poi sensibilizzare ed educare a comportamenti sostenibili. L’ultimo report Istat sull’acqua ci conferma una lieve e incoraggiante inversione di trend per quanto riguarda la consapevolezza relativa alla tematica: il 70,3% di persone nel 2020 si è detto preoccupato e attento agli effetti del cambiamento climatico contro il 63,3% del 2012. Insomma, per quello quasi ci siamo, sono le pratiche virtuose a farsi attendere.

Non si butta via niente

Una questione importante, già in parte sopra menzionata, è quella del riciclaggio e del recupero delle acque piovane e reflue. In particolare, il Rapporto mondiale delle Nazioni Unite sullo sviluppo delle risorse idriche 2021 dal titolo ‘Valuing water’ ha dichiarato proprio le potenzialità in termini di rendimento delle acque di scarto, soprattutto nei campi agricolo ed energetico. Non dobbiamo poi dimenticare gli impianti da desalinizzazione, che potrebbero colmare in molti Paesi buona parte della domanda idrica. 16.000 sono già le strutture operative nel mondo, con un aumento considerevole in Cina, Stati Uniti e America Latina. Sfruttare l’acqua del mare non è cosa semplice e comporta costi difficilmente sostenibili dagli stati che più ne hanno bisogno, ma la diminuzione dei prezzi degli ultimi anni, con a sostegno normative locali e internazionali più rigorose, fa ben sperare.

Impianto di dissalazione negli Emirati Arabi Uniti

Tante sono del resto le energie profuse per trovare soluzioni efficaci e intelligenti, spesso nell’ottica di un’economia circolare, capace di autosostenersi nel lungo periodo. Ma perché non guardare anche all’esempio di chi è venuto prima di noi? Come nel caso del Progetto Foggara, uno studio condotto in Algeria per la riabilitazione delle foggara tra il 2004 e il 2009 a seguito di un protocollo di cooperazione bilaterale tra i ministeri dell’ambiente italiano e algerino. Capire il funzionamento di queste strutture può essere decisivo non solo per salvaguardare intere oasi che oggi rischiano di scomparire nel Nordafrica, ma anche per assimilare una lezione preziosa per i tempi a venire e poter ricreare modelli analoghi basati sui fenomeni di infiltrazione e condensazione dell’acqua.

di Maria Grazia Gentili

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