Una censura lunga una vita

Chloé Zhao viene censurata dal suo Paese d'origine, ma è solo l'ultima delle vittime di questa forma di controllo sociale.



Ancora una volta la grande Repubblica Popolare ha messo in campo una delle sue forme di controllo sociale preferite, la censura. A pagarne il prezzo stavolta è Chloé Zhao, stella nascente del cinema internazionale che nonostante il grande successo – e il grande traguardo visto che è la prima donna di origine asiatica a vincere la categoria ad ogni corpo di premiazione  – si ritrova censurata dal suo paese d’origine. Ma in realtà questa condanna non è vezzo della sola Cina, anzi è una pratica che ha origine remote e che nasce dalla paura che particolari informazioni possano minare la stabilità di una comunità.


Una decisione controproducente

Questa importante vittoria avrebbe potuto essere motivo d’orgoglio per la Cina, la seconda potenza economica mondiale. Un paese che avrebbe potuto accrescersi ancora di più culturalmente, accogliendo un prodotto artistico di tale risonanza. Le questioni politiche hanno avuto la meglio sulla considerevole portata del film, attuando una scelta poco congeniale.  Il governo cinese ha preferito bollare Zhao come ‘traditrice’, ed i motivi per cui si è arrivati a questo sembrerebbero molteplici.

La motivazione che ha provocato più scalpore riguarda una sua dichiarazione del 2013 in cui aveva definito la Cina un paese in cui “ci sono menzogne ovunque”. Questa dichiarazione è stata la giustificazione che ha portato al blocco totale della circolazione di informazioni sul web riguardo Nomadland ed interrompendo addirittura la distribuzione del filmLa scelta della Cina di censurare Chloé Zhao non è stata neanche una scelta di censura relativa al prodotto artistico, non è stato censurato il film in quanto offensivo verso la Cina. E’ stata censurata l’artista che l’ha creato. La vita personale di Zhao diventa in questo modo il suo stesso prodotto.  

La regista ha rappresentato una minaccia per il suo paese di origine ma il prodotto artistico di Zhao non ha alcuna traccia di offesa verso possa offendere la sua comunità. Nel caso in cui ipoteticamente la regista, all’interno del suo film, avesse messo alla luce degli aspetti negativi del suo paese d’origine, sarebbe stato più logico censurarlo – sempre secondo la logica della Repubblica Popolare – poiché avrebbe contenuto un messaggio provocatorio e rivendicativo verso i potenti. Una ribellione inaccettabile secondo il sistema cinese. La regista invece, non ha fatto niente di tutto ciò all’interno del suo prodotto. Limperante patriottismo del governo cinese  non si è bloccato neanche davanti alla commovente dichiarazione della regista, che una  volta afferrate le sue statuette,  ha ricordato la sua infanzia nella madrepatria: “Recitavamo poesie classiche della tradizione cinese, ci sfidavamo a finire le strofe iniziate dall’altro. Ce n’è una che mi piace sempre ripetere, dice che: le persone alla nascita sono intrinsecamente buone. Continuo a crederci anche adesso”  dedicando il premio  a “chiunque abbia la fede e il coraggio di mantenere la bontà in  sé stessi”. In questo caso risulta piuttosto difficile dedicare  il premio  ad un  Paese che  non ha dimostrato  quel tipo di bontà di cui lei parla,  considerando che  i motivi politici hanno avuto la meglio sulla sua arte.  A questo punto è lecito domandarsi: la scelta della censura è stata più dannosa per Zhao o per il suo paese d’origine che ha perso l’occasione di ricevere parte del riconoscimento?


Ad ogni contesto oppressivo la sua censura

Il prodotto artistico ha sempre avuto la capacità di stravolgere l’ordinario, e come sappiamo, nel panorama artistico ci son state diverse opere rivoluzionarie tacciate dal contesto oppressivo. Un esempio fondamentale è senza dubbio quello di Daniele da Volterra, incaricato nel 1564 di ricoprire le nudità ritenute oscene del Giudizio universale di Michelangelo. Il contesto era quello del 500, in cui il Concilio di Trento ribadì la funzione didattica dell’arte. Gli artisti avevano il compito di suscitare nei fedeli sentimenti di pietà e devozione, l’arte veniva concepita come Biblia pauperum, una Bibbia dei poveri. L’opera di Michelangelo posta in quel contesto era dunque provocatoria, offensiva, tant’è che venne accusato di aver tradito la verità evangelica tramite un’opera priva di decoro e colma di oscenità.

Édouard Manet è un altro esempio memorabile di censura. Il suo dipinto Olympia introdusse come soggetto una figura femminile adagiata sul letto, nuda. Lo scandalo non risiedeva tanto nella rappresentazione di un corpo nudo femminile, che fino ad allora era sempre stato figurato in un contesto mitologico (un esempio è La nascita di Venere di Botticelli). Lo scandalo di Olympia stava nel fatto che si sapeva che la modella fosse Victorine Meurent, una prostituta presentata senza alcuna ipocrisia. La sua espressione nel dipinto appare gelida, priva di provocazione. Tutto ciò si scontrava con il senso morale dell’epoca, contro cui Manet aveva esposto una sottile ma rilevante provocazione.

Nel Novecento la censura ha continuato a colpire tramite fascismo e nazismo. Durante il fascismo la censura si proponeva il controllo dell’immagine pubblica del regime, ottenuto anche con la cancellazione immediata di qualsiasi contenuto che potesse suscitare opposizione. Per Mussolini era importante che l’arte comunicasse i valori del regime, diventando così un forte strumento di propaganda. In questo modo coinvolgeva intellettuali ed artisti, istituendo premi ed esposizioni come la Quadriennale di Roma o la Biennale di Venezia, dove gli artisti ebbero l’opportunità di farsi conoscere a livello internazionale. Nel contesto del regime nazista il termine Arte degenerata (in tedesco entartete Kunst) indicava quelle forme d’arte che riflettevano valori o estetiche contrarie alle concezioni naziste. L’arte considerata ‘degenerata’ venne rimossa da tutti i musei. Tra le opere confiscate ne individuarono 650 che esposero in una speciale mostra itinerante di arte degenerata. L’espressionismo rappresentava la corrente artistica più presente tra le opere condannate.



Da questa analisi storica della censura artistica possiamo denotare quanto in alcuni paesi vi sia ancora una forte influenza dittatoriale sull’arte. Secondo alcuni studi condotti dalla  Comparitech la classifica dei paesi più controllanti a livello digitale mostra la Cina al secondo posto, subito dopo la Corea del Nord. Si mostra come in Cina non solo siano bloccati gli accessi a social media, siti porno e alle VPN, ma addirittura  le ultime leggi sancite in Cina blocchino la libertà d’espressione in tutto e per tutto: i giornalisti non possono scrivere articoli che possano andare contro il governo e i cittadini possono essere sottoposti a gravi condanne se mettono anche solo un like o mostrano concordanza per articoli che possano contrariare il potere costituito.
Com’è possibile che nell’era della modernità e della libertà d’espressione, ancora esista la censura artistica? 

L’importanza dell’espressione artistica

L’arte è una forma d’espressione che parte da sé e può estendersi al collettivo. Riesce a unire le persone e a farle identificare nell’oggetto espresso dall’artista. L’arte è fluida, libera e genuina. Ogni limitazione ad essa stravolgerebbe il suo significato più profondo. L’arte per poter vivere ha bisogno di una realtà che la accolga nella sua totalità. Un prodotto artistico dovrebbe fluire senza alcun freno, in quanto frutto di libertà di espressione dell’individuo. Fin quando la libertà di espressione dell’artista non lede la libertà altrui, qual è il motivo di subire una censura?

Diversi sono i casi in cui i prodotti artistici vengono censurati in quanto dannosi nei confronti di minoranze. Negli ultimi tempi si è sensibilizzato questo concept, definito come politically correct: un modo per tutelare le minoranze e non permettere per esempio che vengano rappresentate attraverso stereotipi nocivi. Il politically correct può essere considerato l’unico tipo di censura ‘positiva’, un modo per decostruire realtà che ledono nel quotidiano comunità di persone oppresse. Il caso di Nomadland, possiamo constatare, non è affatto questo. La censura di Nomadland è una censura anacronistica, che mal si coniuga con la realtà progressista di adesso. 

Proviamo ora  ad immaginare di vivere anche solo per un giorno senza potere  accedere ai nostri social preferiti, senza  pubblicare dei post in cui esprimiamo liberamente il nostro pensiero riguardo a un fatto politico, artistico, culturale che sia. Proviamo ad immaginare una società in cui non ci viene permesso di guardare ed emozionarci davanti a un prodotto cinematografico dal gran calibro come ‘Nomadland’.
Questa realtà esiste, noi abbiamo il privilegio occidentale di non farne parte. Abbiamo il privilegio di poterci ribellare senza ripercussioni, pertanto dobbiamo utilizzarlo per far chiarezza e continuare a lottare per la libertà di espressione artistica in tutto il mondo. Se la censura dispotica corrisponde all’opposto della libertà d’espressione, la rivolta rappresenta lo strumento per combatterla.

di Nicoletta Montesi e Deborah Nisi

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