UniPr OnAir – Rosa Oliva: “La verità è che in Italia c’è ancora l’invisibilità delle donne”

Il professore Antonio D’Aloia discute con la giurista e attivista Rosa Oliva sul Goal 5 dell'Agenda 2030 sulla la parità di genere

Nel 2021, metà della popolazione mondiale è ancora discriminata e svantaggiata – si tratta della metà femminile. Le bambine vengono discriminate durante la loro educazione, che a volte addirittura viene loro negata, e le donne vengono discriminate nel mondo del lavoro, ricevendo paghe inferiori a quelle dei colleghi maschi e avendo accesso a meno opportunità e posizioni. 

Durante la pandemia dovuta al COVID-19, la loro situazione è peggiorata, rivelando numeri criticamente in aumento per quando riguarda i casi di violenza, la situazione economica e lavorativa. 

Per questi motivi, l’ONU ha inserito la parità di genere nell’Agenda 2030 come goal 5, con l’obiettivo di migliorare la situazione femminile globale. 

Nella decima puntata di Unipr OnAir, il professor Antonio D’Aloia, docente di Diritto costituzionale all’Università di Parma, intervista la giurista e attivista Rosa Oliva sul tema per cui lei si batte dal 1958, ovvero l’uguaglianza di diritti tra i sessi. 

Quella prima disobbedienza che ha cambiato l’Italia

E’ il 1958, e, appena conseguita la laurea, la giovane appassionata di diritto costituzionale Rosa Oliva decide di concorrere per la carriera pubblica, in particolare per il bando di prefetto. È uno degli sbocchi più sicuri, più comuni e più redditizi per un laureato in tale ambito, ma c’è un problema: il bando ha una clausola di genere. A questo punto, la neodottoressa compie una scelta che cambierà il panorama legislativo, sociale e culturale italiano, ovvero farà comunque domanda. Qualche tempo dopo la presentazione della domanda, viene chiamata in commissariato, dove le viene comunicata l’impossibilità di partecipare al concorso. Lei decide di far mettere per iscritto questo fatto, e si rivolge al professore che le ha curato la tesi, il professor Mortati, che sarà una figura chiave in questa battaglia che durerà due anni. Così inizia la storia della sentenza 33/1960 della Corte costituzionale, e quella dell’attivista Rosa Oliva. 

Questo momento, ricorda lei, è il momento che lei prende come una prima sfida, una prima disubbidienza, seguita da diverse altre. A rendere il tutto ancora più difficile è il suo essere sola con la sua conoscenza del diritto. Infatti, sebbene avesse studiato storia, non aveva idea di movimenti femministi che dall’ottocento si battevano per semi dei diritti, e sebbene leggesse sul giornale i nomi delle grandi associazioni femminili, non le conosceva davvero, e in quel momento era quindi davvero sola. Ad accompagnarla in un cammino lungo due anni, poi, sono stati non solo il professor Mortati, ma anche una famiglia che l’aveva cresciuta in maniera decisamente moderna.

Infatti, come riporta lei, la famiglia Oliva era una famiglia dove erano presenti esempi che l’hanno portata a fare quello che ha fatto, tra cui portare avanti gli studi. In quegli anni, le laureate donne erano pochissime, ma grazie alla normalizzazione del proseguimento degli studi, la dottoressa non se ne era mai resa davvero conto. Inoltre, la sua era una delle poche famiglie in cui c’erano modelli moderni di donna, come le zie che avevano figli ma comunque lavoravano, aiutate da compagni che non ci vedevano nulla di male. Tutti questi dettagli, il supporto del padre per lei e per suo fratello, l’esempio delle parenti, hanno avuto un effetto importante su di lei, ammettendo che “inconsapevolmente mi hanno portato a essere quella che sono e a compiere quella decisione”.

Questo gesto di disobbedienza solitaria, fa presente il professore, è un gesto che ha poi portato a trasformazioni radicali nel nostro paese, e che può essere paragonato a quelli che hanno fatto la storia dell’Italia. La dottoressa questo l’aveva capito già nel 1960, quando le è arrivata la sentenza. Infatti, la notizia fece molto clamore, i giornalisti e fotografi si interessarono fortemente  a questa vittoria giudiziaria che rappresentava un unicum nel panorama italiano. Ma, a livello di carriera, per l’Oliva non cambiò molto: “Molti pensano che io sia stata la prima perfetta donna, ma non è così, perchè tra il ’58 ed il ’60, mentre mi preparavo per la sentenza, avevo fatto un altro concorso ed in quei giorni stavo per prendere servizio nel campo dell’ amministrazione finanziaria, quindi non avevo interesse nel fare un altro concorso”. Fatti come questo sottolineano l’importanza che questa sentenza avuto non per una singola donna, ma per tutte le donne italiane. Infatti, dopo la sentenza l’Oliva poteva chiedere l’annullamento il concorso, poteva ripresentare domanda, eppure non ho fatto niente di tutto ciò, perché, come lei stessa afferma, “non era solo per me, anzi, più che per me era per le altre, non era un fatto di esclusione personale”.

L’importanza del linguaggio, tra azioni pubbliche e personali

Nonostante questa sentenza abbia avuto un impatto molto forte sulla legislazione italiana, il professor D’Aloia ricorda che la battaglia per l’uguaglianza è una battaglia che il diritto da solo non può vincere. Un cambiamento potrebbe avvenire grazie al linguaggio, in quanto i termini legali usati nel mondo delle istituzioni dei rapporti professionali sono di matrice maschile, e lavorare per cambiarli sarebbe di enorme aiuto. Rosa Oliva non solo è d’accordo, ma si impegna su questo fronte da anni con la sua associazione Rete per la Parità – APS. Con altre donne, ha infatti fondato un gruppo che si impegna per la parità, e che si basa su tre essenziali linee guida, tra cui la volontà di non avere mai più donne invisibili. “Le donne italiane sono coperte da un burqa mediatico, noi ci scandalizziamo molto ma la verità è che in Italia c’è ancora l’invisibilità delle donne”, dichiara duramente, sottolineando come dagli anni del suo ricorso non sia cambiato poi molto. Le donne sono invisibili nella storia che dai libri di testo scolastici, dalle strade, che sono intitolata per la maggior parte a uomini e se riguardano le donne esse sono perlopiù sante o figure religiose. L’impegno dell’associazione nel rendere le donne visibili sta proprio nell’attivare dei progetti nelle scuole, nell’impegnarsi in diverse operazioni culturale, e nel creare consapevolezza di chi sono e sono state nella storia, e soprattutto di affrontare cosa impedisce di abbattere definitivamente gli ostacoli per l’uguaglianza. Parte della risposta a quest’ultimo quesito è quello che la dottoressa Oliva chiama abuso di posizione dominante, un termine che ha scoperto solo poi essere condiviso dai movimenti femministi dell’Ottocento. “Gli uomini che hanno il potere da millenni ostacolano in maniera palese e subdola questo percorso verso la parità”, sostiene, evidenziando l’urgenza di accelerare questo cammino. Come dice lo stesso professor D’Aloia, non è più quesitone di parlare, ma di agire, di introdurre strategie di azioni a favore della parità, come le famose quota rosa. A questo riguardo, la dottoressa sottolinea quanto queste siano misure necessarie di cui avremmo bisogno per molto tempo ancora, e che lei sostiene da ormai quarant’anni. Riporta all’attenzione come la nostra Repubblica abbia il compito di rimuovere gli ostacoli, non può solo proporre la loro rimozione come principio, ma deve impegnarsi attivamente, ed azioni come le quote rosa servono proprio a questo.

Nel personale, invece, l’agire sta anche nel linguaggio già citato. Oliva infatti comprende quelle donne che si fanno chiamare architetto o ingegnere, rifiutando l’accezione femminile, perché è consapevole che così facendo la loro vita lavorativa diventa un po’ più semplice. Però, ricorda che compiere questa scelta vuol dire dimostrarsi insensibile alla questione, timorose che loro svelarsi come donne ostacoli al pieno successo, e nonostante ciò sia comprensibile, è necessario comprendere quanto sia anche dannoso. Sebbene molti titoli derivino dal fatto che prima ad occuparsi di un certo mestiere può essere presente in un certo ambito erano solo uomini, ora le donne ci sono, e non è solo la grammatica che dovrebbe riconoscerlo. Servono infatti delle leggi, dei provvedimenti, come quella proposta dalla sua associazione, che individua i casi ed i criteri in cui devono essere adottati termini femminili, con annessa una lista di titoli e professioni adeguatamente declinate. Queste misure sono necessarie, perché, come lei stessa afferma, “si possa indurre le donne all’uso femminile dei termini, a presentarsi come donne, a non doversi omologare, perché purtroppo quando entri in un mondo maschile sei sola, o siete in poche contro una massa di uomini, e l’omologazione rende la convivenza più facile, ma è dannosa: noi dobbiamo entrare nel mondo come donne”.

Le nuove sfide, le nuove disobbedienze

A sessant’anni della sentenza che hai cambiato la storia giuridica e sociale del nostro paese, e chiaro che ancora c’è molta strada da fare per arrivare ad una situazione di parità. Questo anche perché sono ancora vive troppe abitudini dovute a stereotipi passati, come ad esempio quella del patronimico. Infatti, una delle situazioni che l’Oliva con la sua associazione intende cambiare è la questione di legittimità costituzionale sulla trasmissione del cognome. Nel 2016, c’è stata una sentenza che permetteva di mettere un cognome diverso da quello del padre, o di aggiungere a quello della madre, se c’è un accordo tra la coppia, ma se l’accordo non c’è il cognome è automaticamente quello del padre. Il semplice fatto che vada direttamente quello del padre, però, è chiaramente conseguenza di stereotipi passati, proprio quelli su cui la dottoressa vuole intervenire. Quella del cognome, infatti, è sempre stata una sua battaglia: è solo dopo il 1975 che è una donna può scegliere di non cambiare cognome dopo essersi sposata, e dal 2011, grazie a conferenze e simili occasioni, si batte perché venga riconosciuto che anche il cognome è una parte del linguaggio che rende le donne invisibili o meglio rende le madri invisibili. Già cinquant’anni fa la dottoressa ha pubblicato una raccolta di saggi sul tema, ed è intervenuta dal punto di vista legislativo quando una coppia di amici voleva aggiungere il cognome della madre a quello del padre al proprio figlio, arrivando fino al tribunale. Nel corso del tempo, con l’associazione hanno anche preparato un ricorso, che è però stato respinto formalmente al momento dell’udienza. Il fatto che nel 2016 la corte si sia sentita in dovere di intervenire sulla questione e perché la riforma del cognome doveva esserci già da tempo, afferma lei, ma ancora non ce n’è traccia. Proprio in quell’occasione, in quella sentenza, si trova questa frase, che l’Oliva ci tiene a riproporre: “Ma che diritto è quello subordinato al consenso di un maschio?” Queste parole servono secondo lei a ribadire l’importanza di azioni come questa, e rendono chiaro il motivo della battaglia sua e della sua associazione per far conoscere le vittorie che già sono state conquistate, come l’annessione del cognome della madre, e quelle per cui bisogna ancora combattere. 

Inoltre, questo particolare momento storico sta avendo un impatto innegabile sulla popolazione, ed in particolare sulle donne, sia in termini lavorativi sia interni di violenza fisica e psicologica. La pandemia infatti ha colpito duramente la popolazione femminile, che già partiva da una condizione svantaggiata in Italia. Secondo i dati prodotti da Linda Laura Sabbadini, figura chiave nelle statistiche di genere, le donne durante la situazione dovuta al COVID-19 hanno perso molti più posti di lavoro, il che condiziona pesantemente il futuro dell’Italia. Infatti, come ci ricorda, gli studi hanno realizzato che meno donne lavoratrici vogliono dire meno risorse umane utilizzate, meno figli, e un’occasione sprecata, in quanto il nostro Pil salirebbe di sette punti se le donne italiane lavorassero al pari di quelle europee. In questo clima di ripresa e di allocazione dei fondi, la sua associazione ha voluto fare una richiesta decisamente provocatoria, ovvero a chiesto la metà dei fondi, perché le donne rappresenta la metà della popolazione e vogliono la metà. La stessa dottoressa sottolinea come una richiesta che non può essere accolta, ma che serve a a mettere in luce come la questione femminile in molti settori e primaria, e meriterebbe più fondi di quelli che ha. Da cinque anni, ormai, con ASVIS Rosa Oliva si impegna per il binomio parità e sostenibilità, un binomio che ha riconosciuto l’ONU nella sua agenda 2030, inserendo entrambi i punti. Per lei, la sostenibilità è da intendere in senso più ampio che quello ecologico, perché senza parità fra donne non c’è sostenibilità, soprattutto in ambiti come il diritto allo studio, come le possibilità procreative, e senza queste possibilità migliorare il mondo diventa un’impresa davvero più difficile. Nota positivamente come ormai termini come empowerment femminile siano noti e usati dai più, e questo è un grande passo avanti in quanto si mette al centro il potere delle donne, solo loro e non condiviso con gli uomini, che non le mette in condizione di sopraffazione. 

“Per avere il progresso, il miglioramento, ci vogliono le crisi, è triste da dire”, conclude Rosa Oliva, facendo presente tutte le conquiste ottenute dopo la guerra, quando in una situazione difficile le donne dovettero prendere il posto dei mariti al lavoro ed esporsi in molti campi. “Il cambiamento c’è anche adesso, per ora negativo, ma dobbiamo uscire da questa crisi con una resilienza creativa e trasformativa. Le donne sono fattori di cambiamento quindi molto è affidato a noi per uscire da questo momento.

di Teresa Tonini

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