Da Napoleone a oggi: depredatori e depredati di opere d’arte

Studiosi di storia dell’arte e di diritto dialogano con una prospettiva interdisciplinare e si confrontano sullo spinoso tema delle spoliazioni delle opere d’arte, a Parma e nel mondo, lungo il corso della storia

L’Italia e le spoliazioni di opere d’arte. Questo il titolo del convegno organizzato all’interno delle celebrazioni per Parma Capitale della Cultura 2020 +2021 da CSEIA, Centro Studi in Affari Europei e Internazionali, in collaborazione con il Dipartimento di Giurisprudenza, Studi politici e internazionali dell’Università di Parma

Il convegno, organizzato dalla professoressa Laura Pineschi, direttrice dello CSEIA, ha visto la partecipazione, in ordine di intervento, del professor Giovanni Francesco Basini,  direttore del Dipartimento di Giurisprudenza, Studi politici e internazionali dell’Università di Parma; del sindaco di Parma, Federico Pizzarotti; del professore Emanuele Pellegrini della Scuola IMT Alti Studi di Lucca, nonché coordinatore di un programma di dottorato in analisi e gestione del patrimonio culturale; di Andrea Croci, il coordinatore Regione Emilia-Romagna dell’Associazione Italiana Giovani per l’UNESCO; di Elisa Marangon, dottoranda in un progetto di ricerca tra tra l’Univerzita Palackého v Olomouci e l’Università degli Studi di Parma; di Manlio Frigo, professore ordinario di Diritto della Comunità internazionale e dell’Unione europea presso l’Università degli Studi di Milano; di Tullio Scovazzi, professore ordinario di Diritto Internazionale dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca e di Francesco Francioni, professore emerito del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Istituto Universitario Europeo.

Il traffico illecito delle opere d’arte e il diritto dei beni culturali

L’aggettivo culturale, riferito a un bene, può comprendere oggetti d’interesse storico, archivistico, numismatico ed altro ancora. Ora questi beni, sottoposti a una sottrazione fraudolenta o per ragioni politiche, belliche e storiche o per esportazione illecita e/o furto, denotano una grande categoria di traffico illecito, tanto che, il professor Frigo Manlio riferisce che questo illecito è “nella top five dei grandi settori, in cui opera la criminalità organizzata, assieme al traffico di stupefacenti e al traffico di armi: quindi, non è un fenomeno episodico ma è un fenomeno sotto l’attenzione internazionale

Il Codice dei beni culturali e del paesaggio (D.lgs. n. 42 del 2004) contiene una serie di norme che vengono considerate particolarmente protezionistiche rispetto all’arte e alla cultura e che succedono a una lunga tradizione legislativa, il cui modello secolare, con intento di tutela, è rappresentato da leggi che vietano una circolazione internazionale delle varie categorie di beni. Questi limiti alla circolazione hanno anche delle conseguenze di natura penale.

Gli sforzi della comunità internazionale per cercare di combattere questo fenomeno criminale si possono sintetizzare in tre principali convenzioni: la Convenzione dell’Aia, del 1954; la Convenzione Unesco, del 1970 e la Convenzione dell’Unidroit, del 1995

In merito all’ultima convenzione, il professore Frigo aggiunge che “oggi ci sono 51 Stati che hanno ratificato. Ci sono però molte resistenze. Significativamente, non hanno ratificato praticamente tutti i grandi paesi cosiddetti importatori di beni culturali: la Francia, che però l’aveva firmata, la Svizzera, il Giappone, l’Olanda, gli Stati Uniti, il Regno Unito; cioè i paesi del mercato dell’arte, che non sono molto propensi ad accogliere questo sistema.”

Le spoliazioni napoleoniche a Parma

Andrea Croci affronta il tema delle spoliazioni napoleoniche a Parma, il divieto dello ius predae e l’obbligo di restituzione dei beni culturali.

Croci chiarisce: “Con l’espressione spoliazioni napoleoniche noi ci riferiamo a quanto accaduto durante la cosiddetta età napoleonica: vale a dire il periodo compreso tra il 1796, l’anno della discesa di Napoleone in Italia, e il 1815 con il Congresso di Vienna e la successiva, definitiva caduta dell’impero napoleonico. In questo periodo un imponente numero di opere d’arte viene sottratto dai territori conquistati, da parte delle truppe francesi e dei funzionari, anche successivamente, appositamente inviati, da Parigi a tale scopo.”

Nella campagna d’Italia di Napoleone, rispetto alla precedente confisca dei beni culturali nei Paesi Bassi, s’inserisce “un elemento di novità”: Napoleone decide di dotare le requisizioni delle opere d’arte di una legittimazione giuridica e comincia, quindi, ad aggiungere, all’interno degli armistizi, conclusi con gli Stati conquistati, delle disposizioni relative al trasferimento di opere d’arte. Per esempio, dell’armistizio concluso tra il duca di Parma e l’esercito francese, nel maggio del 1796, l’art. 4 recita espressamente che: “Il duca di Parma si impegna a consegnare a Napoleone, o ai suoi incaricati, venti dipinti a scelta di Napoleone”. In realtà, aggiunge Croci, “sappiamo che al 1815, anno del Congresso di Vienna e caduta di Napoleone, le opere d’arte che saranno state trasferite da Parma saranno più di 60.” 

Nel 1815, dopo la caduta di Napoleone, entriamo nella seconda fase delle spoliazioni, cioè quella dei recuperi e Croci chiarisce: “Caduto Napoleone, tutti gli Stati interessati cercano di riottenere le opere, che erano state in precedenza sottratte. Alcuni Stati, in particolare, come quelli italiani, che subivano il controllo delle principali potenze europee, incontrano particolari difficoltà in questa attività. Ad ogni modo nel 1815 tutti gli Stati, che hanno subito in sostanza queste spoliazioni, hanno a Parigi un proprio rappresentante incaricato di cercare di riottenere i beni sottratti. In questo contesto è celebre la figura del Canova, in veste di diplomatico, inviato a Parigi come rappresentante dello Stato pontificio. Per Parma, invece, in modo particolare Giuseppe Poggi, che sarà delegato dell’imperatore d’Austria per ottenere il recupero dei beni sottratti al Ducato di Parma.”

L’impresa del Poggi fu particolarmente difficile: “Dovette scontrarsi con l’opposizione della popolazione parigina, dei funzionari del Museo del Louvre e nemmeno l’imperatore austriaco fu di grandissimo aiuto perché probabilmente, per evitare di esacerbare le tensioni con i francesi, chiese solo la restituzione delle opere presenti nelle collezioni pubbliche, escludendo, quindi, le opere nelle collezioni private e quelle collocate nei musei fuori Parigi.”

Ammirato dallo stesso Canova per il suo metodo, come testimonia una lettera conservata presso la Biblioteca Palatina di Parma, Poggi compì un’impresa particolarmente fruttuosa, recuperando ventotto delle sessanta opere depredate. 

Dal punto di vista giuridico è rilevante che “Napoleone sentì la necessità di fornire una legittimazione giuridica all’opera di spoliazione: infatti, questo dimostra che all’epoca invocare lo ius predae (diritto di preda), di tradizione romana, non era più sufficiente a legittimare una tale condotta, ossia quella di requisire i beni culturali nei territori conquistati.” In quel periodo, infatti, ebbero peculiare divulgazione e importanza le lettere dell’archeologo francese, Antoine Chrysostome Quatremère de Quincy, che si opponeva alle spoliazioni napoleoniche. “Quatremère scrive chiaramente che dividere equivale a distruggere: quindi, si sofferma sul rapporto inscindibile tra bene e il contesto di provenienza del bene stesso.”

Se Quatremère de Quincy condizionò le spoliazioni durante Napoleone, il duca di Wellington e Lord Castlereagh intervennero ed agirono, coerentemente con questa posizione, dopo Napoleone. “Entrambi non si limitarono a esprimere opinioni, anche se assolutamente nette: il Regno Unito, infatti, si prodigherà nel supportare le pretese restitutorie dello Stato pontificio. I beni culturali, trasferiti in quegli anni, dovevano assolutamente ritornare nel loro contesto di origine. In estrema sintesi, è possibile affermare, con riferimento alla vicenda delle spoliazioni e ai recuperi di quell’epoca, che rappresentano un crocevia molto importante nell’evoluzione del diritto internazionale del patrimonio culturale.

L’avventuroso salvataggio della Regia Galleria di Parma ad opera di Armando Ottaviano Quintavalle e dei suoi fedeli collaboratori e amici

La dottoressa Elisa Marangon ha presentato un lavoro di ricerca che ha  visto il rilevante contributo della professoressa Federica Veratelli e del professore Gian Claudio Spattini

Il titolo del suo intervento è Spoliare, “occultare“ per tutelare. Armando Ottaviano Quintavalle: l’avventuroso salvataggio della Regia Galleria di Parma (1940-45). In esso si racconta della coraggiosa, nonché eroica, missione con cui il Soprintendente Armando Ottaviano Quintavalle, padre del professore emerito dell’Università di Parma, Arturo Carlo Quintavalle, preservò gli oggetti artistici che gli vennero affidati dalla Soprintendenza, dagli enti religiosi e dai proprietari privati, durante la Seconda guerra mondiale, all’interno del rifugio istituito a Torrechiara, nella campagna parmense, per proteggerli dalla bramosia depredatoria nazista.

La professoressa Pineschi aggiunge, riportando un ricordo del prof. Quintavalle: “Opera estremamente onerosa, come lui stesso mi raccontava, perché suo padre oltretutto era ferito a una gamba, in seguito alla guerra in Libia, e con un numero enorme di opere da caricare e nascondere nei sotterranei del castello di Torrechiara. Mi raccontava anche del terrore che visse la sua famiglia perché sarebbe stato sufficiente che un custode del castello li tradisse ed erano spacciati. Quindi, è un tipico esempio di come la passione personale e il senso dell’importanza delle opere d’arte, anche come identità di una popolazione, possa spingere persone a dei gesti eroici.”

Questa ricerca ha portato alla definizione di un “modello Quintavalle” per la protezione del patrimonio artistico. Il paradigma comprende “una pratica di tutela partecipata e condivisa, portata a termine grazie all’aiuto fornito al soprintendente dai suoi dipendenti, dai suoi amici e dai colleghi” che evidenziano le sue forti doti di leadership e di organizzazione logistica, che si rivelarono fondamentali; così, come gli espedienti, squisitamente tecnici, utilizzati per il trasporto e l’occultamento delle opere e, ovviamente, la ristrutturazione di questi rifugi, che erano luoghi angusti o sotterranei, ovviamente lontani da occhi indiscreti.”

Gli accordi italiani con i musei stranieri

Il professor Manlio Frigo interviene su alcuni accordi conclusi negli ultimi anni tra l’Italia e istituzioni museali straniere.

Perché il nostro Paese conclude accordi? Per arrivare a che cosa? Normalmente questi nascono in seguito a contenziosi per la richiesta di un certo numero di beni. “La richiesta presuppone l’aver intavolato una trattativa e, come in tutte le trattative, si devono mettere le carte in tavola: quindi, da un lato, il ministero deve mostrare quali prove o indizi ha della provenienza illecita dal nostro paese; dall’altra, l’istituzione interessata dimostrerà, se ci riesce, di avere in qualche modo, in buona fede, comprato questi beni.” 

Sono accordi di natura contrattuale e spesso vengono detti Accordi di cooperazione culturale di lunga durata. Questa cooperazione comporta scambi di beni ma anche di collaborazioni professionali con istituzioni museali di grande rilievo internazionale. E grazie a questi accordi sono tornati a casa opere di inestimabile valore culturale.

Il professore conclude: “Sono strumenti alternativi che non danno implicazioni di tipo diplomatico perché non crea uno scontro fra poteri pubblici degli Stati. Di solito si dà atto della buona fede della controparte, la quale ha il vantaggio di essere vista come parte che ha collaborato e, quindi, alla fine c’è anche una comune affermazione dei principi etici.”

L’Italia depredatrice

Il convegno prosegue con l’intervento del prof. Tullio Scovazzi, sull’Italia come Paese che non è solo vittima ma anche depredatore.

L’Italia è una grande potenza dal punto di vista culturale. In quanto tale “deve essere di esempio agli altri paesi; deve comportarsi correttamente. Il che vuol dire che deve avere una certa coerenza perché gioca su due versanti: in alcuni casi l’Italia è stata depredata ma in altri casi è l’Italia che ha depredato gli altri; quindi, deve riconoscerlo e deve comportarsi onestamente, con la stessa coerenza con la quale rivendica il ritorno dei beni culturali italiani.”

Il primo caso, portato come esempio dell’Italia depredatrice, è quello dell’obelisco di Axum, rubato in epoca fascista e restituito nel 2005 all’Etiopia. 

Uno Stato, che rispetta la propria cultura, deve rispettare anche la cultura degli altri; infatti, l’Italia ha riportato l’obelisco nelle stesse condizioni nelle quali l’aveva trovato e si è fatta carico delle spese per la sua rielezione e questo può forse compensare il ritardo”.

Un altro caso, portato ad esempio, è quello della restituzione alla Libia della Venere di Cirene. Scovazzi, infatti, ricorda: “È un obbligo di diritto internazionale quello della restituzione di beni sottratti ai territori colonizzati.

I diversi casi passati in rassegna dal professore conducono tutti a un punto cruciale: “Se io trattengo un bene culturale saccheggiato nel passato, non faccio che perpetuare oggi una situazione di colonialismo, di sfruttamento, di abuso della forza del vincitore.” 

Obelisco di Axum restituito all’Etiopia

Conclusioni: un’auspicabile apertura del diritto internazionale a una prospettiva sostenibile

Il professore Francesco Francioni, che chiude il seminario, sottolinea l’incongruenza del diritto internazionale in materia di beni culturali: “C’è un paradosso nel diritto internazionale che è quello della detenzione illecita di beni che sono stati illegalmente ottenuti. Questo paradosso è il frutto della frammentazione del diritto e dei conflitti di leggi che ancora esistono riguardo al patrimonio culturale; quindi, lo scopo degli internazionalisti è quello di superare questa frammentazione, anche attraverso un approccio in linea con lo sviluppo sostenibile e nel rispetto dei diritti umani.”

Questo potrebbe essere possibile vedendo il diritto dei beni culturali non più come una branca separata. “Dovrebbe essere studiato come un diritto che in qualche modo è permeato e infiltrato progressivamente da altri settori del diritto internazionale, in particolare il diritto dell’ambiente e i diritti umani. È un invito per noi internazionalisti ad allargare lo sguardo su tutte le implicazioni.”

di Michela D’Albenzio

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