L’eroismo: da Nietzsche alla visione patologica dell’eroe e la degenerazione del coraggio

Due incontri della rassegna Pensare la vita hanno visto esperti confrontarsi sull’eroismo nel pensiero nietzschiano per passare dall’orizzonte mitologico antico alla dimensione psicoanalitica dell’eroe oggi

Un viaggio alla scoperta della concezione dell’eroe e dell’eroismo nella storia. Durante il sesto e il settimo incontro, all’interno della rassegna Pensare la vita, dell’associazione La Ginestra, rispettivamente intitolati Sul tema dell’eroismo in Friedrich Nietzsche e L’eroismo come valore e come patologia, sono intervenuti Giuliano Campioni, uno dei massimi studiosi del pensiero di Friedrich Nietzsche, insieme alla professoressa Donatella Gorreta, come moderatrice, e Simona Argentieri, psicanalista, con la ricercatrice Valentina Petrolini.

“Io sono l’opposto di una natura eroica”: la complessa visione eroica di Nietzsche

Il tema dell’eroismo in Nietzsche non sfocia in una visione semplicemente registrata come eroica o antieroica, ma si presenta piuttosto complessa, tenendo anche presente che ai suoi tempi il mito dell’eroe non era ancora tramontato, anche se già si avvertiva la necessità di un suo superamento con una nuova definizione.

Il professor Campioni cita una frase tratta da Ecce Homo: “Io sono l’opposto di una natura eroica.”

Nietzsche applica il metodo genealogico per dimostrare come si diventa ciò che si è. “Nietzsche caratterizza la propria persona, in quella particolare esposizione di sé, alla fine della sua avventura di pensiero, con tratti fortemente antieroici e anti-fanatici. Del suo libro dichiara: ‘L’ho scritto per distruggere alla radice ogni mito su di me.’ Evidentemente non c’è riuscito perché negli anni stessi della sua follia divenne lo stesso un mito.”

Infatti, il professor Campioni aggiunge che “Nietzsche coglieva i segni dei pericolosi fraintendimenti e mitizzazioni già in questa devozione acritica di alcuni seguaci, che cercavano nuove fedi. È una lettura germanica, idealistica, eroica, addirittura antisemita e anche biologico-darwiniana del superuomo.” In una lettera del 24 marzo del 1887 all’amico, Franz Camille Overbeck, Nietzsche scrive: “Zarathustra, l’uomo divino, è piaciuto agli antisemiti.” 

Diverse volte il filosofo dichiara con disgusto e avversione di non voler aver nulla a che fare con queste letture alterate del suo pensiero. Un altro testo in cui, accanto al genio e al santo, il filosofo “congela il mito dell’eroe” è Umano troppo umano

Una visione che si differenzia per confronto

Nietzsche compara la sua visione di eroismo con quelle di alcuni autori dell’epoca, come Hegel, Carlyle, Gobineau, Wagner, per citarne alcuni, per differenziare la propria posizione

Da giovane Nietzsche è affascinato dagli eroi delle saghe della mitologia nordica e germanica: “Intorno a queste figure di eroi, si unifica la multiforme attività del giovane Nietzsche, che scrive tentativi di composizioni drammatiche, poetiche, anche musicali, di carattere eroico.”

Presto, però, vengono sostenuti da un’analisi critica, storica e filologica: “Fin da giovane sente l’esigenza di frenare questo suo impulso ‘romantico’. Quindi, un atteggiamento filologico, come arte di leggere bene, a cui Nietzsche rimane fedele per tutto il periodo”.

L’eroe hegeliano rappresenta spesso inconsapevolmente e, talvolta, addirittura contro il suo volere, lo spirito del popolo e porta alla luce ciò che nel popolo era una latente possibilità. Questa posizione viene vista da Nietzsche come “una teologia mascherata, uno strumento ideologico che sanziona e sublima l’esistente, scambiando quello che è apparenza con la sostanza”. 

La posizione di Nietzsche, poi, è fortemente critica verso la filosofia di Thomas Carlyle, che nel 1841 diffuse una serie di fortunate conferenze sul culto degli eroi e l’eroico nella storia. Tuttavia, c’è stato chi ha accostato l’eroismo di Carlyle al superomismo di Nietzsche, anche se, in realtà, sono all’opposto. Il suo superuomo è lontano da “una specie superiore, di uomo mezzo santo e mezzo genio”. Quello che Nietzsche respinge è la fede. Questo pensiero idealistico diventa una sorta di culto: l’eroe non è soltanto uno degli strumenti della concretizzazione dell’idea, come era per Hegel, ma è l’origine della storia, tanto che “la storia altro non è che la biografia dei grandi uomini”.

Nietzsche, invece, apprezza molto Emerson perché l’eroismo di Emerson è un eroismo dell’attività: una morale eroica che si fonda sulla concezione della vita basata sull’impegno, sulla serietà: “Emerson sostituisce un atteggiamento affermativo del progresso, confidando nelle risorse umane e nel vigore, nel giovane vigore del continente americano”. Il pensatore americano disegna una visione energetistica: un tema che Nietzsche riprende, ponendo al centro questa volontà dell’uomo.

Sebbene l’Ottocento sia il secolo degli eroi e della loro celebrazione, nella seconda metà qualcosa cambia: l’eroe perde il suo collegamento con il popolo; l’eroe, figura aristocratica, perde il collegamento con la comunità, che diventa massa. Campioni spiega che “la solitudine antisociale del genio e dell’asceta schopenhaueriano esprime il distacco, la distanza dalla comunità. L’eroe è depositario di una verità superiore, che è inaccessibile alla massa.”

Apprezzato il dandy baudelairiano, rifiutati, invece, il “tiranno positivista” di Renan o l’eroe redentore wagneriano, che unisce arte e religione, non c’è dubbio che nel pensiero nietzschiano c’è “una fase eroica ma l’approdo è consapevolmente ostile al mito dell’eroe, visto come espressione di una debolezza romantica e di fanatismo”. La forma di eroismo nietzschiana consiste nel riconoscere che qualunque fede o teologia è illusione: quindi, l’eroe è colui che sa fronteggiare il destino, sa guardare in faccia la realtà senza timore, senza ricorrere a una qualche fede, tanto che ne La gaia scienza scriverà “Dio è morto”. Nell’affinità ideale tra Nietzsche ed Emerson l’eroismo è anche aderire alla forza creativa della vita, spogliandosi di tutte le illusioni di un’epoca.

Dall’orizzonte mitologico antico alla dimensione psicoanalitica dell’eroe

Nel settimo incontro, con la dottoressa Simona Argentieri, l’orizzonte mitologico dell’eroe riappare, anche se all’interno della concettualità intra psicologica e freudiana della psicanalisi.

L’eroe del passato era qualcuno che poneva il coraggio come valore assoluto: il coraggio di per sé, al di là di quale fosse l’utilità della dimostrazione di coraggio e, in questo caso, sfidare la morte era anche un valore in sé. “E per questa tipologia di eroe – ribadisce Argentieri – non abbiamo una grande propensione, una grande nostalgia”. 

Tuttavia, la vivace e dinamica relazione della dottoressa Argentieri introduce, fin dalle prime battute, una premessa: “L’eroismo non è di per sé un termine della psicoanalisi perché tutto quello che riguarda l’eroismo è troppo pesantemente condizionato dal contesto socio culturale e, soprattutto, dalla dimensione storica.” Ciò che diviene oggetto di interesse è l’attitudine eroica dell’individuo, cioè cosa per il singolo possa significare essere e cercare di essere un eroe. Detto in altri termini, per la psicanalisi, “l’eroe è qualcuno che cerca in un modo più o meno riuscito più o meno appassionato di essere più vicino possibile all’immagine di sé, che è quella del cosiddetto ideale dell’io”. L’Ideale dell’io è l’immagine brillante e nobile, il più possibile aderente a un modello che l’individuo si porta dentro e che si è costruito nel corso del tempo, attraverso le relazioni e che nei sogni è rappresentato dagli eroi e dai cavalieri senza macchia.

L’Ideale dell’io: narcisismo, rabbia e scarto con l’Io 

L’Ideale dell’io è anche “l’erede del narcisismo perduto dell’infanzia”, ribadisce Argentieri.

Il narcisismo, che è divenuto pervasivo nella nostra epoca e di cui si parla tantissimo, è un termine che da molti è utilizzato non sempre in maniera appropriata. La dottoressa chiarisce che “il narcisismo non è una patologia e non è neanche una configurazione psicologica definita, è piuttosto un livello dello sviluppo. È una fase iniziale in cui tutta la tensione è autoreferente e non c’è ancora chiara la distinzione fra sé e l’altro. È pur vero che qualche volta questo atteggiamento originario arcaico infantile si organizza e prende la leadership dell’intera personalità, diventando anche una specifica sindrome psicopatologica”.

La nostra è una cultura abbastanza impoverita di emozioni, in cui la rabbia è dominante, e si ribadisce: “La rabbia è proprio l’emozione tipica dell’umiliazione narcisistica e le umiliazioni narcisistiche sono quelle più difficili da tollerare e da perdonare.” Nella sua estrema degenerazione “soltanto la morte può riscattare da un bisogno di dimostrare la propria superiorità su colui che ti ha messo di fronte alla vergogna, che, se diventa pubblica, deve essere assolutamente lavata; in questo senso, se restiamo su un piano cinematografico, non è un caso il continuo successo di un certo filone di giustizieri”.

Esiste uno scarto tra l’Io e l’Ideale dell’io. “Se lo scarto è troppo basso, cioè se l’Io coincide troppo con l’Ideale dell’io, per così dire, stiamo seduti, rilassati, tranquilli e non chiediamo più niente a noi stessi per migliorarci, determinando un collasso dello sviluppo della personalità e delle aspirazioni”. Nondimeno, se questo scarto è troppo alto, subentra la patologia: “Se ciò che sono è troppo lontano – specifica Argentieri – troppo diverso, troppo remoto rispetto a quello che sarebbe il mio modello ideale, è una sofferenza altissima. Non solo è un’altissima sofferenza, e questo già è male, ma è una sofferenza inutile perché, se è irraggiungibile ciò che io vorrei o pretenderei di essere, questo è un dispendio energetico che non produce cambiamento”. Al riguardo, la dottoressa aggiunge: “Sempre più di frequente mi imbatto in persone che patiscono questa pena, cioè di non corrispondere a questo ideale di sé, che sicuramente si costruisce nel rapporto con gli ambienti, con i genitori, con la cultura del momento però, molto spesso, è qualche cosa che è veramente legato a una propria aspirazione”.

“Narciso” di Caravaggio, dipinto conservato nella Galleria Nazionale d’Arte Antica 
a Palazzo Barberini di Roma

“Gli aspetti paradossali e inquietanti dell’eroismo”

Nella discussione emerge l’attenzione ad aspetti irragionevoli e anche allarmanti dell’eroismo. Si passano in rassegna diverse casistiche.

In prima battuta su questo argomento si affronta il coraggio falso del bullo, chiaramente patologico: “In psicanalisi si parla dell’identificazione con l’aggressore, cioè a dire che più sei spaventato, più sei impaurito dall’idea che qualcuno ti possa aggradire, più cerchi disperatamente di metterti dall’altra parte della barricata, diventando tu l’aggressore; infatti, molto spesso coloro che esercitano il bullismo sono persone estremamente fragili, che cercano i più deboli, i più fragili da martirizzare”.

Un’altra forma di degenerazione del coraggio è un certo tipo di terrorista. Dice Argentieri: “Che cosa c’è di più coraggioso di qualcuno che, non sfida la morte, ma è sicuro che andrà a morire?”.

Non si può ignorare una tendenza degli adolescenti a sfidare tutta una serie di pericoli attraverso modalità estremamente rischiose per la propria vita, solo per vedere fino a che punto si resista alla paura. 

Se si vogliono citare espressioni deviate di eroismo nel passato, non si possono dimenticare i kamikaze o il seppuku o l’harakiri giapponesi e tutti i vari suicidi rituali, “nei quali il coraggio si esprimeva con una sorta di macabro estetismo per celebrare la nobiltà della sconfitta perché l’eroe puro non poteva tollerare di essere sconfitto.”

“Gli eroi per delega” e “il rifiuto di fare fatica”

La dottoressa Argentieri ha un’antica passione per il cinema e con simpatia si definisce “spettatrice professionista”. La cinematografia e gli eroi in essa proposti si collegano al discorso della megalomania che viviamo in una certa fase del nostro sviluppo, dall’infanzia all’adolescenza, e che, se superata, si manifesta solo in alcune innocue passioni, come appunto la passione per alcuni supereroi di fantasia: “Ciascuno ha il suo Batman, Superman, 007. Sono dei modi nei quali noi possiamo per delega continuare a godere della soddisfazione di vedere un eroe, che è invincibile, immortale sempre dalla parte del giusto ed è una cosa anche tutto sommato carina. Non è soltanto dei maschi: anche le femmine cominciano ad avere la passione per i supereroi e le supereroine perché anche le ragazze si sono stufate di essere soltanto delle principesse da salvare; vogliono essere un po’ più attive”.

All’interno di questo aspetto però si inserisce anche una dimensione dell’Ideale dell’io, che tra i giovani di oggi, come dice la dottoressa, “ha una deriva un pochino inquietante”. Si tratta dello scontro tra sogni e realtà e della difficoltà, tipica della nostra cultura, di fare fatica per raggiungere lo scopo: “Nella realtà, se tu vuoi essere nobile, superiore, stimato, apprezzato devi mostrare qualche risorsa, qualche qualità in cui entrano in gioco le forze dell’Io, cioè la fatica, l’impegno lo sforzo per adeguare ciò che tu vorresti essere a quello che in realtà sei.” Non basta più sguainare una spada per diventare eroe. La dimensione del gioco non è adeguata. Necessariamente, occorre sfidarsi e impegnarsi per arrivare a un obiettivo.

Un altro tema, che entra moltissimo con la questione dell’Ideale dell’io per delega, è quello che Freud aveva già ben messo a fuoco in Psicologia delle masse e analisi dell’io, ossia che l’individuo sceglie un leader con cui si identifica e con cui può godere la sensazione della superiorità e della gloria. Chiarisce la dottoressa: “L’esempio più facile è Hitler. L’adorazione delle masse, che avevano per delega il leader, comportava la possibilità di immaginare qualcuno assolutamente superiore ma, e questa è la parte più delicata, avevano anche in questo modo la possibilità di deresponsabilizzarsi della colpa e delle inibizioni rispetto all’aggressività perché, se tu agisci per un’ideale superiore di un leader delegato, non hai più remore nel momento in cui distruggi o uccidi; perché lo fai in nome di un’ideale superiore. Questo è il motivo per cui credo che determinati ideali eroici siano particolarmente pericolosi”.

di Michela D’Albenzio

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