La scena secondo Morgoyce

Morgan chiude la rassegna Mangiamusica al Magnani di Fidenza. Tra tempi morti e parole vive, dentro il flusso di coscienza di un pirata umanista.

Foto di Matteo Gibellini

Il James Joyce brianzolo o semplicemente Morgan? Per il suo dominare la scena con le parole, con il corpo e la testa, ma soprattutto con il cuore, sommando i pensieri che diventano un vero e proprio flusso di coscienza, bisognerebbe battezzarlo con il nome di Morgoyce. Sì, perché se al Teatro della Scala andava in scena il Macbeth di Verdi, al Teatro Magnani di Fidenza, sorto tra l’altro nell’anno di nascita dello stesso compositore, un pirata umanista e giocoliere delle parole cattura gli sguardi incuriositi di una massa venuta per immergersi nei suoi imprevisti. Un uomo creativo che costruisce, analizza, smonta, rimonta, taglia e cuce parole e accordi, rendendo ogni suo gesto, anche quello più comune e umano, un atto di scena. Riesce a costruire intorno una narrazione tutta sua, come un semplice e umile artigiano. Il Magnani diventa la sua bottega. Ma visto che la rassegna porta il nome di Mangiamusica, si direbbe che quella, in un certo senso, possa essere la sua cucina, dove raccoglie e assembla gli ingredienti per servire una platea affamata di bellezza e di verità, nonché profonda conoscitrice di Boy George, performer e cantante new romantic/post-punk anni 80’ nonché icona gay, e menefreghista della mediocrità del gran galà milanese. Niente male come livello e la conferma viene dall’attenzione silenziosa catalizzata dall’intera messinscena, fatta degli eccessi creativi di un anarchico.

L’antipasto

Lo chef Dimitri Harding (sulla sinistra) e il direttore artistico di Mangiamusica Gianluigi Negri (sulla destra)

Ma per assaporare le emozioni contrastanti di quella serata dal gusto quasi natalizio e con il profumo della neve alle porte della città, bisogna andare a ritroso, partendo dall’antipasto con l’uovo alla benedettina dello chef Dimitri Harding. Un’apertura, se così possiamo definirla, pirandelliana al rovescio. Il teatro come il guscio di un uovo pronto ad assorbire le idee, i gesti che assumono una loro connotazione e diventano essenziali, senza mai consumarsi. E dopo il brunch, arriva il momento che tutti aspettavano, ovvero la portata principale. L’attesa è ben accompagnata dalle previsioni su quanto l’artista ci impiegherà ad arrivare o meno, a seguito dell’annuncio del direttore artistico Gianluigi Negri sul suo possibile ritardo. È alle prese con lo scioglimento delle briglie che lo tengono imprigionato in quel di Roma, nel contenitore tv che ha cercato nel corso degli anni di cambiare, con il suo tentativo di riportarlo ai fasti dei tempi d’oro. Una sua illusione, visto che sono lontani i tempi dei Celentano, Mina, Dalla e tanti altri appartenenti al gotha della musica italiana. In fondo, però, il segno lo lascia e il suo estro creativo diventa linfa soprattutto per gli assidui frequentatori di teatri, arene, piazze e strade.

Contro ogni previsione, mentre il pubblico è distratto, immerso nel chiacchiericcio generale, nel giro di pochi minuti si materializza una figura: capelli corti e biondi, elegante dall’aria un po’ classica e rock. Uno direbbe di fronte a tale visione che Lou Reed è risorto. Invece no, colpo di scena è lui, Marco Castoldi in arte Morgan, un uomo provato da una lunga Odissea ma pronto a spendersi per una buona causa: la Musica. Di lì a poco avverrà la trasformazione in Morgoyce e fluiranno invettive, idee e parole che vivono e si trasformano come il colore dei suoi capelli.

Tempi morti e flussi di parole

Chi lo conosce sa che la scaletta non è nei suoi piani: stravolge tutto, improvvisa e modella in base al luogo, all’atmosfera e a chi e a che cosa si trova di fronte. Nel mezzo delle colate d’oro di un tardo-neoclassicismo, l’artista e paroliere trasforma quell’atmosfera di attesa quasi sognante in un tempo morto da riempire. I famosi tempi morti a teatro sono forse la parte più bella che porta un attore, un musicista, un’artista a mettersi in gioco ed è lì che emerge, forse, la sua vera essenza. Quella di Morgan affiora nelle sue azioni, che diventano arredo della scena: dallo scartare il regalo all’annusare una rosa, dall’incuriosirsi delle tube e dei sassofoni di scena allo strimpellare un ukulele, come un falegname che prepara e prova gli attrezzi per costruire l’opera.

Quello è un teatro e su quel palco l’attore lavora con la voce. Il cantautore, quindi, percepisce l’esigenza di trovare un equilibrio e dare eguale peso sia alla musica sia alle parole. Non può troncare le sue parole in un luogo dove, ai tempi della duchessa Maria Luigia, si formava il dibattito e dunque l’opinione pubblica.

Un pirata ma anche un umanista: se va contro a qualcosa lo fa per una causa umana, spaziando da tematiche strazianti legate al crudo neorealismo di Fabrizio De André all’ironia delle sue provocazioni contro l’uso dei mezzi moderni nella nostra società. Nasce Morgoyce che, come una turbina, fa scorrere flussi di parole e note tra i balconcini del teatro, che risplende ogni volta che viene abitato, come un vero e proprio laboratorio creativo.

Morgoyce compone e scompone canzoni, le congiunge con i ‘che’ e i ‘come’, con i ‘se’ e i ‘meno’ e si augura di vivere in un mondo utopico, dove tutti sappiano come scrivere delle canzoni per renderlo più bello. Riesce a parlare di violenza e di sentimenti d’amore dove risiede una verità nascosta che ci svela lentamente.  

Si interrompe e decide di parlare più piano, come canterebbe Johnny Dorelli, ma rincara la dose: lascia uscire un continuo flusso. Da lui non si sa cosa aspettarsi, è tutto un imprevisto, forse studiato o forse no. L’unica cosa certa è che non solo con lui le note prendono vita, anche le parole iniziano ad avere un peso vitale.

Il flusso continua tra i repertori di John Lennon, Boy George, David Bowie fino all’omaggio alla terra che lo ospita con ‘Romagna mia’ dei Casadei. Un artista critico, ma anche gentile, celebrativo, dissonante, esuberante e disarmante.  Cambi di registro come un ciclo continuo tra vita e morte, un vortice di sentimenti contrastanti ma con il prevalere di una vera e propria apologia della bellezza che l’arte genera.

Controcorrente

Tra una sonata e l’altra, tra un tempo morto e l’altro, il pirata umanista entra con i suoi monologhi, rende viva la sua parola e i suoi movimenti un po’ goffi alla Charlie Chaplin. Non manca l’uso della vis polemica alla Carmelo Bene, uno dei più grandi drammaturghi della neoavanguardia teatrale italiana, e l’intensità di un romantico. Morgoyce è un disadattato, in senso buono, che mette i bastoni tra le ruote a giornalisti e criminologi, a giudici dei talent e colleghi altolocati, ai critici e un po’ a sé stesso, rilanciando l’invito di leggersi ‘Alla ricerca del tempo perduto’ di Proust e discutere su Instagram della tesi di Heidegger, che confuta in senso logico la metafisica di Kant e non limitarsi ai cuoricini e ogni altra inutile emoticon. Si fa ‘psicanalinstagrammare’, come direbbe lui, scoprendo solo oggi in quale mare navigano i social.

Tra attualità e passato, riesce a cantarne a tutti e dire la sua, senza un punto, senza una virgola, tra un bicchiere di sidro – come dichiara lui – e una sigaretta rubata, in quanto quest’ultimo oggetto di scena. Un animale da palcoscenico che sente l’esigenza di occupare tutta la scena e scomparire dietro il sipario, di prendere un leggio e rievocare quei tempi perduti della musica elettronica che aveva già esplorato tutte le possibili dinamiche, dai sintetizzatori alle drum machine, quando scienziati e pensatori esistevano già. Ora, resta solo la dittatura di Internet, che propone un cambiamento dall’alto, un interscambio forzato, “privando l’uomo della sua scrivania, che è come privare un aeroporto della propria pista di atterraggio”. Morgoyce come un artigiano della musica e delle parole si scaglia contro il modo di concepire il progresso tecnologico basato sulle violente regole di mercato e sull’impossibilità di usare la propria creatività, veicolata dal sistema. Fantascienza o realtà? Resta la certezza di un tempo sospeso e delle ultime note da suonare tra qualche suo celebre pezzo come ‘Altrove’ e ‘Cieli neri’ e una canzone fatta di sofferenza per un amore non corrisposto, come “Lontano Lontano” di Luigi Tenco. Dopo aver demonizzato il progresso tecnologico, nelle vesti di un pirata che va controcorrente, si siede al pianoforte e come un vero umanista si mette a nudo e suscita commozione.

Morgoyce, un personaggio nato dalla fusione tra James Joyce e il corsaro Henry Morgan, concepisce la scena in un modo tutto suo, con uno stile che appartiene solo a quei pochi dotati di vero talento e di estremo altruismo. A dispetto di tutti quelli che lo considerano un cattivo modello e che gli farebbero indossare una camicia di forza pur di tenerlo a bada, omaggia gli altri artisti e non si limita al suo repertorio. Il meno narcisista della maggior parte dei cantanti che seguono una scaletta composta solo dalle proprie canzoni.

Standing ovation per il pirata umanista, che fa l’inchino e ironicamente fa un cenno di saluto come se salutasse la regina, pronto a salpare per andare altrove e perdersi nel mondo, lasciandosi trasportare dalle parole e dalla Musica.

di Matteo Gibellini

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