Allarme mascherine: se disperse sono un pericolo enorme per l’ambiente

Le mascherine ci proteggono quotidianamente dal Covid, ma rappresentano una nuova minaccia ecologica e stanno invadendo i mari e l’ambiente

Basta percorrere pochi metri per imbattersi – anche a Parma – in un’enorme quantità di mascherine. Chirurgiche, ffp2, bianche o colorate le troviamo in ogni angolo della città gettate per strada. Il fatto che queste impieghino 450 anni per decomporsi e che siano potenzialmente infette rende ancora più ingiustificabile il comportamento di molti cittadini.

Da ormai due anni, le mascherine sono diventate per tutti la normalità e se da un lato ci consentono di limitare la possibilità di contagio, dall’altro lato rappresentano un rischio per l’ambiente soprattutto quando non vengono smaltite in modo corretto.

Di che cifre parliamo?

Secondo uno studio del National Geographic a livello globale vengono utilizzati 65 miliardi di guanti ogni mese. Il numero delle mascherine è quasi il doppio: 129 miliardi al mese. Questo significa che ogni minuto vengono utilizzate 3 milioni di mascherine. Si stima che in Asia vengano buttate 1,8 miliardi di mascherine al giorno, la quantità più alta tra i continenti.

La Cina, con la più elevata popolazione mondiale (a fine 2020 circa 1,4 miliardi di persone secondo il settimo censimento decennale condotto dal governo di Pechino), getta via quasi 702 milioni di mascherine al giorno. Un articolo pubblicato da Open afferma che circa il 46% dei rifiuti è prodotto in Asia, al secondo posto c’è l’Europa con il 24% e poi il Nord e il Sud America con il 22%.

Si tratta di dispositivi usa e getta che vengono quindi, generalmente, usati una sola volta e poi buttati via. Il problema è che mascherine, guanti e salviette sono realizzati con molteplici fibre di plastica – come il polipropilene – che rimangono nell’ambiente per decenni, se non per secoli.

Che fine fanno le mascherine? Lo studio dell’Università Bicocca

Le mascherine finiscono tra i rifiuti e, essendo costituite da plastica composita e potenzialmente infette, non possono essere avviate al recupero e riciclo. Vengono considerate un rifiuto indifferenziato destinato, quindi, a impianti di incenerimento o alla discarica.

Il problema dell’inquinamento provocato dalle mascherine è legato a due aspetti principali: il grande incremento di produzione di questi dispositivi e il fatto che, essendo usate, le mascherine non possono essere riciclate. Per di più, nessuno vuole correre il rischio di raccoglierle da dove si trovano. Secondo l’ONU si può prevedere che circa il 75% delle mascherine utilizzate finirà disperso nell’ambiente o nel mare.

Un nuovo studio condotto dall’Università Bicocca di Milano, pubblicato dalla rivista Environmental Advances, ha dimostrato che una singola mascherina gettata irresponsabilmente può rilasciare in mare 173.000 microfibre al giorno.

Sostanzialmente le mascherine e i guanti abbandonati vengono trasportati dai venti e finiscono in fiumi e torrenti che li portano in mare. Il lavoro sperimentale è stato condotto sottoponendo mascherine usa e getta disponibili commercialmente ad esperimenti di invecchiamento artificiale, designati per simulare ciò che avviene nell’ambiente, quando una mascherina abbandonata inizia a degradarsi a causa dell’esposizione agli agenti atmosferici e, in particolare, alla radiazione solare.

Un processo che può durare diverse settimane prima che il materiale giunga al mare, dove è poi sottoposto a stress meccanici prolungati indotti dal moto ondoso. È qui che avviene il maggior rilascio di microfibre.

L’impegno delle Onlus, il caso Opération Mer Propre

In Europa, i primi ad aver constatato dei segnali di inquinamento sono stati i sommozzatori di Opération Mer Propre. Si tratta di un’associazione senza scopro di lucro, formata da apneisti e subacquei volontari che cercano di ripulire il mare dalla plastica. L’iniziativa nasce dall’impegno di Laurent Lombard e Pascal Calmes.

Basta scorrere la loro pagina Facebook per capire la quantità di rifiuti che si ritrova nei fondali: pneumatici, lattine, occhiali da sole, giochi per bambini e, naturalmente, mascherine. I DPI (Dispositivi Protezione Individuale) sono estremamente pericolosi per la fauna: i guanti, ad esempio, possono essere scambiati per meduse dai delfini o dalle tartarughe marine che, se li ingeriscono, rischiano una condanna a morte certa. Gli animali rischiano anche di impigliarsi negli elastici delle maschere ed essere così ostacolati nei movimenti, con conseguenze che vanno dall’impossibilità di nutrirsi al soffocamento.

Come dovremmo comportarci?

Secondo il National Geographic mascherine, guanti e salviette non dovrebbero finire nella raccolta differenziata domestica. I DPI utilizzati nelle strutture sanitarie, infatti, vengono smaltiti come rifiuti pericolosi. In particolar modo, le mascherine sono composte da tre elementi: la parte che protegge il naso e la bocca (in polipropilene), gli elastici e la barretta metallica da stringere sul naso. Questo rappresenta la prima difficoltà, poiché i tre differenti materiali non possono essere riciclati nello stesso momento.

Considerata l’assenza di alternative, per limitare i danni dovremmo gettarli nella raccolta differenziata, cercando di isolarli in sacchetti ben chiusi. Sarebbe una buona regola evitare l’utilizzo di prodotti monouso, smaltire correttamente le mascherine e gli altri dispositivi.

Alcune possibili soluzioni

Il riciclo delle mascherine è logisticamente complicato, costoso e pochi vi si cimentano. Non mancano però dei casi isolati di aziende che cercano di percorrere questa strada, come la start-up francese Plaxtil.

Plaxtil lavora sul riciclo delle mascherine che vengono raccolte e lasciate in quarantena per quattro giorni. Dopo l’eliminazione del ferretto per la chiusura nasale, vengono frantumate in una macchina speciale e sterilizzate, facendole passare in un tunnel a raggi UV. Il prodotto entra successivamente nel ciclo di lavorazione della plastica e, attraverso questo sistema, vengono prodotti oggetti anti-Covid (visiere protettive oppure piccole pinze che servono a maneggiare le maniglie senza toccarle).

Alcuni studiosi hanno ipotizzato anche la creazione di mascherine realizzate con materiali biodegradabili come canapa o bambù, ma per adesso questa soluzione è ancora una prova.

Progetto Plaxtil

La parola agli esperti

Ne abbiamo discusso con il prof. Antonio Bodini, docente di Valutazione di impatto e valutazione ambientale strategica all’Università di Parma, cercando di capire la reale portata di quest’ emergenza ambientale.

“Le normali procedure attraverso cui faticosamente si arriva ad un riciclo dei materiali non si adattano alle situazioni di emergenza, in virtù della necessità di smaltire velocemente e delle elevate quantità da incenerire. In realtà si fa già fatica a riciclare i materiali ‘normali’ perché i livelli di educazione sono estremamente bassi”, rivela il docente.

“Quando noi ragioniamo in termini possibilistici sulle cose che possiamo fare, prosegue il prof. Bodini, ci lasciamo trascinare un po’ dalle belle idee che possono venirci in mente, ma non riusciamo a contestualizzarle in una realtà che è di difficile gestione. La riduzione dell’impatto ambientale è auspicabile, ma ci vuole un impegno finanziario e logistico molto più esigente rispetto a quello che riusciamo a mettere in campo”.

Sarebbe importante, quindi, riuscire ad investire sulla scoperta di nuovi metodi di trattamento per affrontare un fenomeno di tale portata ricercando dei mezzi che attualmente non sono a nostra disposizione.

Secondo il prof. Bodini un primo passo sarebbe riconoscere il problema: “Quello che ci lascia in eredità il Covid non sono solo i problemi legati alle strutture sanitarie, all’organizzazione della sanità e ovviamente all’impatto umano che la pandemia ha generato, ma ci sono tutti questi problemi di natura logistica su cui non si riflette mai abbastanza”.

Come singoli cittadini dovremmo cercare, quanto meno, di differenziare correttamente i rifiuti, non disperdere le mascherine nell’ambiente e sfruttare alcuni ‘trucchetti’ come tagliare le mascherine per limitare i danni alla fauna.

Sarebbe importante responsabilizzare anche i cittadini sul tema del rispetto dell’ambiente, una sensibilizzazione che per il prof. Bodini è mancata totalmente. “In questo modello comunicativo che abbiamo utilizzato in questi due anni di pandemia è mancato decisamente uno sforzo dal punto di vista della comunicazione dei comportamenti corretti. Questo non c’è stato anche, e soprattutto, in relazione ai possibili impatti ambientali. Smaltire correttamente le mascherine, anche semplicemente gettarle nel cestino dell’indifferenziata che abbiamo in casa è un passo avanti rispetto a lasciare le mascherine in giro o buttarle dove capita. Non si è mai parlato dell’educazione associata ad un corretto comportamento rispetto all’utilizzo delle mascherine e al loro smaltimento. Un’educazione ambientale parallela all’emergenza sanitaria”.

Come sottolinea il prof. Bodini “il grande può essere pensato solo se si risolve il piccolo“. Ecco perché risulta fondamentale prestare molta più attenzione allo smaltimento delle mascherine, e in generale dei rifiuti, per limitare quello che si prospetta come un vero e proprio disastro ambientale.

di Laura Ruggiero

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