La birra italiana esiste?

Da dove provengono gli ingredienti della birra? Possiamo realmente considerarla italiana o è solo una bevanda straniera che ha poco a vedere con la nostra cultura?

La birra italiana esiste

Definire una birra del tutto italiana è un compito difficile e complicato. È una bevanda che nel nostro Paese non ha avuto una vita facile: in suolo italico la sua diffusione è sempre stata ostacolata dal suo cuginetto vino, bevanda preferita dagli antichi romani e dalle forti connotazioni religiose. Perfino il regime fascista sull’onda dell’autarchia cercò in tutti i modi di mettere i vitigni tra le ruote alla nota bevanda di cereali e luppolo, ormai la più diffusa e consumata in tutto il mondo. 

Ma oggi, con un ritardo di 5000 anni, è riuscita ad affermarsi anche in Italia: l’aumento esponenziale del numero di birrifici artigianali ha portato a un’offerta variegata su tutto il territorio, e la sua produzione ha toccato i vertici assoluti prima che la pandemia colpisse duramente il settore. Non si accompagna più solo con la pizza, ma si gusta in tutto il suo splendore così com’è, attribuendogli il giusto ruolo di protagonista.

Gli italiani, quando si tratta di cibo e di buon gusto, sono i primi a sfoggiare il loro patriottismo “Culatello e Donatello”, facendo della gastronomia non solo un bisogno funzionale, ma un vero vanto artistico. Con una certa ossessione, si cerca sempre di circoscrivere a un determinato territorio una specialità gastronomica, e guai se qualcuno osa mettere dell’ananas sulla pizza.

Ma la birra italiana esiste da un punto di vista del territorio? Le materie prime che ci ritroviamo nel bicchiere al nostro pub preferito arrivano dal campo del nostro amico contadino o arrivano dalle nefaste aree di Chernobyl? Facciamo chiarezza.

Birra e territorio

Alcuni affermano che la territorialità in birreria non esista, e che questa “mancanza” sia anche l’ingrediente di successo che l’abbia portata a essere la bevanda più consumata al mondo. Ma è davvero così?
La birra è composta da quattro ingredienti: acqua, malto, luppolo e lievito. E sono tutti estremamente importanti e correlati al proprio ambiente pedoclimatico, quell’insieme di fattori naturali, chimici e fisici, che integrandosi identificano le caratteristiche uniche del territorio di appartenenza.
Ma essendo così giovane la cultura birraria in Italia, è difficile che si sia sviluppato un sistema di filiera che risponda ai canoni di qualità per soddisfare il consumatore.
Basti pensare che quasi i 2/3 del malto e del luppolo vengono importati per soddisfare la produzione brassicola, facendoci dipendere fortemente da variazioni di prezzo del mercato. Il vero problema è che non esistono ancora grandi incentivi e un supporto dalle istituzioni, e così manca la fiducia necessaria tra birrai e agricoltori per stabilire dei rapporti. 

Per questo motivo la maggior parte dei birrifici italiani preferisce affidarsi a forniture estere, che garantiscano standard di qualità e rintracciabilità.

Eppur (qualcosa) si muove…

Ho dato la parola a chi le mani in pasta, o meglio, nel mosto, le mette tutti i giorni. Petros Ketsios, birraio della “Gilda dei Nani Birrai” di Pisa ci racconta: “Sta cominciando a muoversi qualcosa. Sono sempre di più i birrifici che stanno comprando la materia prima sul territorio italiano. Molti acquistano i luppoli da Italian Hops Company e si può trovare malto italiano da realtà come Italmalt. Esistono i birrifici agricoli, che hanno dei benefici fiscali nell’utilizzare almeno il 51% della materia prima prodotta in proprio. Il punto è che la maggior parte sono di piccole dimensioni. Producono quantità molto basse e non è detto che siano loro stessi a maltare; è un’attività molto difficile e i macchinari necessari sono molto costosi. La maggior parte di chi ha il proprio campo d’orzo preferisce spedire e far maltare all’estero.”

La maltazione non è cosa semplice

Per cercare di risolvere problematiche di natura tecnica ed economica, è nato il COBI, Consorzio Italiano Produttori dell’Orzo e della Birra, che ha realizzato una malteria comune alla quale i soci possono conferire il proprio orzo e ritirare il malto necessario.

Nell’Astigiano invece, il 13 febbraio 2017 è stata avviata l’attività di Malteria Monferrato, cui la collaborazione tra i coltivatori diretti di Asti e del Consorzio Nord Ovest, ha consolidato il rapporto tra 15 aziende agricole locali coinvolte nel progetto “orzo di qualità”.

Il problema è che essendo malterie in comune, quello che entra è di un singolo birrificio, quello che esce no. In parole povere, viene fatto un mischione e il cereale che viene maltato non si sa da che campo provenga, se dal proprio o da quello del vicino.

In Italia ci sono anche due grandi malterie, la Agroalimentare Sud S.p.A. nella località S. Nicola a Melfi (PZ) e la malteria Saplo S.p.A. a Pomezia, ma lavorano su grosse quantità e destinano la loro produzione principalmente ai colossi dell’industria birraria, con la quale hanno dei contratti specifici tra loro e gli agricoltori. Infatti, nelle aree circostanti la coltivazione di orzo è fiorente, poi utilizzato nella maltazione.

Alla riscoperta del luppolo italiano

Recentemente si è concluso il Beer&Food Attraction a Rimini Fiera, uno degli appuntamenti più importanti lungo lo stivale del panorama brassicolo. Lì, ho potuto partecipare a un panel test di luppoli autoctoni italiani, presentati dai ragazzi di Italian Hops Company, una delle prime aziende in Italia a coltivare e commercializzare luppolo. Oltre cultivar americane, inglesi e tedesche, si coltivano varietà tutte italiane, recuperate da un progetto in collaborazione con l’Università degli studi di Parma e il Comune di Marano sul Panaro, in provincia di Modena. In queste zone, documenti storici tra XVII e XIX secolo, attestano la coltivazione di luppolo a cura della famiglia Montecuccoli, detentori di quelle terre già dal 1630, la cui forte influenza e passione per la cultura nordica permise di implementare una coltivazione di luppolo, poi finita in disuso.

Le piantagioni di luppolo in Italia sono una realtà nuova, e non c’è un supporto della filiera. Per i loro luppoli pallettizzati, infatti, preferiscono affidarsi a realtà estere già organizzate per ottenere la miglior qualità possibile, cosa che non sarebbe attualmente possibile in Italia.

Anima del territorio

 E per quanto riguarda l’acqua, ha influenze sul territorio?

“I birrifici tendono a insediarsi dove c’è una buona acqua di partenza. Alcuni si stabiliscono in determinate aree geografiche perché vogliono esprimere il territorio o per fare un determinato stile di birra, ad esempio noi della Gilda dei Nani Birrai, abbiamo scelto di collocare il birrificio nell’area di Pisa per esprimere la storia della città attraverso le nostre birre. Altri scelgono di collocarsi dove trovano la migliore qualità di acqua possibile, indipendentemente dalla zona. E’ questione di filosofia. L’acqua oggi rimane comunque la più grande caratteristica italiana che si ritrova nel bicchiere. Sarebbe possibile anche modificare la propria acqua, osmotizzandola o micro filtrandola, per ottenere determinate concentrazioni di sali per fare determinati stili birrai.” Aggiunge il birraio Petros Ketsios.

Ma quale ceppo?

Per quanto riguarda il lievito invece il discorso cambia. Ci si affida all’azione di ceppi specifici per ottenere la fermentazione del mosto, e si acquistano da aziende specializzate provenienti principalmente da Francia, Belgio, Olanda, Germania e Inghilterra. Molte imprese arrivano dal campo enologico e hanno diversificato la loro attività vedendo nella birra un’opportunità.

“Tutti i birrifici in Italia comprano i lieviti dagli stessi fornitori, non c’è molta variabilità. Se vuoi ottenere un effetto specifico utilizzi un ceppo specifico, anche a seconda dello stile birrario che andrai a fare. Poi entra in gioco l’infinito mix tra tutti i vari ingredienti.  Oggi le fermentazioni sono più standardizzate, un tempo erano più empiriche. Poi non dobbiamo dimenticare il bellissimo mondo dei Lambic, frutto di fermentazioni spontanee”. Conclude Petros Ketsios.

Nonostante la forte dipendenza dell’approvvigionamento di materie prime dai paesi esteri, ci sono tutte le buone intenzioni per virare verso una filiera di casa, ma gli ostacoli burocratici ed economici del nostro Paese sembrano ancora una volta, come nell’antica Roma, ostacolare la completa ascesa della bevanda. Ora, una pinta alla volta, non ci resta che aspettare e vedere che birra ci riserverà il futuro.

di Matteo Coloru

1 Commento su La birra italiana esiste?

  1. Ottimo articolo, molto interessante ed esaustivo, complimenti!!

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