Donne, politica e istituzioni: una storia recente che ha ancora molti passi da compiere

Il problema della rappresentanza femminile nelle istituzioni italiane è una realtà ancora attuale, ce ne parla la professoressa di Diritto delle pari opportunità Veronica Valenti

Giovedì 7 aprile si è tenuto il quinto appuntamento della quarta edizione dei seminari “Donne e Diritti: prospettive tra diritto, storia, politica e società”. L’iniziativa webinar promossa e iniziata dall’Università di Parma nel mese di marzo, per raccontare le donne e sensibilizzare gli studenti, affronta il tema del titolo da più ambiti – storico, politico e sociologico- con una particolare attenzione ai temi dell’emancipazione femminile, delle pari opportunità e della violenza di genere. Gli incontri sono oganizzati e coordinati da Fausto Pagnotta, docente di Sociologia della comunicazione e dei nuovi media all’Università di Parma.

Per parlare di donne e politica è intervenuta Veronica Valenti, docente di Diritto delle pari opportunità all’Università di Parma e vice presidente del Comitato Unico di garanzia per le pari opportunità del nostro Ateneo, che ha ripercorso le tappe più importanti della storia di partecipazione politica e rappresentanza nelle istituzioni delle donne nella storia italiana.

Una storia recente di presenze mai scontate

La storia della partecipazione femminile alla dimensione istituzionale italiana inizia “solo” nel 1946, quando per la prima volta alle donne viene data la possibilità di votare e scrivere un patto costituzionale, entrando finalmente a far parte del contratto sociale nazionale dal quale fino ad allora erano rimaste escluse. La  nostra è dunque una storia di parità e diritti ancora molto giovane e “inesperta”, che in questo lasso di tempo è stata ricca di ostacoli e cambiamenti repentini.

Infatti, se fin dal disegno costituzionale entrato in vigore nel ’48 il secondo comma dell’Articolo 3 obbligava la Repubblica ad affrontare le diseguaglianze dal punto di vista sostanziale, riconoscendo di fatto le ingiustizie della società e obbligandolo ad un atteggiamento proattivo, questo non si è avverato se non con il tempo e le battaglie delle stesse donne. Fino al 1960 le donne non potevano, ad esempio, ancora partecipare a concorsi pubblici, o svolgere il  ruolo di magistrato; si è ottenuto un cambiamento solo grazie alla lunga battaglia processuale portata avanti dall’allora venticinquenne Rosa Oliva, laureata in Scienze Politiche, che vinse il ricorso presso la Corte Costituzionale dopo il rifiuto, in quanto donna, del Ministero dell’interno di ammetterla al concorso per la carriera prefettizia.

La “rimozione degli ostacoli” citata dall’articolo, dovrebbe servire come riconoscimento perché le donne abbiano la possibilità di scegliere come svolgere le proprie esistenze libere da stereotipi di genere, familiari, sociali, economici, ma di fatto in Italia settant’anni dopo, questa prospettiva sembra avere dell’utopia. Questo quadro giuridico costituzionale molto chiaro è stato preso sul serio soltanto alla fine degli anni ’90, quando la Corte Costituzionale inizia a sviluppare “azioni positive” per “colmare un evidente squilibrio a favore delle donne che, a causa di comportanti che si sono accumulati nel corso della storia passata per il dominio di comportamenti sociali e culturali, ha portato a favorire le persone di sesso maschile nell’occupazione di posizioni di potere”

Oltre a porre un rimedio ai torti della storia, queste azioni sarebbero da sempre mirate non solo a promuovere le pari opportunità in senso soggettivo, ma ad arricchire di sensibilità, di professionalità e idee diverse il discorso democratico, che voglia dichiararsi pluralistico, e da cui ambo le parti potrebbero trarre beneficio.

Punteggio medio europeo del 2021, fonte EIGE (European Institute for Gender Equality)

Una prospettiva europea e il gender mainstreaming

Ogni anno l’Istituto Europeo per la Parità di Genere (EIGE), rilascia un indicatore sulla situazione complessiva della parità di genere in Europa e nei singoli Stati Membri, mostrandone l’impegno, più o meno profondo, nel garantirla. Il punteggio complessivo è il risultato di un’analisi multisettoriale che include la misurazione di potere, tempo, conoscenza, salute, denaro e lavoro.

Dall’ultimo indice, rilasciato nel 2021, si evince come l’Unione Europea abbia raggiunto un punteggio modesto pari a 68, dovuto principalmente al punteggio più basso di tutti, ovvero quello nell’ambito del potere. Nei ruoli di leadership e in politica, la parità di genere è un miraggio un po’ ovunque. Svezia – con il punteggio più alto in assoluto – Danimarca e Paesi Bassi sono gli unici paesi che in questa categoria hanno raggiunto risultati “ottimali”.

L’Italia, per quanto specialmente nel periodo compreso fra il 2013 e il 2021 abbia fatto importanti progressi per diminuire il gap, risulta “solo” quattordicesima in Europa, ovvero al di sotto della media generale dell’Unione. Le ragioni principali sono essenzialmente due: lavoro, in quanto il tasso di occupazione e di condizioni lavorative femminili è fra i peggiori in Europa (e il divario è aumentato ancora di più durante la pandemia), e il potere, ovvero la già citata rappresentanza istituzionale, che è riuscita ad ottenere minimi sviluppi solo laddove si siano applicati i meccanismi di riequilibrio di genere; altrove, la partecipazione femminile è rimasta molto bassa, ad esempio negli organi in cui si accede attraverso procedure di nomina, dove le donne spariscono.

La professoressa Valenti ha riportato il caso emblematico del Consiglio Superiore della Magistratura. In un ambiente in cui la maggior parte delle persone che supera il concorso in magistratura sono donne, con una percentuale del 55%, quando si tratta di scegliere i nomi per le cariche più alte, la scelta ricade sempre su uomini. Attualmente nel consiglio superiore su 24 membri le donne sono solo sei, che assolutamente non rispecchiano la situazione attuale nel settore.

Nelle statistiche ufficiali la capofila Svezia ha una rappresentanza femminile al parlamento del 46% e al governo pari al 50%, di conseguenza negli anni è riuscita ad assicurarsi importanti cambiamenti sulle questioni di genere. Parliamo comunque di una storia molto diversa da quella italiana; di una nazione in cui il suffragio universale è stato introdotto con 25 anni di anticipo e che non ha avuto bisogno negli anni recenti di attuare meccanismi di riequilibrio e misure come le quota rosa per ottenere risultati di presenza “accettabili”. Ci troviamo di fronte a un contesto culturale sicuramente più sensibile alla questione di genere, con una tradizione di studi più solida, ma soprattutto in cui già da molti anni si è sviluppata e adoperata l’idea di gender mainstreaming.

L’approccio strategico del “mainstreaming di genere” si pone l’obiettivo del raggiungimento dell’uguaglianza di opportunità tra donne e uomini in ogni ambito della società. Concetto già individuato a Pechino negli anni ’90, la Commissione europea decise di introdurlo nel 1996 come strategia indispensabile per garantire la parità e il progresso sociale dei paesi membri. Il gender mainstreaming è considerato un ciclo complesso che riguarda non solo la definizione di leggi e politiche, ma anche la loro pianificazione e attuazione, che coinvolge in ogni sua tappa la prospettiva di genere.  L’EIGE si occupa di promuovere il gender mainstreaming all’interno dell’Unione, ma sono poi i singoli paesi Membri che decidono, come o se, sfruttare questo strumento.

La realtà è ancora immersa negli stereotipi di genere, che si riflettono nella comunicazione, nel linguaggio e che hanno portato alcuni giudici italiani a essere condannati dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo per le loro motivazioni ancorate a questi stereotipi. Allo stato attuale non ci sono discriminazioni dirette per accedere a cariche istituzionali o partecipare. C’è la speranza che attraverso il ricambio generazionale il welfare italiano e le dinamiche sottintese tra sessi si modifichino naturalmente, ma ad oggi persistono quegli ostacoli economici e sociali che frenano una partecipazione proattiva e quel “salto” che serve. Fino a quando verrà considerato scontato prediligere la rinuncia di un’occupazione da parte di una donna piuttosto che di un uomo; che il congedo parentale venga dato per il tempo necessario solo alla madre e non al padre; e che la donna non possa aspirare a una progressione di carriera che superi il famoso “soffitto di cristallo”, non importano le percentuali: resteremo sempre un passo indietro.

di Giulia Padova

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