Il tecno ambientalismo selvaggio che corrode la Biodiversità

Il concetto e i dibattiti sulla Transizione energetica spesso si focalizzano su aspetti tecnologici e di innovazione, dimenticandosi però dell’importanza vitale di tutelare e conservare la ricca varietà di specie presenti in Italia

Sono disperate le condizioni della nostra Biosfera. Per quanto biologi, ecologi, zoologi e milioni di volontari e meno esperti abbiano infatti manifestato nel corso degli ultimi anni contro la perdita di un sempre maggior numero di specie, secondo l’ultimo report del Global Assesment Report on Biodiversity and Ecosystem Services la biosfera ha raggiunto un declino mai visto durante la storia umana.

Inoltre, dal 2018, gli appelli promulgati per proteggere la nostra Biodiversità sembrano essere andati il più delle volte a vuoto all’interno delle sedi istituzionali internazionali, con sempre più paesi ormai scoraggiati dall’intraprendere nuovi e differenti politiche di protezione, a seguito dei presunti scarsi risultati ottenuti e dei costi elevati perpetuati nelle aree più ricche come per quelle più fragili del mondo.

Basta osservare l’India, la Cina o gli stessi Stati Uniti d’America durante l’amministrazione Trump per rendersi conto infatti di come la fiducia riversata nei politici e nelle società, relativamente alla protezione della Natura, sia stata tradita, successivamente alla COP di Parigi, avvenuta nell’autunno del 2015. Non che in passato in Europa la situazione fosse stata molto diversa, con la maggioranza della società e dei partiti politici che sono rimasti indifferenti rispetto all’elevato rischio di estinzione della biodiversità, almeno fino al pericolo rappresentato dall’incidente nucleare di Chernobyl del 1986, che ha avuto almeno il merito di sensibilizzare la popolazione e le istituzioni europee riguardo al concetto di perdita della fauna e di danno ambientale dovuta all’avvelenamento radioattivo.

Anni di manifestazioni e convegni ma nulla di rivoluzionario

Dopo il fenomeno di Friday for Future e l’intervento di milioni di sostenitori di tutto il mondo, ci si aspettava quantomeno un cambiamento di percezione del problema da parte degli ambienti politici, ma la recente crisi del gas e del conflitto ucraino hanno ampiamente dimostrato come gli stati e le confederazioni sovranazionali siano più interessati a mantenere i privilegi energetici ed economici, rispetto a maturare una consapevolezza globale, utile per contrastare il fenomeno della costante perdita di specie e a sviluppare proposte internazionali che possano risolvere le questioni energetiche nell’arco di brevi anni.

Per quanto infatti l’ultima COP di Glasgow dello scorso anno sembrava essersi conclusa con qualche timido passo in avanti, con la formulazione di un patto che chiede ai governi di limitare il consumo dei gas, diversi dalla CO2, come il metano, entro il 2030, sottolineando anche la necessità di diminuire l’utilizzo del carbone, il problema persiste. Il surriscaldamento globale, che amplifica notevolmente il rischio di estinzione di moltissime specie, infatti rimane e diverrà via via sempre più reale. Risiede sempre là, tutto intorno a noi, per quanto in un periodo di guerra come il nostro l’attenzione mediatica sia stata focalizzata su altri temi e non se ne parli più molto, se non in considerazione ai danni economici collegati ad un eventuale bando del petrolio proveniente da Mosca.

In verità, per osservare il declino della biodiversità non è necessario spostarsi molto da casa o andare a considerare questioni geopolitiche complesse come il conflitto ucraino. In ogni luogo sulla Terra, in ogni città o località decidiamo di andare a vivere, è possibile quotidianamente infatti osservare i danni che la nostra società discriminatoria e opulenta sta provocando agli ecosistemi naturali adiacenti. Gli ecologi ne discutono da decenni. Qualsiasi territorio prendiamo come campione, l’impatto negativo della stessa nostra presenza nei confronti della flora e della fauna è facilmente osservabile scientificamente, poiché sia che si abiti in Europa o in Australia il comune denominatore che affligge molti ecosistemi è la perdita costante di biodiversità e di ettari di aree selvagge.

Per quanto inoltre sia vero che in determinati contesti alcune specie opportuniste sembrano reagire all’estinzione di massa e alla eccessiva nostra presenza, adottando comportamenti che gli permettono di colonizzare nicchie ecologiche precedentemente inesistenti o fortemente degradate (come le aree subrurali o abbandonate attorno alle nostre città), è ormai assodato che la stragrande maggioranza delle specie ormai è da considerarsi in pericolo. Sarebbe quindi ora di affrontare adeguatamente la vicenda e sforzarci per tutelare il salvabile.

Estinzioni in crescita

Secondo la IUCN, ovvero l’ente internazionale che monitora lo stato di salute e il pericolo di estinzione di tutte le specie del pianeta, sarebbero infatti un milione e mezzo di specie quelle considerabili a rischio degli 8,7 milioni di eucarioti che gli scienziati stimano esistere al momento. E seppure questo valore possa sembrare una stima non molto allarmante (1,5 milioni di specie sono alla fine la minoranza rispetto 8,7 milioni), in realtà bisogna considerare che non conosciamo le dimensioni reali delle popolazioni di 85% delle specie eucariote esistenti. Inoltre molte di queste non saranno sicuramente messe molto meglio rispetto al leopardo dell’Amur (Panthera pardus orientalis) o all’elefante di Sumatra (Elephas maximus sumatranus), che rischiano di estinguersi entro il 2035. 

A questo, aggiungendo come tutti i nostri sforzi di conservazione si basano su strategie che considerano meno di un quinto degli animali e piante che popolano la Terra, si può ben comprendere lo stress che soffrono tutti i conservazionisti e gli ecologi del mondo. Soprattutto quando gli si fa notare come esiste ancora un grande numero di specie che si estingue prima di venire scoperta. 

Come risolvere dunque il gap che si è andato a creare fra gli sforzi necessari per tutelare questo numero enorme di specie e il contenuto delle agende politiche, che sembrano basare ormai le proprie campagne ambientaliste esclusivamente sulle potenziali nuovi tecnologie e promettono di disporre di nuove fonti energetiche?

Un conflitto di intenti

Sia chiaro, tutte le associazioni ambientaliste come gli stessi zoologi e botanici sono d’accordo nello sfruttare le nuove sorgenti di energia (solare, eolico, biometano, il moto ondoso) per disporre di maggiori concentrazioni di elettricità verde che possa sostenere la nostra economia e raggiungere l’efficienza energetica. Quando però i miracoli della Transizione energetica entrano in conflitto o – ancora peggio – sembrano ignorare le necessità di protezione della fauna e della flora, che forniscono alla nostra economia italiana 71,3 miliardi €/anno grazie ai servizi ecosistemici che erogano, tali tecnologie non rappresentano un’avanguardia, ma assumono solo il ruolo che era stato delle petroliere e delle vecchie centrali a carbone, qualora non vengano inseriti all’interno di un contesto energetico, ambientale e normativo più sfaccettato e coerente con i problemi ambientali che si sono manifestati dall’invenzione della macchina a vapore ad oggi. Una idea di futuro che preveda l’integrazione del territorio, la tolleranza verso le forme di vita in esso presenti e l’inserimento di ecologi, geologi e zoologi all’interno delle centrali eoliche e solari di cui si prevede la realizzazione da qui fino al termine della crisi climatica, verso cui sembriamo correre.

Analizzando meglio i fondi del PNNR, sappiamo che per quanto riguarda la Transizione ecologica e la rivoluzione verde, l’Europa e l’Italia hanno stanziato quasi 60 miliardi di euro per adeguare il nostro paese agli standard richiesti ad una nazione che si è prefissata l’obiettivo di tagliare la quantità di gas serra entro il 2050. Come sostengono però molte associazioni di settore, solo l’ 1,15 miliardi di questa somma verrà spesa direttamente per tutelare la biodiversità e l’ambiente. “Il Piano italiano è del tutto disallineato rispetto alla Strategia europea sulla biodiversità per il 2030” – segnalano Lipu e Birdlife Europe. Il resto di questi fondi servirà invece per sostenere le energie rinnovabili, la riqualificazione sismica degli edifici e l’efficientamento delle linee idriche. Obiettivi nobili, che però stridono nei confronti della perdita di comunità naturali che potrà risultare sempre più drammatica per le tasche e la salute degli italiani.  

Impossibile continuare ad immaginare un mondo in cui produciamo energia, non considerando però i risvolti negativi che presentiamo nei confronti delle comunità animali e vegetali. In futuro potremmo anche diventare perfino autosufficienti a livello energetico, rischiando comunque di pagare migliaia di miliardi di dollari all’anno, a causa dell’estinzione delle specie che offrono inconsapevolmente i loro servizi, semplicemente esistendo al di fuori del controllo umano. 

Tale scenario è stato preso ad esempio per moltissime sceneggiature di romanzi di successo e come spesso è accaduto nella storia della letteratura, non sarebbe la prima volta che gli autori di Fantascienza hanno immaginato uno scenario, profetizzando quello che sarebbe poi realmente successo cinquanta o cento anni dopo la stesura del loro libro. Il romanzo “La storia delle Api” di Maya Lunde è tra quelli più recenti che affronta questo aspetto dello sviluppo tecnologico, immaginando un futuro dove le Api si sono estinte, mentre l’umanità cercava di risolvere le questioni energetiche. Nel campo della saggistica invece è stata Vandana Shiva, nota ambientalista indiana, a criticare in moltissime delle sue opere il sistema capitalistico della produzione alimentare ed energetica, asserendo in “Chi nutrirà il mondo?” come tutte le crisi alimentari del pianeta siano connesse all’estinzione della biodiversità degli impollinatori e all’eccessivo consumo di pesticidi, che sono il prodotto dell’evoluzione tecnologica militare ed energetica, derivando molto di essi dal petrolio.

Biodiversità: ricchezza che tutti possiamo proteggere

In parole povere, gli esperti non hanno dubbi di come l’umanità semplicemente rischierebbe il collasso, qualora si estinguessero le api, le formiche, le mosche, le zanzare e le altre migliaia di specie che rendono fertili i nostri campi. Ed è quantomeno paradossale notare come inventare sempre nuovi sistemi e prodotti per combattere le specie che crescono all’interno delle nostre coltivazioni sia stato uno degli impegni più acclamati (ma anche più dannosi) a cui la comunità internazionale si era messo d’impegno all’inizio del secondo dopoguerra. Abbiamo continuato ad avvelenare la terra, finché ci siamo resi conto che l’insieme di pesticidi ha portato moltissime specie di piante ed animali ad estinguersi e alla nostra salute a peggiorare, per colpa dell’eccessiva fiducia che abbiamo assunto nei confronti dell’agricoltura intensiva.

Alla fine proteggere la biodiversità potrebbe risultare molto più semplice di quanto si creda. Come dice Telmo Pievani, nel suo ultimo articolo uscito presso “Le Scienze”, “le aree più ricche di biodiversità non sono intatte, ma frutto dell’opera millenaria delle comunità locali, essenziali alla loro salvaguardia e all’amministrazione delle foreste”. 

Esistono infatti molteplici esempi che testimoniano come sia possibile realizzare progetti complessi di conservazione della natura, intervenendo assieme alle popolazioni indigene per migliorare semplicemente lo status quo delle aree più ricche di biodiversità. Parlando infatti di un altro comune denominatore, tutti i principali progetti di conservazione che prevedono la salvaguardia delle specie più a rischio hanno una caratteristica comune: la buona volontà di migliaia, se non milioni, di persone.

Che siate un aborigeno inca della foresta brasiliana o un indiano che combatte per proteggere la Tigre del Bengala, che siate un veterinario di una grande riserva sudafricana o l’insegnante di liceo di un paese inserito all’interno di un parco dell’Abruzzo o della Sicilia, se siete sensibili ai temi ambientali di solito siete più propensi a tutelare e proteggere la flora e la fauna del vostro territorio. 

Per quanto alcune operazioni possano essere affrontate esclusivamente da tecnici, come l’inanellamento degli uccelli o la costruzione di barriere che non permettano alla fauna selvatica di rimanere investita nei pressi di una strada, chiunque può dare un contributo e partecipare attivamente ai progetti di tutela della natura, tramite i progetti di Citizen science. “La conservazione basata sulle comunità” – come afferma nuovamente Pievani all’interno del suo articolo – “in genere è più efficace a garantire una più alta biodiversità… favorendo (anche) l’educazione ambientale e ridistribuendo i proventi di un turismo il più possibile rispettoso e consapevole.”

Per augurarci perciò un futuro sostenibile, non dobbiamo solo considerare il punto di vista energetico della questione ambientale. Dobbiamo considerare tutti gli altri temi, che hanno uguale o forse maggiore importanza, rispetto ad una semplice evoluzione tecnologica che risultava (ed è) inevitabile già da un paio di decenni. 

Secondo molte associazioni ambientaliste, è stato fatto un enorme errore nel togliere il focus biologico al vecchio Ministero dell’ambiente italiano, tramutandolo nell’odierno Ministero della Transizione ecologica, che sembra puntare di più allo sviluppo di moderne tecnologie e a sostenere i gassificatori o il nucleare di nuova generazione, rispetto a proteggere la fauna e la flora

Una moderna visione del problema “ambientale” che appare antitetica e stridente, rispetto alle richieste di esperti ed attivisti che richiedono una risposta coerente alle scelte in campo conservazionistico del territorio. Non a caso a breve si moltiplicheranno gli interventi di diverse associazioni, tra cui Legambiente, WWF, FAI, e Greenpeace, a sostegno di vari movimenti locali che non auspicano lo sfruttamento dei fondi del PNNR per la costruzioni di nuovi gassificatori e la riattivazione o l’ammodernamento di vecchie centrali a carbone, favorendo progetti che prevedano un maggior rispetto ambientale e il supporto delle comunità naturali posti ai confini delle zone industriali/energetiche del nostro paese.

Proteggere la Biodiversità vuol dire anche questo. Limitare potenzialmente tutti i danni a partire dalla realizzazione delle nuove centrali. Poi è necessario assicurarsi che anche all’interno delle aree più selvagge le comunità naturali possano convivere con l’essere umano e possano migliorare le condizioni ambientali che permettano alle stesse specie di sopravvivere. Senza questa idea di base, è infattibile se non dannoso anche pensare di realizzare nuovi progetti di conservazione, per specie comunque destinate ad estinguersi sopra un manto stradale di asfalto o sotto i cavi di un traliccio metallico, che collega una cittadina alla sorgente energetica. 

di Aurelio Sanguinetti

Questo articolo è stato realizzato per la rubrica Comunicare la scienza, realizzata in collaborazione con gli studenti del Master Cose dell’Università degli studi di Parma

Riferimenti blibliografici:

Ammanati Laura, “Una nuova governance per la transizione energetica dell’Unione europea: soluzioni ambigue in un contesto conflittuale”, Editore Giapicchelli, 2018

Battisti Corrado et al., “Biodiversità, disturbi, minacce. Dall’ecologia di base alla gestione e conservazione degli ecosistemi”, Forum Edizioni,  2013

Buttarazzi Matteo, “Transizione energetica ottimale”, Edizioni LUISS

IUCN, Red List, https://www.iucnredlist.org/

Kolbert Elisabeth, “La sesta estinzione”, Editore Beat, 2015 

Legambiente, Autori Vari, “L’insensata corsa al gas dell’Italia”, 2021

Pievani Telmo, “Cambio di Prospettiva”, Le Scienze, numero 644

Primack Richard B., Boitani Luigi, «Biologia della Conservazione”, Zanichelli,  2013

Shiva Vandana, “ Chi nutrirà il mondo? Manifesto per il cibo del terzo millennio”, Feltrinelli, 2015

Wilson Edward O., “Biofilia”, Harvard University Press, 1984

Zaccarelli N., Morri E., Santolini R., “Il valore economico dei servizi ecosistemici in Italia dal 1990 al 2000: indicazioni per strategie di sostenibilità o vulnerabilità”

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