Assange estradato: la libertà di stampa in Occidente è a rischio?

Il 20 aprile la Westminster Magistrates' Court di Londra ha emesso l'ordine di estradizione negli Stati Uniti per Julian Assange, il fondatore di WikiLeaks: una volta estradato negli USA, rischierebbe una pena di 175 anni di carcere

“Da noi i giornalisti non vengono messi in carcere se esprimono un’opinione diversa dal potere” ha dichiarato Lilli Gruber durante la puntata di Otto e mezzo del 12 aprile. Ma è veramente così?

Mercoledì 20 aprile, la Westminster Magistrates’ Court di Londra ha emesso l’ordine di estradizione negli Stati Uniti per Julian Assange, il fondatore di WikiLeaks che dal 2019 si trova nella prigione di massima sicurezza di Belmarsh, la ‘Guantánamo inglese’. Le schede dei detenuti dei lager americani, i cablo della diplomazia, i documenti sulle guerre in Afghanistan e in Iraq e le regole di ingaggio dei soldati americani sono le ragioni per cui oggi il giornalista, una volta estradato negli USA, rischierebbe una pena di 175 anni di carcere.

“Negli Stati Uniti la libertà dei giornalisti viene tutelata e garantita”, ha aggiunto la nota giornalista, probabilmente dimenticando le vicende intorno a WikiLeaks e al suo fondatore. Il trattamento che l’occidente gli ha riservato non è, infatti, meno ignobile di quello che regimi autoritari riservano ogni giorno ai liberi giornalisti. A dimostrarlo sono due documenti: un’analisi condotta dall’Army Counterintelligence Center, il centro di controspionaggio che individua le minacce per le truppe americane, e il piano contro l’organizzazione, The WikiLeaks Threat, firmato da tre aziende americane.

Nel primo si recita che “siti come WikiLeaks usano la fiducia come centro di gravità, proteggendo l’anonimato degli insider, delle fonti e dei whistleblower. Smascherando l’identità di chi fornisce documenti, denunciandoli, licenziandoli dal posto di lavoro, incriminandoli, possiamo danneggiare o distruggere quel centro di gravità“.

Nel secondo, invece, sono previste varie azioni di sabotaggio: “Alimentare scontri e divisioni. Disinformazione”; “inviare documenti non autentici e poi denunciare il falso”; “creare preoccupazioni sulla sicurezza delle infrastrutture”; “cyber attacchi contro le infrastrutture per ottenere i dati di chi inviava i documenti”; “una campagna mediatica per far passare l’idea che le attività di WikiLeaks sono irresponsabili e radicali“.

Quello che è successo dal giorno della pubblicazione del manuale sulla task force militare che gestiva Guantánamo è in linea con quanto pianificato in quei due documenti. L’organizzazione, infatti, ha provato cosa significa avere contro gli Stati Uniti. Tra accuse infamanti, campagne mediatiche diffamatorie e violazioni dei diritti umani.

Per quanto riguarda le accuse infamanti, dopo la pubblicazione dei documenti sull’Afghanistan, è iniziata a circolare nell’opinione pubblica e nelle redazioni l’idea che Assange e la sua organizzazione fossero pericolosi irresponsabili. È l’ammiraglio Mike Mullen ad accusare l’organizzazione di Assange di avere “le mani sporche di sangue”, in quanto la diffusione di quei file ha messo a rischio la vita delle truppe americane – anche se da quando i documenti sono stati diffusi non è mai stato portato un solo esempio di persona uccisa o torturata a causa di quelle pubblicazioni. La verità è che con gli Afghanistan War Logs l’opinione pubblica mondiale ha potuto scoprire menzogne ufficiali, omissioni e manipolazioni.

Il New York Times, il Guardian e il Der Spiegel hanno contribuito alla pubblicazione di quei documenti mettendo a disposizione le risorse e le competenze per scavare nel database e consigliare quali nomi proteggere e quali no. Eppure quelle accuse del Pentagono si sono diffuse rapidamente. Tanto che nel 2010 il New York Times, nonostante abbia collaborato alle pubblicazioni, ha fatto uscire un ritratto controverso in cui Assange viene dipinto come un irresponsabile, che mette a rischio vite umane.

È solo l’inizio di una lunga campagna mediatica che dal 2010 a oggi ha contribuito ad alienare il supporto dell’opinione pubblica. Ed è a partire da quell’anno che l’attenzione dei media si sposta sulla sua figura di ‘hacker eccentrico’ o ‘uomo paranoico’ e sulla sua organizzazione, invece che sulle responsabilità di chi ha sterminato, torturato e distrutto intere nazioni. Articoli come questi hanno contribuito alla campagna di demonizzazione di Assange e della sua organizzazione, a tal punto da privarli di ogni empatia da parte dell’opinione pubblica.

Nel 2011, quando l’intero database dei cablo finisce online (senza che siano stati rimossi i nomi delle persone a rischio) queste tesi trovano ancora più linfa. L’enorme giacimento di file è ancora criptato, ma due giornalisti del Guardian decidono di pubblicare la password in un libro, commettendo l’errore peggiore, visto che senza nessuno sarebbe stato capace di decriptarli. Perché farlo? Per danneggiare il lavoro di pubblicazione dei cablo in modo che l’opinione pubblica fosse portata a concludere che Assange fosse un irresponsabile che metteva a rischio vite umane.

A rafforzare questa campagna di delegittimazione, dopo quattro settimane da quella pubblicazione, si presenta il caso giusto, il più diffamante, per azzerare il consenso dell’opinione pubblica nei confronti di Assange. Il fondatore viene indagato per minor rape, “stupro di minore” e molestie sessuali in Svezia. I magistrati ordinano l’arresto di Assange, dopo che due ragazze svedesi si sono recate alla polizia per chiedere un test dell’HIV dell’uomo dopo aver avuto dei rapporti sessuali consenzienti.

Da quello che è emerso dai messaggi privati tra le due donne, la prima avrebbe avuto un rapporto non protetto con Assange, mentre la seconda avrebbe avuto la sensazione che l’uomo avesse rotto il condom di proposito. Delle denunce colpiscono due cose: la prima donna non ha firmato il verbale e ha interrotto la deposizione dopo essere stata informata che sarebbe stato arrestato, mentre la seconda è andata senza prima verificare lo stato del preservativo.

Per dieci giorni Assange viene recluso nella prigione di Wandsworth, da cui esce su cauzione per rimanere agli arresti domiciliari. Per evitare di essere trasferito in Svezia, convinto che poi da lì sarebbe stato estradato negli USA, Assange viola le regole del rilascio su cauzione e si rifugia nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra dove chiede asilo. L’Ecuador rispetta il “principio di non-refoulement“, il diritto di un individuo di non essere trasferito in un paese dove rischia gravi abusi (Convenzione di Ginevra sui rifugiati e Convenzione contro la tortura), e gli concede l’asilo diplomatico. 

Le autorità inglesi del Crown Prosecution Service fanno pressioni sugli svedesi, insistendo sull’estradizione, piuttosto che sulla cooperazione giudiziaria, e creano una paralisi. Nel messaggio dell’avvocato del CPS, Paul Close, si leggono diverse stranezze: Assange viene definito come “imputato”, quando è solo indagato; gli svedesi hanno già deciso di mandarlo a processo nonostante lo stato delle indagini non lo consenta. Colpisce come i diritti umani di Assange non interessino alle autorità di Londra: “Non c’è alcuna possibilità che gli sia permesso di uscire dall’ambasciata, curarsi e rientrare. Verrebbe arrestato appena opportuno”. La gestione dell’inchiesta svedese resta piena di domande senza risposta, l’unica cosa chiara è che il caso ha contribuito alla costante demonizzazione di Assange.

Con la fine della presidenza di Rafael Correa, in Ecuador tutto cambia. Con il suo successore, Lenín Moreno, il clima dell’ambasciata diventa incerto e ostile. Viene applicato il tipo di sorveglianza usato dai peggiori regimi autoritari. Vengono filmati gli incontri e requisiti zaini e dispositivi a tutti i visitatori. David Morales con la UC Global sostituisce le telecamere installate nell’ambasciata con altre più sofisticate e capaci di registrare l’audio e dà istruzioni ai suoi dipendenti di seguire un avvocato del team legale di Assange. Secondo El País, gli americani hanno accesso alle informazioni raccolte dalla UC Global. Mentre dalle ricostruzioni dei testimoni protetti emerge come gli americani siano così disperati dall’idea che Assange possa restare nell’ambasciata che discutono la possibilità di rapirlo o di avvelenarlo.

L’11 aprile 2019 il governo ecuadoriano, violando il diritto di “non-refoulement”, revoca l’asilo e Assange viene arrestato da Scotland Yard e mandato nella prigione di massima sicurezza di Belmarsh. Poco prima, il relatore speciale delle Nazioni Unite contro la tortura, Nils Melzer, scrive ai quattro governi responsabili che: “Assange mostra tutti i sintomi tipici dell’esposizione prolungata a un grave stress psicologico, ansia e tutta la sofferenza mentale ed emotiva in un ambiente che causa una grave crisi depressiva e i disturbi da stress postraumatico”.

Nonostante ciò, gli Stati Uniti chiedono l’estradizione per associazione a delinquere finalizzata all’intrusione informatica. Viene condannato a cinquanta settimane per aver violato la condizione del rilascio su cauzione, una sentenza ritenuta sproporzionata dal Working Group delle Nazioni Unite. Stoccolma riapre le indagini per stupro per la terza volta. E il Grand Jury, un’istituzione con una lunga storia di persecuzione di attivisti politici, lo incrimina. Diciassette i capi di imputazione per presunte violazioni dell’Espionage Act, una legge del 1917 che non fa distinzione tra le spie che passano documenti segreti al nemico a discapito della nazione e i whistleblower e i giornalisti che li rivelano all’opinione pubblica per denunciare atrocità, crimini di guerra e torture.

La gravità di questa vicenda può essere riassunta nella reazione di Svezia e Regno Unito al resoconto (2016) delle Nazioni Unite sul caso. Secondo il Working Group on Arbitrary Detention, chiamato a stabilire chi è privato della libertà in modo arbitrario, il fondatore di WikiLeaks è detenuto arbitrariamente. Le due nazioni devono lasciarlo libero e accordargli il diritto a essere risarcito.

Di norma le democrazie occidentali invocano il rispetto delle decisioni del Working Group, quando sono i paesi autoritari a privare qualcuno della libertà in modo arbitrario. Nel caso di Assange, invece, le autorità inglesi ignorano del tutto il provvedimento liquidandolo come non vincolante. Allora, se democrazie come il Regno Unito definiscono ridicole le decisioni del Working Group, come si può pretendere che gli stati autoritari le rispettino?

È questa la domanda che bisogna porsi oggi, in un momento storico in cui le democrazie occidentali dovrebbero dimostrare una sensibilità maggiore in materia di diritti umani rispetto a certe dittature, quando parliamo di Julian Assange. Farlo non significa far uso di un “argomento retorico”, come lo ha definito Concita De Gregorio durante una puntata di In Onda, in cui lo scrittore Emanuele Trevi ha spiegato come tenere in carcere Assange alimenti la propaganda di Vladimir Putin. Questo è stato già fortemente dimostrato il giorno dell’arresto, quando a riprendere la scena c’era la video Agency di stato russa e il suo filmato fece il giro del mondo. Un’occasione per Putin di mostrare al mondo intero come le democrazie occidentali trattavano il giornalismo più scomodo.

Sempre in quella puntata, tra Trevi che preferirebbe essere Naval’nyj e scontare 9 anni in un carcere russo e Rampini e Parenzo che preferirebbero essere Assange e rischiare 175 anni in un carcere statunitense, il dibattito è degenerato in una discussione sterile. In primis, perché questi ultimi due non tengono conto del fatto che, secondo Amnesty International, l’estradizione di Assange violerebbe il divieto di tortura a causa della norma sull’isolamento prolungato nelle prigioni di massima sicurezza degli USA. E soprattutto perché fare una classifica relativa alla violazione dei diritti umani è una cosa ripugnante che un programma in prima serata non dovrebbe mai trasmettere. Che si tratti di Naval’nyj, Anna Politkovskaja o Assange, di Russia o Stati Uniti, la sostanza resta sempre la stessa: “la libertà è sacra come il pane“.

Ora a dover decidere sul via libera definitivo, entro il 18 maggio, è la ministra degli Interni, Priti Patel. Secondo Daniel Ellsberg, il giornalista che nel 1971 pubblicò i Pentagon Papers, se questo dovesse concretizzarsi “avremo, essenzialmente, una stampa come quella della Russia di Stalin“. Fino a quel giorno, quindi, l’Home Secretary avrà in mano la storia delle democrazie occidentali. Potrà farci tornare indietro di ottant’anni, o porre fine a questo triste capitolo per riprendere il cammino verso il futuro. Anche se ormai sembra un’utopia, continuiamo a sperare nella seconda opzione. Continuiamo a sperare nella democrazia.

di Niccolò Monti

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