“C’mon C’mon” e il rimboccarsi le maniche nei momenti più scoraggianti

«Non so come sarà il futuro. Spesso però le cose accadono diversamente da come te l’eri immaginate. E allora devi fare il tifo: C’mon C’mon, C’mon C’mon…».

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C’mon C’mon è un film uscito il 19 novembre 2021 negli USA e il 7 aprile 2022 in Italia, prodotto da A24, scritto e diretto da Mike Mills. Un titolo alternativo era “Magnetic Fields”, “campi magnetici”. Al momento di terminare la sceneggiatura, Mills si trovò in difficoltà nel decidere il tono del film: si chiese se doveva essere divertente o meno. La risposta arrivò da suo figlio, all’epoca un bambino di sette anni, che gli disse: “Be funny, when you can”. Infatti, lo spettatore si ritrova, a tratti, a sorridere durante la fruizione del film. 

Il rapporto adulto-bambino, la maternità, l’intelligenza emotiva

I protagonisti sono l’attore Joaquin Phoenix (Johnny), Woody Norman (Jesse) e Gaby Hoffmann (Viv). La trama si sviluppa attorno al tempo che Johnny e Jesse, ovvero zio e nipote, trascorrono insieme. Durante questo viaggio, sia fisico che metaforico, si toccano diverse tematiche, come ad esempio il rapporto adulti-bambini, i ruoli genitoriali, la malattia mentale, l’incapacità di esprimere le proprie emozioni, l’eccessivo sacrificio di se stessi per tentare di salvare le persone che si amano, il dover accettare una realtà dolorosa che non ha un lieto fine. «Non so come sarà il futuro. Spesso però le cose accadono diversamente da come te l’eri immaginate. E allora devi fare il tifo: C’mon C’mon, C’mon C’mon…».

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In questo rapporto tra Johnny e Jesse è interessante notare che la figura del bambino non è subordinata a quella dell’adulto, ma vengono posti su uno stesso livello e, attraverso uno scambio reciproco, entrambi si evolvono.

Molto interessante e inusuale è il lavoro di Johnny: si occupa, infatti, di registrare interviste in giro per l’America, dove pone domande impegnative ed esistenziali a ragazzi dagli 8 ai 14 anni per il suo podcast radiofonico. Mills mette in scena un vero e proprio incontro/scontro tra due mondi apparentemente lontani, quello degli adulti e quello dei bambini. Se inizialmente lo spettatore si riconosce nel punto di vista di Johnny (adulto), con lo scorrere del film riesce a comprendere e successivamente a entrare nel mondo di Jesse (bambino). Questo cambio di prospettiva avviene man mano che il rapporto tra Jesse e Johnny diventa più intimo, dovuto anche al viaggio compiuto insieme a New York per il lavoro dello zio, che dà la possibilità a entrambi di conoscersi meglio.

Punto cruciale, interessante da analizzare, è la scena in cui Jesse cerca di far fare allo zio Johnny il gioco che era abituato a fare con sua mamma: lui si intrufola in casa propria dicendo di essere un orfano e chiede di essere ospitato da “sua mamma”. Lo zio si rifiuta di fare questo gioco reputandolo non normale e Jesse risponde: ”Che cos’è normale?”. Qui si nota la maturità del bambino e la sua capacità critica di mettere in discussione ciò che il mondo adulto ormai considera scontato e convenzionale.

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Jesse, seppur ancora piccolo, sembra aver conosciuto uno spettro maggiore di emozioni rispetto a suo zio (forse anche prematuramente) ed è anche in grado di riconoscerle, di dare un nome a ciò che prova, di avere quella schiettezza che diventa sempre più rara man mano che si cresce e quella capacità di intercettare suo zio quando cerca di glissare gli argomenti scomodi, facendoglielo notare con un “bla bla bla”. 

Questa capacità introspettiva di Jesse è stata sviluppata sicuramente grazie a Viv, alla quale, come a ogni madre, viene affibbiato il compito di prendersi cura di tutto ciò che concerne la sfera emotiva dei figli. E questo tema viene fatto notare anche leggendo dei passi del libro “Mothers: An Essay on Love and Cruelty” di Jacqueline Rose: «Le madri sono il capro espiatorio dei nostri fallimenti personali e pubblici, di tutto ciò che è sbagliato nel mondo, che diventa il loro compito, ovviamente irrealizzabile, di riparare».

Viv, inoltre, non incarna una maternità stereotipata, consapevole che l’essere madre non è l’unica cosa che la identifica come individuo e che non esiste nessun “istinto materno” o capacità innata di rapportarsi con i propri figli. Infatti, quando suo fratello Johnny si trova in difficoltà nella gestione di suo nipote e afferma che “lei è abituata”, Viv gli risponde che non è così, che ci sono giorni in cui suo figlio lo trova insopportabile e vorrebbe solo prendersi un po’ di tempo per sé. Si chiede se questo faccia di lei una “cattiva madre”, ma in realtà umanizza e rende reale quel ruolo di mamma che troppo spesso viene idealizzato e caricato di aspettative che non potranno mai essere concretizzate. 

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Johnny sembra invece essere rimasto vittima del suo passato, intrappolato nei suoi silenzi e nell’incapacità di fronteggiare le proprie emozioni, forse troppo dolorose per poterle osservare. Ed è con quel velo di apatia che si rapporta con il mondo, fino a quando qualcosa comincia a sgretolarsi con la presenza quotidiana di Jesse. Si arriva a una sorta di accettazione degli eventi della vita, in cui si smette di forzare le cose e nascondere ciò che arreca sofferenza. “It’s ok to not be fine”.

La tecnica di realizzazione; Si possono provare emozioni senza la possibilità di guardare i colori?

La risposta è sì: Mike Mills sceglie di registrare una pellicola in bianco e nero, cercando di creare un punto di partenza neutro, in modo tale che ogni spettatore possa provare e sviluppare le proprie emozioni, senza essere contaminati dalle scelte cromatiche del regista. Pur essendo un film in bianco e nero, la fotografia è curata nei minimi dettagli. Le immagini create sono semplici e sobrie, in contrapposizione alle complicate tematiche del film. Le inquadrature, che oscillano dal primo piano al campo lungo, sono rielaborate in 4:3 conservando così una maggiore area visibile e permettendo allo spettatore di rifiatare e rilassarsi, essendo un film con prevalenza di dialoghi. 

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Mills riesce bene anche a integrare e citare altre forme d’arte quali la letteratura, la musica, la produzione radiofonica; utilizzandole spesso come escamotage narrativo per svelarci tratti caratteriali dei protagonisti: “A How-To Guide to Parent-Child Relationship Repair” by Andrea Nair e “Mothers: An Essay on Love and Cruelty” by Jacqueline Rose per farci capire meglio il punto di vista Viv, “The Bipolar Bear Family: When a Parent Has Bipolar Disorder” by Angela Ann Holloway introduce il tema della malattia mentale.

C’mon C’mon è una storia di ordinaria quotidianità tra zio e nipote che tocca questioni generali, ma senza essere banale. Un inno al darsi da fare, senza crogiolarsi nella sofferenza.

di Alessio Garritano ed Elisa Carlino

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