Femminicidi e violenza delle parole: tra romanticizzazione e stereotipi nei media

L’abuso e la violenza vanno comunicati, ma è necessario prima sensibilizzare, educare, insegnare. Così come è necessario aiutare la vittima ad ottenere giustizia, riportando in maniera oggettiva i fatti brutali a cui è stata sottoposta. La narrazione oggi, tuttavia, vede ancora prospettive errate e altri gravi errori

116. Sono le donne vittime di omicidio volontario nel 2020 in Italia (ISTAT).

Nel 92,2% dei casi queste donne sono state uccise da una persona conosciuta.

Per più della metà dei casi, sono state assassinate dal proprio partner; per il 25,9% da un familiare.

Circa 60 donne nel 2020 sono state ammazzate da una persona con cui vivono, che forse amavano, di cui magari persino si fidavano.

Ma la violenza non è solo questo: l’omicidio è, a volte, l’inaccettabile conclusione di una serie di atti brutali. Maltrattamenti, atti persecutori, percosse, violenze sessuali, diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti.

Tutte queste sono chiamate violenze di genere.

“Ogni atto di violenza fondata sul genere che provochi un danno o una sofferenza fisica, sessuale o psicologica per le donne, incluse le minacce, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, che avvenga nella vita pubblica o privata” è la definizione secondo l’art.1 della Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne, adottata senza voto da parte dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite con la risoluzione 48/104 del 20 dicembre 1993.

“È violenza di genere – sostiene Linda Sabbadini, direttore del dipartimento per le statistiche sociali e ambientali dell’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) – perché le donne la subiscono in quanto donne, in relazione alla loro diversità sessuale. È la violenza dell’intimità e non dell’estraneità, è la violenza di chi pensi che ti ami e non di chi ritieni sia un nemico. È una violenza vissuta in solitudine che non viene denunciata nella quasi totalità dei casi”.

L’abuso e la violenza vanno comunicati. È necessario sensibilizzare, educare, insegnare. Così come è necessario aiutare la vittima ad ottenere giustizia, riportando in maniera oggettiva i fatti brutali a cui è stata sottoposta.

“Parlare di abuso significa analizzare il fenomeno da molteplici aspetti. – spiega il direttore del Dipartimento Assistenziale Integrato Salute Mentale Dipendenze Patologiche AUSL Parma, Pietro Pellegrini – Serve equilibrio e sensibilità per comprendere quanto possano essere profonde e inesprimibili le sofferenze delle vittime. Le parole sono molto potenti, hanno una forza intrinseca, possono essere pietre oppure aiutare a comprendere, distanziare ed elaborare”.

La subdola origine della violenza e di una comunicazione errata: gli stereotipi

La violenza è un’azione che va contro il volere e il rispetto dell’altro, nasce per antonomasia quando si ha il desiderio di prevaricare l’altra persona o quando non si accettano le differenze.

Spesso, nella società in cui viviamo, ci si illude che le cose debbano necessariamente essere bianche o nere, non si accetta nessuna scala di grigi: ogni cosa che sfugge alla regola, alla norma, alla convenzione è sbagliata, crea disturbo e viene condannata dal senso comune.

Ma di quali convenzioni si sta parlando? Di stereotipi.

Un preconcetto, un’idea ricorrente e convenzionale, una rigida credenza trasmessa a livello sociale e culturale, spesso in maniera inconsapevole. Preconcetti su cosa? Sui comportamenti, sui ruoli, sull’aspetto fisico. Su come una persona dovrebbe essere e su cosa dovrebbe fare. Non essere conformi a queste credenze determina un giudizio, uno stigma.

Gli stereotipi di genere si basano sulla differenziazione sessuale: maschi e femmine. Si tratta di una visione dicotomica del reale, esistono solo due possibilità e sono necessariamente due opposti.

Le bambine amano il rosa, sono delicate e affettuose, giocano con le bambole e usano le scarpe di mamma.

I bambini sono vivaci, usano macchinine e soldatini, prediligono l’azzurro, non si truccano e non sono emotivi.

Questi stereotipi sono stati tramandati di generazione in generazione, li ritroviamo in canzoni, film, cartoni animati. Nonostante la società abbia fatto alcuni passi avanti nell’ultimo decennio, non si può dire che questi pregiudizi non esistano più.

Il vero problema è che, a lungo andare, c’è il rischio che gli stereotipi diventino la matrice primaria della tossicità e della violenza di genere. Un’analisi ISTAT del 2019, condotta nell’anno precedente, dice che su un campione di popolazione italiana tra i 18 e i 74 anni, il 32,5% degli intervistati pensa che la realizzazione nel lavoro sia più importate per gli uomini che per le donne e il 27,9% crede che sia l’uomo a dover provvedere al mantenimento della famiglia. Il 31,5% ritiene che gli uomini siano meno adatti a occuparsi delle faccende domestiche.

Ma gli stereotipi sono reali perché confermati da come stanno le cose o le cose stanno così perché le persone crescono in una società in cui gli stereotipi agiscono silenziosamente in modo latente (e non solo)? Insomma, una donna fa fatica a far carriera perché è realmente meno portata al successo o perché ha trascorso la vita sentendosi dire che il suo ruolo più gratificante sarà accudire dei figli? O forse perché si sente chiedere ai colloqui se ha intenzione di diventare mamma? O magari perché ha passato la sua carriera scolastica a sentir parlare solo di scienziati, politici e imprenditori uomini?

Come scrive Carlotta Vagnoli in ‘Maledetta Sfortuna’, “sul tema della violenza nella coppia, il 7,4% delle persone ritiene accettabile che un ragazzo schiaffeggi la sua fidanzata perché ha civettato/flirtato con un altro uomo; il 6,2% che, all’interno della coppia, possa scappare uno schiaffo ogni tanto. Rispetto al controllo, invece, sono più del doppio (17,7%) le persone che ritengono accettabile che un uomo controlli abitualmente il cellulare e/o l’attività sui social della propria compagna. Questi dati suggeriscono che il controllo di un genere sull’altro non venga recepito come un atto di cattiveria, bensì tollerato e accettato per via di prassi che, replicate e tramandate di generazione in generazione, portano a pensare in modo spontaneo che la vita di coppia sia in primis una questione di possesso”. 

Se semplifichiamo, la violenza di genere nasce da qui, da uno stereotipo che sopravvive da secoli nella società: la donna è il sesso debole, va protetta, difesa e questo sfocia in maniera incontrollata nell’idea che la donna possa essere governata, usata, sottomessa.

Perché l’uomo è forte, la donna fragile.

L’uomo è potente e audace, la donna remissiva e silenziosa.

Un uomo che punta in alto è ambizioso e destinato al successo, una donna invece è arrogante e con un carattere difficile.

Gli stereotipi sono difficili da combattere e da cambiare. Chi cerca di allontanarsi dalle definizioni categoriche che la società impone viene spesso visto negativamente: l’uomo che piange o che soffre in maniera aperta è definito “femminuccia”, la bambina troppo vivace e poco delicata un “maschiaccio”.

In questa visione, se una donna viene picchiata o violentata: “Se l’è cercata!”. Ma perché? Perché non ha rispettato le regole imposte, è andata oltre lo stereotipo: non è stata zitta, non è rimasta al suo posto, aveva un vestito provocante, era ubriaca. Come se anche solo uno di questi elementi potesse essere minimamente in grado di giustificare un atto di violenza.

Lo stereotipo dell’uomo che non deve chiedere mai e della donna come preda da conquistare spingono alla violenza, soprattutto nella sfera sessuale: la donna è l’eterna sottomessa. Per questo poi si sentono giustificazioni avvilenti e vergognose come: “Ma sì, i maschi sono fatti così, non riescono a controllare gli ormoni”. E quindi è normale molestare, fischiare, abbordare o seguire una donna.

La complessità di tutto questo va a collocarsi nel concetto di Rape Culture,un complesso di credenze che incoraggiano in qualche modo l’aggressività sessuale maschile, supportando la violenza contro le donne. E questo succede in una società in cui la violenza è sexy e non tossica.

Purtroppo, capita che la comunicazione contribuisca al perpetrarsi di questi stereotipi.

Gli stereotipi della violenza di genere nella comunicazione

Ogni cinque anni, il GMMP, Global Media Monitoring Project, analizza le rappresentazioni di genere sui canali di informazione. Sono emerse carenze preoccupanti nel modo in cui si comunica, sia per qualità che per quantità.

Continuano a persistere rappresentazioni stereotipate e pregiudizi legati a ruoli, identità e posizioni sociali tra uomini e donne. Inoltre, c’è un’evidente sottorappresentazione delle donne nei media, soprattutto tradizionali. Le donne non sono politiche o imprenditrici, ma vengono descritte per il loro aspetto. Le donne non sono Dottoresse, non vengono chiamate per cognome.

E per questo motivo la vicepresidentessa degli Stati Uniti è “Kamala”, o i giornali riportano titoli come “La donna che è andata nello spazio”; “Una donna per la prima volta a capo della polizia di New York”; “Super mamma al comando dell’azienda”.

Questa è discriminazione di genere attraverso l’uso del linguaggio. Perché la notizia non dovrebbe essere che la CEO sia anche una madre, perché la donna a capo della polizia ha un nome e un cognome, perché esattamente come si parla di Obama, Trump e Biden, si dovrebbe anche parlare di Harris, non di Kamala. Si sta parlando della vicepresidentessa degli USA, non di un’amica. Il chiamare per nome o il far riferimento al ruolo domestico depotenzia la carica lavorativa e sociale della donna in un’ottica sessista e umiliante.

Cronaca e alimentazione degli stereotipi attraverso una comunicazione errata o imprecisa

La violenza di genere, soprattutto quando si tratta di femminicidio, viene spesso narrata dalla stampa in modi inadeguati, che talvolta addirittura non rispettano la dignità della vittima, deresponsabilizzando in qualche modo il colpevole.

Il femminicidio è definito come “qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuarne la subordinazione e di annientarne l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte”.

Il femminicidio è l’atto finale, la completa eliminazione della figura della donna e di tutto ciò che rappresenta.

Marcela Lagarde, accademica, antropologa e politica messicana dice che “la cultura in mille modi rafforza la concezione per cui la violenza maschile sulle donne è un qualcosa di naturale, attraverso una proiezione permanente di immagini e spiegazioni che legittimano la violenza”. Lagarde parla di un “problema strutturale, che riguarda tutte le forme di discriminazione e di violenza di genere, che sono in grado di annullare la donna nella sua identità”.

Nel discorso per la proposta di legge “Disposizioni per la promozione della soggettività femminile”, presentata l’8 agosto 2013, la deputata Sbrollini affermava: “La violenza sulle donne è un genocidio nascosto. La violenza oggi non è solo residuale. È piuttosto una nuova risposta a cambiamenti introdotti dalle donne (…). La violenza sulle donne come genocidio nascosto – per dirla come Amartya Sen – non è un residuo del passato e non va assolutamente sottovalutata. Dietro il femminicidio introdotto nel dibattito nazionale e internazionale c’è non solo l’omicidio di donne – in questo caso si parla di femmicidio, che è concetto diverso – ma la continua erosione della loro dignità, il tentativo di negare la piena espressione della loro personalità. Il femmicidio costituisce solo la cima di un enorme iceberg sommerso che è il femminicidio”.

Qual è il principale problema della narrazione della violenza di genere? La romanticizzazione.

Questa retorica priva il femminicidio del suo carattere strutturale: amore, possesso e gelosia diventano delle giustificazioni atte a deresponsabilizzare. Il colpevole “era innamorato, amava, era tradito”. Così facendo, il punto di vista della narrazione, completamente sbilanciato, passa dal lato del colpevole. 

A questo si sommano interviste ai vicini, ai genitori dell’omicida, agli amici che, ovviamente, lo descrivono come “un bravo ragazzo” “un buon padre” “una persona da cui mai ci si sarebbe aspettati una cosa del genere”. Pare ovvio che un genitore raramente descriverebbe il figlio come un “pazzo omicida” o che i vicini non sappiano molto del rapporto tra la vittima e il suo carnefice. 

Questi commenti non fanno altro che sminuire l’atto di violenza compiuto.

Espedienti narrativi come il raptus di follia, il delitto passionale o il troppo amore misto a gelosia sono un altro modo per togliere al colpevole parte delle sue responsabilità. I dettagli della relazione tra le due persone, il modo in cui la vittima era vestita, se aveva bevuto sono solo elementi che altro non fanno se non contribuire al victim blaming. La descrizione morbosa dei dettagli sposta l’attenzione dal fatto realmente importante. Così facendo si mettono sullo stesso piano la donna che si difende e l’uomo che l’aggredisce, si rende la donna responsabile in qualche modo della violenza subita, si minimizza il reato e si forniscono delle attenuanti.

Gli errori da non commettere quando si parla di violenza di genere

Raccontare la violenza di genere con le parole giuste è il primo passo per combatterla.

Le parole possono difendere, aiutare, combattere le ingiustizie, possono contribuire al cambiamento.

Quali sono le cose da fare quando si riportano fatti connessi alla violenza di genere e, soprattutto, casi di femminicidio?

  • Non parlare di “amore malato”: questa è un’immagine ossimorica da non usare. L’amore è l’esatto contrario della violenza, non si può descrivere un atto simile con la parola “amore”.
  • I termini Follia e Raptus sono da evitare: nessun femminicidio accade all’improvviso. Solitamente è il culmine di un’escalation di violenze protratte nel tempo. Parlare invece di “follia” fa credere che il colpevole abbia disturbi psichici, giustificando in parte le sue azioni.
  • Non è necessario descrivere il modo in cui la vittima era vestita o se aveva bevuto: in questo modo si fa credere che possa esistere una giustificazione per atti di violenza, umiliando anche la donna e la sua libertà.
  • Non bisogna descrivere in maniera molto dettagliata le violenze subite: in questo modo si manca di rispetto alla vittima, infierendo ancor di più. Per l’opinione pubblica non è rilevante sapere i minimi dettagli, l’elemento centrale è l’atto di violenza in sé. 
  • “Era un padre attento”, “Era una brava persona” non sono frasi utili: queste affermazioni, oltre che sminuire la versione dei fatti della vittima, fanno passare in secondo piano il fatto che il soggetto in questione sia una persona violenta.
  • Mai dire “Se l’è cercata”: in questo modo si colpevolizza la vittima e si giustifica il carnefice.
  • “Tradimento”, è davvero rilevante? : non esistono giustificazioni alla violenza.
  • “Avrebbe dovuto lasciarlo”: non è mai facile uscire da una relazione di abusi e violenze per motivi vari e complessi. È importante trattare questi argomenti con delicatezza.
  • Mai dare maggior spazio a delitti che coinvolgono persone estranee alla vittima: così facendo si distorce la realtà: molto spesso gli autori di violenza sono persone vicine alla vittima, mariti, fidanzati o familiari.
  • Evitare stereotipi di genere. (Sempre, non solo quando si parla di violenza e femminicidio!)
  • Evitare di raccontare il femminicidio sempre dal punto di vista del colpevole: è importante partire da chi subisce la violenza, rispettando sempre la sua persona.
  • Non censurare il nome della vittima (se consenziente), per non cancellarne la memoria.

di Beatrice Pedretti

Questo articolo è stato realizzato per la rubrica Comunicare la scienza, realizzata in collaborazione con gli studenti del Master Cose dell’Università degli studi di Parma

Riferimenti e approfondimenti bibliografici:

  • “Maledetta Sfortuna”, Carlotta Vagnoli
  • ISTAT

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