“Le parole orientano il pensiero”: l’importanza del linguaggio nel trattare il tema della disabilità

Intervista con Ilaria Ciancaleoni Bartoli, direttrice dell’Osservatorio Malattie Rare (OMaR)

Quali sono le parole giuste per parlare di disabilità o di una persona con disabilità? Abbiamo cercato di fare chiarezza sul tema anche grazie al supporto professionale della dottoressa Ilaria Ciancaleoni Bartoli, direttrice dell’Osservatorio Malattie Rare.

Le definizioni di disabilità: cosa ci dice la Convenzione delle Nazioni Unite

Innanzi tutto bisogna sapere che la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità – che si è tenuta nel 2006 – ha consolidato la definizione ufficiale da utilizzare non più “disabile” ma “persona con disabilità”. Scopo della Convenzione ONU è “promuovere, proteggere e garantire il pieno ed uguale godimento di tutti i diritti umani e di tutte le libertà fondamentali da parte delle persone con disabilità, e promuovere il rispetto per la loro intrinseca dignità”.

Il testo riporta: “Per persone con disabilità si intendono coloro che presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettive o sensoriali che in interazione con barriere di diversa natura possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su base di uguaglianza con gli altri”.  

La definizione fornita serve a fissare le nuove regole di accezione. Con questa nuova definizione si intende volgere l’accezione in positivo: se si modifica il mondo in cui si chiama qualcosa, anche la percezione che se ne ha si modifica e con essa in modo in cui ci si rapporta ad essa. Modificando ‘in positivo’ la definizione di disabilità, quindi, si modifica il modo in cui la si percepisce, fondando le basi per una società più inclusiva.

La Convenzione ONU, poi, si fonda sui diritti delle persone con disabilità, come ad esempio il rispetto per la dignità intrinseca, l’autonomia individuale, compresa la libertà di compiere le proprie scelte e l’indipendenza delle persone. Si pone l’accento sulla non discriminazione, che si fonda sulla piena ed effettiva partecipazione e inclusione nella società.

Come sempre è fondamentale insistere sul rispetto e l’accettazione: le persone con disabilità, infatti, sono parte della diversità umana e dell’umanità stessa. La Convenzione poi sottolinea inoltre quanto sia importante garantire una corretta accessibilità – ai servizi, alle strutture, alle opportunità, qualunque siano. E ancora viene sottolineata l’importanza e il rispetto dello sviluppo delle capacità dei minori con disabilità e il rispetto del diritto dei minori con disabilità a preservare la propria identità.

Regole base, ma fondanti per una cultura di rispetto, accoglienza, inclusione.

Quanto contano le parole?  Iliaria Ciancaleoni Bartoli ci riporta la sua esperienza

Una parte molto importante è il modo in cui si parla di disabilità, quindi quanto contano le parole? È davvero così importante usarne alcune piuttosto che altre, se l’intenzione è buona?

Le parole sono molto importanti: orientano il pensiero, di chi parla e di chi ascolta. L’utilizzo di parole non corrette introduce un concetto sottostante, che magari non viene colto a livello conscio, ma che resta strisciante e contribuisce alla creazione di uno stereotipo.

Perché si usano le parole sbagliate?

Il vocabolario è come un enorme contenitore, le parole sono tantissime, ma siamo abituati a usarne poche, di altre conosciamo a malapena il significato. Scegliamo quelle usuali, ma non è detto che siano quelle ‘corrette’.

D’altro canto, manca l’educazione per gestire le situazioni in modo corretto: con persone con disabilità fisica spesso si parla usando il vocabolario scorretto, con persone con disabilità intellettiva si tende a non parlare del tutto. Capita molte volte che, per esempio al ristorante, il cameriere si rivolga all’amico o al familiare di una persona con disabilità per prendere le ordinazioni. E io? Non ho proprio nessuna voce in capitolo? è la domanda che giustamente si presenta alla persona con disabilità. Eppure coinvolgere, chiedere, interagire con le persone è quanto riempie di senso un’interazione, una relazione, un contatto. Chiedere per interposta persona non fa altro che aumentare il senso di emarginazione.

Quali parole si possono usare?

Le parole sono sicuramente evolute nel tempo, con lo svilupparsi di conoscenza e di sensibilità.

Si inizia con l’interpretazione di disabilità come condizione, non di malattia. La condizione in cui sono impedite alcune attività, infatti, potrebbe essere superata con i giusti ausili: un programma di lettura, una carrozzina, un ascensore, una rampa di accesso.  Pertanto non si dovrebbero utilizzare le parole che collegano la disabilità a dolore, costrizione, incapacità. Quindi locuzioni come “costretto su una sedia a rotelle” non sono appropriate, dato che la sedia a rotelle è un aiuto alla mobilità per una persona con ridotta funzionalità degli arti inferiori.

Si dovrebbe porre l’attenzione alla persona, più che alla condizione. Nessuno di noi può essere ridotto la condizione che ha.

Un esempio semplice: anche se porto gli occhiali non piacerebbe nemmeno a me essere chiamata “la miope”

Giusto. Perché una persona è molto di più della propria condizione. Pertanto, indicare una persona unicamente con la sua condizione è limitante e non rispettoso della sua interezza, del suo carattere, dei suoi pregi e sì, anche dei suoi difetti. Immaginiamo poi di dover camminare per una stanza buia, in quel caso ad essere in una condizione limitante sarà chi da sempre è abituato a vedere, non chi, invece, è privo della vista.

E come si può fare se ci si trova spiazzati? Si evita del tutto la conversazione? Forse è meglio!

No, non è affatto meglio fuggire. In fondo basta fare la cosa più naturale del mondo: chiedere. Capita a tutti di non sapere come iniziare una relazione, come indirizzarsi a una persona con disabilità, anche di sbagliare una parola, una frase. Non c’è nulla di male a chiedere a una persona come si può fare riferimento alla sua condizione. Chiedere permette di creare un legame, mostrando rispetto e apertura per una situazione che non si padroneggia, ma che si desidera trattare nel modo più corretto.

È vero che a volte ci si riferisce a una persona con disabilità con un atteggiamento di condiscendenza, con l’attitudine del “poverino”? Perché accade?

Questo accade quando il focus della conversazione è unicamente su una persona, senza che vi sia attenzione sull’altro. Quindi gli standard che si utilizzano tengono in considerazione una sola prospettiva, attribuendo meno senso alla vita di una persona con disabilità a causa della disabilità stessa. Voglio raccontare un aneddoto che chiarisca la situazione: mi è capitato di assistere a una conversazione tra un ragazzo con ridotta mobilità agli arti inferiori che parlava con una signora, dicendo che in quel momento si sentiva proprio poco bene. La signora ha immediatamente attribuito l’affermazione alla presenza della disabilità dicendo “eh capisco, deve essere proprio difficile passare tutto il giorno in carrozzina” e invece il ragazzo ha risposto: “Ma cosa c’entra? È che ho un raffreddore terribile!”

Se si evitassero pregiudizi basati sulla propria interpretazione della vita, della qualità di vita, dell’opportunità di fare o non fare alcune cose sarebbe sicuramente tutto più semplice.  

Un pensiero finale: l’attenzione alla persona, all’individuo, ai suoi bisogni, desideri e necessità è la chiave di volta per utilizzare il giusto modo, il giusto tono, le parole giuste.

di Chiara Vieceli

Si ringrazia la Dott.ssa Ilaria Ciancaleoni Bartoli

Questo articolo è stato realizzato per la rubrica Comunicare la scienza, realizzata in collaborazione con gli studenti del Master Cose dell’Università degli studi di Parma

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