Il Nobel per la Medicina all’evoluzione umana

Come il premio a Svante Pääbo rivoluziona la storia del Nobel e ci permette di comprendere meglio noi stessi

Uno dei crucci di moltissimi studenti e professionisti di scienze naturali e paleontologia è che spesso – all’interno del panorama mediatico internazionale – le loro discipline vengano meno considerate a livello accademico e scolastico rispetto ad altri settori delle scienze, in quanto vengano ritenute più utili ambiti inerenti alla medicina, alla fisica o alla chimica per il progresso culturale e tecnico dell’intera comunità umana.

Spesso infatti anche le ricerche più interessanti, che coinvolgono l’origine della nostra specie o l’introduzione di una nuova tecnologia per sondare le rocce o i fossili, non vengono neppure menzionate dagli articoli di scienza che capita di leggere fra le pagine dei principali quotidiani.

Escludendo infatti il caso glorioso della ricerca paleontologica sui dinosauri o l’avvento delle scienze ecologiche nel dibattito pubblico sui cambiamenti climatici, sono pochissimi i casi in cui le scienze naturali ottengono risalto nelle discussioni o nei servizi televisivi dei notiziari più importanti.

In un’epoca in cui però si tendono a sopravalutare le differenze biologiche e culturali della nostra specie, con il ritorno della minaccia nucleare portata dal conflitto bellico in corso in Ucraina, che vede accrescere l’odio fra i popoli e nei confronti di coloro che poco tempo prima consideravamo nostri vicini, oggi a ciel sereno l’Accademia reale svedese delle scienze ha comunicato di aver premiato Svante Pääbo, per i meriti raggiunti nell’aver compiutoscoperte riguardanti i genomi degli ominidi estinti e l’evoluzione umana”.

Un premio molto importante, non solo per Pääbo, ma anche per tutte le scienze di base e la specie umana. Di seguito spiegheremo perché.

Un premio rivoluzionario

C’è una ragione se moltissimi scienziati e divulgatori stanno festeggiando l’assegnazione del Nobel allo scienziato svedese, che coordina il dipartimento di genetica di Lipsia del Max Plank Institute dal 1997.

Infatti questa è la prima volta in cui ricerche incentrate sullo studio dell’evoluzione dei primati, e del genere Homo in particolare, partendo dai fossili hanno raggiunto un così elevato apprezzamento internazionale da vedersi riconosciuto il merito di vincere un Nobel. E non un Nobel qualunque, ma quello in Medicina, il primo ad essere assegnato ogni anno e forse anche il più prestigioso assieme a quello per la Pace, in quanto (quasi sempre) la scoperta che viene premiata dall’Accademia svedese delle scienze è portatore di future applicazioni utili al miglioramento delle condizioni di salute dell’uomo.

Raramente difatti il premio Nobel per la Medicina è finito a scoperte non direttamente collegate a ricerche mediche o biologiche, che altresì però avevano un enorme impatto per la salute e lo sviluppo di nuove tecniche utili ad arginare gli effetti delle malattie o a migliorare le condizioni ambientali dei nostri luoghi di vita e di lavoro. Un esempio glorioso di questo tipo è stata l’assegnazione del premio Nobel per la Medicina a Konrad Lorenz, Nikolaas Tinbergen e Karl von Frisch nel 1973, per i loro studi sui componenti innati del comportamento e sul fenomeno dell’imprinting nelle oche selvatiche e la percezione sensoriale delle api.

Oggi come allora ci si potrebbe infatti chiedere: perché assegnare a tre etologi il premio Nobel per la medicina, se il loro lavoro consisteva nello studiare il comportamento animale? E la ragione starebbe sempre nell’importanza che hanno avuto le loro ricerche in merito alla comprensione dell’origine del nostro stesso comportamento; di come fosse utile alla scienza dell’epoca considerare quelle ricerche come valide, con tutte le riflessioni cliniche che si potevano di seguito sviluppare, poiché poste a confronto con gli studi psicologici e neurologici di Freud, Jung, Piaget (che tra l’altro iniziò come studioso del comportamento degli uccelli e di alcune lumache) e tanti altri permettevano di inserire il comportamento umano all’interno dell’evoluzione più complessa della coscienza animale, tanto che oggi esiste una branca dell’etologia (nota come etologia umana) che studia l’uomo come qualsiasi altra specie animale, i cui studiosi più famosi sono Jared Diamond, Richard Dawkins, Desmond Morris, Edward Wilson e Irenäus Eibl-Eibesfeldt.

Il premio assegnato a Pääbo è un riconoscimento altrettanto importante, poiché dimostra – è in realtà sta già dimostrando – come anche le ricerche di base, quelle che scaturiscono più per curiosità che per risolvere un vero e determinato problema come l’insorgenza del cancro o la diffusione del diabete, possano dare il loro contributo per fornire armi e nuove interpretazioni di determinati fenomeni, utili al perfezionamento delle nostre conoscenze mediche e della cultura della nostra specie.

Dalle mummie all’Uomo di Denisova

La carriera di Pääbo è lungi dal potersi considerare dedita alla ricerca medica.

Genetista, dottorato in Biologia all’università di Uppsala nel 1987, Pääbo cominciò a dedicarsi all’origine della nostra specie per il suo crescente interesse nei confronti delle moderne tecniche di estrazione molecolare del DNA, introdotte negli anni Ottanta da Mullis, con l’introduzione della PCR che consente di ottenere molto rapidamente elevate quantità di materiale genetico. Figlio illegittimo di un altro premio Nobel in Medicina, Sune Karl Bergström, Pääbo sembrò infatti interessarsi al suo futuro campo di ricerca perché da genetista voleva testare queste nuove tecnologie dove altri dubitavano potessero non essere usate.

Iniziò così a usare quelle che allora erano le più costose tecniche d’indagine molecolare, concentrandosi più sui reperti che sugli organismi vivi. Quello che allora si immaginava soltanto attraverso le opere di fantascienza, primo fra tutti Jurrassic Park, Pääbo lo realizzò contemporaneamente all’uscita del film, il 1993, riuscendo a sequenziare antiche sequenze di DNA antico, da alcuni reperti archeologici più preziosi del mondo, ovvero le mummie egizie e Ötzi, la mummia dell’uomo del Similaun risalente a 6300 anni fa, che fu scoperto casualmente nelle alpi nel 1991.

Pääbo in breve tempo riuscì a divenire una star internazionale, riuscendo tra l’altro a perfezionare le tecnologie di estrazione e sequenziamento del DNA antico, sviluppando insieme alla sua equipe miglioramenti metodici e tecnici ai dispositivi che oggi i suoi processi di estrazione del DNA vengono anche adoperati in altri ambiti, come la criminologia e la genetica forense.

Con l’implemento dei fondi, Pääbo a metà degli anni Novanta, con il suo trasferimento a Lipsia, decise poi di cominciare a indagare meglio l’albero filogenetico del genere umano, spostando il suo interesse verso i parenti dei nostri più vicini antenati, ovvero i Neandertaliani, che come molti sanno abitavano i territori dell’Europa e della vicina Asia Minore, durante l’era glaciale e la primissima espansione dei Sapiens nel mondo.

Traendo spunto dalle sue esperienze passate con le mummie e i reperti fossili di Mammut, di cui riuscì a identificare l’ultima popolazione mondiale in Siberia e a renderne potenzialmente possibile una clonazione, Pääbo così cominciò a estrarre sequenze sempre più lunghe e antiche di Neandertaliani, permettendo a metà della prima decade del nuovo millennio un confronto con la sequenza del progetto Genoma Umano, che aveva lo scopo di sequenziare l’interezza del nostro DNA.

I risultati da subito fecero discutere.

Come Pääbo stesso descrive ne la sua opera “L’uomo di Neandertal”, i suoi studi sui fossili inizialmente provocarono uno scandalo da parte di buona parte dei paleontologi e dei direttori dei musei di paleoantropologia, poiché il suo metodo consisteva nel “macinare o grattare” le preziose ossa fossili, ben oltre la superficie, alla ricerca di DNA neandertaliano conservato e non compromesso. Quando però cominciò a diffondersi all’esterno dell’Istituto di Lipsia che la tecnica utilizzata funzionava e le sequenze ottenute da Pääbo permettevano di svelare molti dei segreti ancora nascosti dell’evoluzione dei Neanderthal e dei Sapiens, l’interesse internazionale nei confronti delle ricerche paleogenetiche mutò.

Nature e Science cominciarono a “corteggiare” – testuali parole di Pääbo – l’intera equipe per avere in esclusiva l’articolo in cui si sarebbe pubblicata la sequenza genetica estratta di Neanderthal e l’articolo in cui Pääbo avrebbe presentato le scoperte inerenti all’origine della specie, visto che già nel 1997 lo scienziato svedese aveva confermato la presenza di sequenze neandertaliane all’interno del DNA Sapiens. Poco prima però di inviare la sequenza completa a Science, la sua equipe compii forse una delle più clamorose scoperte della biologia umana.

Pääbo e la sua equipe scoprirono che i Neandertaliani non erano così diversi geneticamente rispetto ai Sapiens, e che, soprattutto, l’evoluzione genetica dei popoli europei si discostava da quella di altri popoli, perché erano il prodotto di un flusso genetico che aveva portato gli europei a ereditare circa il 3,8% di DNA neandertaliano.

Questa scoperta da una parte ha rallentato la pubblicazione dell’articolo, ma dall’altra ha aperto un enorme buco all’interno del velo che nasconde l’origine della nostra specie. Infatti, da lì a pochi anni, a seguito di nuove scoperte fossili come quello dell’uomo di Denisova e visti i risultati sorprendenti legati alle scoperte sulla parentela esistente fra europei e neandertaliani – parentela sempre osteggiata dall’antropologia fisica classica, che limitandosi all’analisi dei reperti fossili non poteva di certo immaginare un legame di consanguineità fra i popoli del centro Europa e coloro che fino alle scoperte di Pääbo venivano considerati esclusivamente dei lontani cugini – l’Istituto di Lipsia avrebbe più volte trasformato l’idea che gli scienziati si erano fatti dell’albero filogenetico umano, portando Homo sapiens, Homo neanderthalensis e l’uomo di Denisova – da qui in avanti, i denisoviani – cronologicamente e biologicamente sullo stesso piano, dimostrando come i Sapiens siano entrati più volte in contatto con popolazioni non appartenenti alla nostra specie, sterminando il più delle volte quelle popolazioni, ma riuscendo talvolta anche ad instaurare relazioni semi pacifiche, che hanno portato le specie ad ibridarsi tra di loro, con un numero basso di nascite, ma comunque presente, che portò nel tempo il nostro genoma ad assorbire, a seguito delle ricombinazioni genetiche al momento dei vari concepimenti, parti delle sequenze neandertaliane e parti delle sequenze denisoviane in quelle regioni del mondo dove i Sapiens incontrarono le specie preesistenti.

Questa scoperta stranamente non ha condotto ad un revival delle teorie razziste, rispetto alle primissime scoperte fossili dei Neanderthal. Forse perché giustamente questo “peso” è condiviso da buona parte della popolazione di origine europea ed è riscontrabile in tutte le popolazioni bianche, le più ricche del pianeta, con percentuali via via differenti di sequenze neandertaliane all’interno dei DNA a secondo della storia genetica delle varie famiglie (le popolazioni bianche del mediterraneo hanno una minore percentuale di DNA neandertaliano a seguito dei frequenti matrimoni misti tra partner di origine europea e partner di origine africana e asiatica), che nel corso dei millenni hanno avuto notevoli possibilità di migrare e di legarsi anche con altri popoli.

Tali sequenze pubblicate da Pääbo nel tempo hanno permesso altri scienziati di scoprire gli effetti di questa nostra stretta parentela con le varie popolazioni di Neanderthal e Denisova. Fra queste si sospetta un’origine neanderthaliana nei popoli europei dei capelli rossi, della predisposizione all’obesità, della resistenza alcolica a cibi fermentati, alla minore resistenza al virus da Covid-19, alla migliore sintesi della vitamina D, ad una maggiore efficacia del sistema immunitario nel combattere malattie di origine batterica e tanto altro. Mentre per le popolazioni asiatiche imparentate con i denisoviani gli studi sugli effetti di tali sequenze sono ancora in corso.

Dallo studio dei fossili alle applicazioni etiche e mediche

Considerando i risultati, ora forse sembrerà strano come solo nel corso di questo 2022 gli scienziati dell’Accademia reale delle scienze abbiano premiato le pioneristiche ricerche di Pääbo e della sua equipe di Lipsia. Anche perché dall’articolo del 2009 che riassumeva le scoperte inerenti agli studi sui denisoviani e i neandertaliani, lo scienziato svedese ha continuato a lavorare e a pubblicare decine di articoli, che rivedevano e miglioravano le informazioni inerenti all’albero filogenetico di tutte le popolazioni umane moderne.

Oggi, tramite il confronto diretto delle sequenze e la scoperta degli specifici geni che portano svantaggi ereditari alla popolazione europea, è possibile già intercettare i soggetti più vulnerabili e si prevede che sarà possibile identificare meglio un maggior numero di persone coinvolte da rare forme di allergie e intolleranze, proprio con l’incremento delle ricerche su queste sequenze condivise.

Inoltre la scoperta di Pääbo ci ha permesso di spiegare ancora una volta una verità profonda che si nasconde dietro l’origine della nostra specie: siamo tutti simili, ma diversi l’uno dall’altro.

Infatti, per quanto la popolazione europea risulta differente dalle popolazioni asiatiche, amerinde e africane, bisogna sempre notare che la percentuale di DNA differente da quelle delle altre popolazioni è incredibilmente ridotta. Fino al 4%. Inoltre anche gli asiatici sono geneticamente differenti fra di loro, come lo sono gli stessi africani o le popolazioni indigene dell’Australia o delle Americhe, ma in tutto questo la nostra specie rimane unica, priva di razze o sottospecie e dovunque multiforme per dimensioni, colori e cultura.

Le differenze scoperte dai genetisti all’interno delle nostre sequenze bastano infatti a spiegare, a malapena, la differenza sussistente l’origine geografica di un determinato individuo. E ci propongono anche spiegazioni sulla differente capacità di alcuni popoli di sintetizzare la vitamina D o di digerire il latte o l’etanolo. Differenze genetiche importanti, a livello della storia evolutiva della nostra specie e a livello sanitario, ma che sono ridicole rispetto all’uniformità del nostro genoma che ci ricorda di essere tutti figli dell’Africa centro orientale.

Il premio Nobel per la medicina di quest’anno dovrebbe valere anche per questo ed in effetti uno dei meriti di Paabo è stato quello di porre la parola fine – come se ce ne fosse ancora bisogno – alle teorie razziste che cercavano supporto nella scienza.

I conflitti bellici che stanno avvenendo in questi mesi sono tutte delle guerre fra fratelli e sorelle. Non esiste motivazione etica nella guerra di aggressione, poiché non esiste biologicamente sulla Terra davvero nessun estraneo di cui è lecito provare odio a priori.

Abbiamo già estinto una volta denisoviani e neandertaliani. Con le minacce nucleari enunciate nei scorsi giorni, chissà se i prossimi ad estinguersi, a seguito della nostra belligeranza, non saremo altro che noi stessi. 

di Aurelio Sanguinetti

Breve bibliografia utile:

  • Barbujani G., L’invenzione delle razze: Capire la Biodiversità umana, Bompiani Boringhieri editore, collana tascabili, 2016
  • Capelewicz J., Antichi fantasmi umani nel DNA moderno, QuantaMagazine e Le Scienze online, 11 febbraio 2019
  • Condemi S., Savatier J., Mio caro Neanderthal. Trecentomila anni di storia dei nostri fratelli, Bollati Boringhieri editore, nuova edizione, 14 aprile 2022
  • Krings M., Stone A., Schmitz R.S., Krainitzki H., Stoneking M., Pääbo S., Neandertal DNA Sequences and the Origin of Modern Humans, Cell, 1997
  • Le Scienze online, Il Neanderthal che è in noi, 07 maggio 2010
  • Pääbo S., L’uomo di Neanderthal, Einaudi Editore, 2014
  • Pääbo S., A Draft Sequence of the Neandertal Genome, Science, 2010
  • Sandal M., Neanderthal e Homo sapiens, una grande differenza (forse) in una piccola mutazione, Le Scienze online, 19 settembre 2022
  • Bramanti, B., Sineo, L., Vianello, M. et al. The selective advantage of cystic fibrosis heterozygotes tested by aDNA analysis: A preliminary investigation. Int. J. Anthropol. 15, 255–262 (2000)

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