True Crime: la storia di Jeffrey Dahmer

La storia del serial killer di Milwaukee

fonte: movieguide.org

Jeffrey Lionel Dahmer, nato a Milwaukee (Wisconsin) il 21 maggio 1960, cresce in una famiglia benestante, una di quelle famiglie più attente all’apparenza che alla sostanza. Effettivamente, dietro a quella facciata di famiglia felice che i Dahmer lasciavano vedere, c’era del marcio. I suoi genitori si odiavano e giunsero, infatti, al divorzio (questo evento fu molto doloroso per Jeff). La madre, instabile psicologicamente, ingurgitava ogni tipo di pasticca sin dalla gravidanza e il padre era per lo più assente nei primi anni di vita del bambino. Da ciò si evidenzia il suo carattere schivo e solitario ed inizia a coltivare la sua prima passione: collezionare carcasse di animali che poi seppelliva nel bosco vicino casa, creando così il suo cimitero personale.

Quando il padre, Lionel, scoprì gli interessi del bambino, lo spronò in questo macabro passatempo insegnandogli le tecniche di sbiancamento delle ossa per preservare gli scheletri degli animali. Lionel credeva si trattasse di pura curiosità scientifica, eppure nel ’75 questa sua “passione” andò decisamente oltre. Infatti, quando Jeff trovò un cane morto per strada, decise poi di decapitarlo e impalare il teschio su di un bastone. Questa esperienza fece scattare qualcosa in Jeff, qualcosa di macabro.

La situazione familiare non faceva che peggiorare, culminando nella separazione (1977). Joyce, la madre, si trasferì in un’altra città con il fratellino di Jeff, David, lasciandolo solo. Ormai adolescente, Jeffrey iniziò a bere molto, arrivava a scuola ubriaco e i suoi voti non erano il massimo. Fu più o meno in questo periodo che comprese di essere gay, decise comunque di non dichiararsi poiché temeva di non essere accettato. Nonostante i voti, riesce a diplomarsi a 18 anni, nel 1978, anno in cui commise il suo primo omicidio.

Gli omicidi

La prima di una lunga serie di vittime fu Steven Hicks, un diciannovenne che faceva l’autostop per andare ad un concerto rock. Jeffrey lo attirò a casa sua con la promessa di portarlo al concerto dopo aver bevuto una birra. Dopo averne bevute un paio, il giovane Hicks, ormai spazientito, fece per andarsene, ma Jeff si infuriò al punto che colpì Steven a morte con un manubrio di 4,5 kg. Spogliò poi il cadavere e ne abusò. Per liberarsi del corpo decide di dissezionarlo proprio come faceva con gli animali, spargendone i resti in giardino, e solo in un secondo momento decise di riesumare il corpo per poi scioglierlo nell’acido e frantumarne le ossa. Quest’ultime non vennero mai trovate dalla polizia al momento delle indagini.

Dopo aver frequentato senza successo l’università pubblica, viene costretto dal padre ad arruolarsi nell’esercito, ma anche in quel contesto i suoi problemi di alcolismo rimasero invariati e, per questo, viene congedato nel 1981. Si trasferisce così da sua nonna a Milwaukee dove trova un lavoro. Per un lungo periodo di tempo riesce a tenere a freno le sue pulsioni. Inizia poi a frequentare i bar gay della città e nel 1987, proprio in uno di questi locali, incontra il venticinquenne Steven Tuomi.

Il giovane Jeff miete la sua seconda vittima. Così, in un continuo crescendo di violenza e perversione uccise in tutto diciassette persone (compresi due ragazzi minorenni, attirati nell’appartamento dell’assassino con la promessa di soldi facili in cambio di foto nude) tra il 1978 e il 1991. I metodi da lui impiegati diventavano sempre più cruenti, si trattavano di atti di violenza sessuale, necrofilia, cannibalismo e squartamento.

fonte: modusoperandicrime.it

L’ultimo tentativo di omicidio da parte di Jeffrey Dahmer risale al 22 luglio 1991. Il serial killer aveva invitato a casa un ragazzo, si trattava di Tracy Edwards. Jeffrey somministrò a Tracy una dose di sonnifero e lo ammanettò in camera da letto. Tracy, accortosi della presenza di foto di cadaveri smembrati appesi ai muri e un insopportabile odore di marcio proveniente da un barile, cerca di liberarsi riuscendo nell’intento. Fugge dall’appartamento di Jeff e chiede aiuto ad una pattuglia di polizia. La scena che trovano gli agenti al loro arrivo presso l’appartamento di Dahmer era a dir poco raccapricciante: vennero trovati resti umani nelle pentole, il barile di acido dove scioglieva i resti delle vittime, teschi umani dipinti, due cuori umani conservati in sacchetti e peni conservati in formaldeide. Dopo una breve colluttazione Jeffrey fu immobilizzato e dichiarato in arresto, condotto in prigione in attesa del processo.

Il processo di Dahmer ebbe inizio il 30 gennaio 1992 a Milwaukee. Risultò colpevole per 15 capi di accusa e il 13 luglio del ’92 fu condannato alla pena dell’ergastolo per ogni omicidio commesso totalizzando 957 anni di prigione.

Subito dopo la condanna, rinchiuso nel Columbia Correctional Institute di Portage, si convertì al cristianesimo.

Era tardi per il perdono? I suoi compagni di carcere tentarono più volte di spedirlo all’altro mondo fino al 28 novembre del ’94, quando venne colpito da Christopher Scarver (un detenuto sofferente di schizofrenia) lo colpì con l’asta di un manubrio trafugata dalla palestra del carcere.

Dahmer è morto all’età di 34 anni, nello stesso modo in cui aveva ucciso la sua prima vittima.

La serie

Che altro ci sarebbe da dire sul Cannibale di Milwaukee? Documentari, serie tv, film, libri e tanto altro hanno narrato la storia da brividi di questo spietato serial killer ma nessuno lo ha fatto come Ryan Murphy in Dahmer- Monster: The Jeffrey Dahmer Story (disponibile su Netflix).

Jeffrey, interpretato da Evan Peters (già famoso per i suoi ruoli in American Horror Story), in questa trasposizione viene inquadrato spesso dall’alto così che la stranezza dei suoi tratti vengano amplificati. I movimenti del corpo lenti e rigidi, la camminata meccanica con il busto proteso in avanti imitati alla perfezione dal pupillo di Ryan Murphy.

fonte: 4news.it

Il male di solito viene rappresentato come un qualcosa di animalesco, e gli sceneggiatori hanno cercato di sottolineare questa caratteristica nel titolo con la parola mostro.

Nella serie si nota come nel corso degli anni Jeffrey Dahmer avrebbe potuto essere fermato. Effettivamente aveva già violentato un minore, era stato poi arrestato per atti osceni in luogo pubblico, ma il giudice era stato sempre clemente con lui.

Dahmer, alto, biondo, occhi chiari e bianco è contrapposto alla figura della vicina Glenda Cleveland, donna afroamericana, che dopo le innumerevoli chiamate al 911 senza risposta perde quasi la speranza di vedere il suo vicino da brividi dietro le sbarre.

La storia di Jeffrey Dahmer è la storia di un ragazzo che è riuscito ad uccidere 17 persone senza farsi scoprire perché tutti erano impegnati a mantenere la propria facciata di rispettabilità. Un ragazzo solo, dalla vita vuota e con problemi di alcolismo. Quindi, la domanda che sorge spontanea è: dopo tutto quello che ha vissuto, possiamo considerarlo un mostro? .Sì, era un omicida. Ma l’accezione “mostro” è giusta per lui? Dahmer uccideva perché non era in grado in intrattenere relazioni umane, aveva paura dell’abbandono perché non aveva avuto una madre amorevole al suo fianco nei momenti difficili.

Nella serie, d’altro canto, viene descritto come un mostro assetato di sangue, tant’è che in una scena abbastanza splatter, beve un bicchiere di sangue di una sua vittima davanti ad uno specchio. Forse questo ha reso la faccenda un po’ troppo fiction. Lo spettatore in questo caso rimane tranquillo, non curante perché pensa che non potrà mai fare cose del genere.

Considerando invece il vero Jeffrey, con il vuoto che aveva dentro e la solitudine che lo circondava forse potremmo pensare che ci siano delle attinenze con le nostre vite. Questo terrorizza vero? Il male spaventa e soprattutto quando si parla di fatti realmente accaduti, guardiamo tutto con occhi diversi. Il male spaventa perché è normale.

Le atmosfere dark, le luci soffuse e i colori scuri ci inondano gli occhi di claustrofobia. I primi piani lenti ci fanno sentire intrappolati forse come le vittime o forse come Jeff nella sua mente. I dialoghi brevi e scarsi fanno percepire il senso di solitudine che contraddistingue la personalità del protagonista.

fonte: today.it

Dahmer, a differenza delle altre serie, non si concentra solo sul susseguirsi degli eventi ma ci dà la possibilità di allargare la percezione che abbiamo della vicenda. Questa infatti non è solo una serie biografica ma è prodotto della critica sociale e lo possiamo vedere attraverso il personaggio di Glenda (interpretata da Niecy Nash, comica e attrice statunitense).

Nonostante risulti difficile riuscire ad empatizzare con Jeff, nello spettatore si crea inconsciamente una speranza, quella del cambiamento, di una redenzione. Sebbene l’idea di Murphy non sia stata quella di suscitare tenerezza nei confronti del vero Dahmer, diventa naturale quasi comprendere il suo tormento interiore e la sua incapacità nell’adattarsi. È proprio per questo che è una serie tv che fa male.

Una cosa che colpisce è la mancanza di eccesso, nonostante il fattore shock sia più che diffuso nel corso delle puntate, l’atmosfera di base è tranquilla ed è proprio questo che la rende inquietante.

In conclusione, risulta estenuante arrivare al momento in cui esala l’ultimo respiro sul pavimento della palestra. Lionel, il padre di Jeffrey (interpretato da Richard Jenkins, attore settantacinquenne con alle spalle una carriera ricca di film e programmi tv) versa le sue ultime lacrime di dolore dopo la morte del figlio. Tormentato dall’ansia e dai sensi di colpa per aver cresciuto un serial killer sceglie anche di scrivere un libro su come aiutare i genitori a non allevare un serial killer.

C’è da dire che questo progetto ha risvegliato l’interesse per il True Crime e in particolare sul Cannibale di Milwaukee. Oltre a questa serie e alla docuserie del ciclo Confessioni di un killer, entrambi su Netflix, Amazon Prime Video propone il film Dahmer: il cannibale di Milwaukee (2002).

di Sara Dell’Infante

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