La riconferma di Xi Jinping a capo della Cina: quali conseguenze?

Riconfermato per il suo terzo mandato, diventa il leader più longevo del Partito Comunista Cinese. Il suo discorso ha fatto sollevare dubbi sul futuro dei cittadini cinesi e in particolare sull’autonomia di Taiwan e le possibili risposte delle altre potenze mondiali

Sabato 22 ottobre 2022 si è concluso il ventesimo congresso nazionale del Partito Comunista Cinese.
A seguito della chiusura dei lavori del congresso, domenica 23 ottobre è stato riconfermato, per il suo terzo mandato, Xi Jinping al ruolo di Segretario Generale, Presidente della Repubblica Popolare e capo delle Forze Armate.

Al contempo sono stati rinnovati i sette membri del comitato permanente del Politburo, eliminando tutti quegli elementi anche solo lontanamente contrari ad alcune scelte e posizioni del Presidente, stabilendo al loro posto una serie di uomini, tutti estremamente vicini a Xi Jinping.

Il comitato permanente del Politburo è di fatto l’organo esecutivo tramite cui il Presidente governa il paese. Si tratta di un gruppo ristretto di uomini scelti – in questo momento si contano solo sette persone tra le sue fila – il cui operato è in realtà molto poco chiaro da un punto di vista esterno.

Grazie a questo ulteriore rinnovo, Xi Jinping è divenuto il leader più longevo del partito, arrivando ad eguagliare il noto Mao Zedong: presidente del Partito Comunista Cinese dal 1943 fino alla sua morte, avvenuta nel 1976, periodo nel quale dà pieno sfogo allo sviluppo delle sue teorie politiche. Tali teorie – che vanno a comporre la dottrina cosiddetta del Maoismo – si basavano sul riconoscere la classe contadina come motore della rivoluzione.

La riconferma di Xi Jinping per un terzo mandato è davvero inusuale e potrebbe risultare addirittura problematica.
La politica interna cinese è stata regolata sul massimo di due mandati, per cui dopo 10 anni al potere il presidente sarebbe dovuto essere sostituito. Ciò non è ovviamente accaduto, dato che il limite dei due mandati fu eliminato con una riforma della Costituzione nel 2018, promossa dallo stesso Xi. Tale limite era stato imposto – e rispettato per ben 40 anni – per evitare il ritorno di derive autoritarie, come fu per Mao Zedong.

Prima di addentrarci nelle problematiche scaturite da questo evento, è bene fare un passo indietro, ripercorrendo i tratti fondamentali e la storia del Partito Comunista Cinese.

Il Partito Comunista Cinese ieri e oggi

Il PCC fu fondato a Shanghai nel luglio del 1921, ma i fermenti politici che lo portarono al potere risalgono a ben prima: la Cina, infatti, nei primi anni del Novecento era in ginocchio a causa dell’imperialismo occidentale e giapponese che aveva causato una disgregazione politica accentuata.

Tra il 23 e il 31 luglio del 1921 ci fu il primo congresso nazionale del Partito Comunista Cinese, durante il quale fu stilata la Costituzione del partito e furono fissati gli obiettivi, basati sull’ideologia comunista che fondava la stessa Unione Sovietica.

Torniamo al presente e alle problematiche legate a questo terzo mandato presidenziale: a livello superficiale, le prime conseguenze che potrebbero emergere – e che già stanno emergendo anche secondo diversi osservatori internazionali – riguarda l’accentramento del potere su un’unica figura, ossia quella del Presidente. Questo accentramento metterebbe ulteriormente a rischio la libertà dei cittadini cinesi.

Se si presta però attenzione al discorso che Xi Jinping ha tenuto proprio durante la riconferma al congresso, sono ben visibili ulteriori rischi, estremamente profondi: in primis l’autonomia di Taiwan.

Taiwan è un paese non riconosciuto come tale a livello internazionale, men che meno dalla Cina. Il paese si proclamò indipendente dalla Repubblica Cinese nel 1949, stesso periodo in cui Mao Zedong proclamò invece la nascita della Repubblica Popolare, dopo che Chiang Kai-Shek – membro del partito avversario denominato Kuomitang (KMT) – scappò dalla Cina e si rifugiò appunto nell’isola di Formosa.

Xi ha espressamente fatto riferimento alla perduta autonomia di Hong Kong e a come le “ruote della storia” si stiano allineando verso la presa di controllo da parte di Beijing su tutto il territorio cinese.

Così come era per Hong Kong, il partito vorrebbe controllare il paese seguendo la politica detta del “un paese – due sistemi”. Taiwan non solo non vuole perdere la propria indipendenza, ma è anche restia a credere alle parole del presidente, visto il destino che il partito ha riserbato alla città di Hong Kong.

Xi Jinping, inoltre, ha non molto velatamente attaccato gli Stati Uniti per il supporto che questi ultimi forniscono a Taipei, la capitale dell’isola. Infatti, per quanto nessun paese a livello internazionale riconosca l’autonomia Taiwanese, molti paesi – tra cui soprattutto gli U.S.A. – si sono detti pronti a difenderne la libertà.

Nei mesi precedenti a questa dichiarazione, le tensioni tra Stati Uniti e Cina sono cresciute, tra le altre cose, anche per questo motivo: dalle dichiarazioni poco pacate del presidente Biden, fino alla visita ufficiale a Taipei da parte di Nancy Pelosi – official speaker della Casa Bianca – Taiwan rischia di diventare così un sanguinoso campo di battaglia per lo scontro tra le due superpotenze mondiali.

Non resta dunque che aspettare e vedere dove si posizioneranno le altre potenze, in particolari quelle europee, nei confronti di Taiwan e Stati Uniti, anche se alcune alleanze – come quella tra Cina e Russia – sono già ben visibili e prevedibili.

di Martina Leva

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