La scienza del voto: perché destra e sinistra non si capiscono? La lezione del prof Favero

Dai comportamenti delle zebre a quelli dei terrapiattisti, dal voto dei conservatori a quello dei progressisti: tutto quanto viene condizionato dalla struttura del nostro cervello

“Avete mai notato come sembri che gli elettori di destra e quelli di sinistra non riescano mai a parlarsi?”

Con questa domanda il professor Gino Favero, docente del dipartimento di Scienze economiche e aziendali dell’Università di Parma, apre uno degli incontri che danno vita agli Aperitivi della conoscenza dell’Università di Parma, seminari di carattere divulgativo aperti a tutti i cittadini ogni mercoledì alle 17:30 presso il ParmaUniverCity Info Point, al Ponte Romano.

Partendo dalla ricerca americana datata 2011, Political orientations are correlated with brain structure in young adult (di Ryota Kanai, Colin Firth e colleghi) il docente cerca di rispondere al quesito. Il professor Favero spiega quindi che gli elettori di entrambe le parti ragionano con procedimenti mentali diversi gli uni dagli altri, ma simili fra loro, “riuscendo quindi a parlarsi tra individui di uno stesso gruppo, ma rendendo difficile il dialogo tra un gruppo e l’altro”; precisando che i gruppi di cui lo studio americano parla sono i conservatori e gli innovatori (cioè quelli che negli USA sono i democratici o progressisti).

Ma le etichette non sono mai legge immutabile, infatti “ogni individuo deve essere considerato come unico, e non possono esistere classificazioni categoriche delle persone. Quindi i risultati dello studio non sono giudizi o sentenze inappellabili, ma una serie di elementi sulla base dei quali possiamo tentare di capire meglio come possiamo agire per superare un po’ di incomunicabilità o difficoltà”.

“Scegliere è vivere” (o meglio, sopravvivere)

“La vita è fatta di scelte, o meglio, noi siamo il prodotto delle nostre scelte: non c’è una scelta giusta o sbagliata, poiché queste sono sempre le conseguenze dei nostri procedimenti mentali”. Ragionamento meno immediato, inoltre, è che scegliere non è semplicemente vivere, ma è (per la maggior parte) sopravvivere: un esempio lampante ci viene dato dalla natura, immaginando, banalmente, un gruppo di zebre che deve scegliere se dissetarsi rischiando di diventare preda o non farlo e morire disidratato. 

Queste scelte vengono fatte, più o meno inconsciamente, anche in base al gruppo più prospero, funzionale e, insomma, migliore, per poi replicarne gli schemi di comportamento. L’emulazione, poiché scegliere è vivere, è un istinto innato in tutti gli esseri viventi e senzienti, i quali hanno sviluppato un tratto evolutivo comune: “Sono tutti programmati per cercare di sopravvivere, prosperare e riprodursi, incluso l’uomo, basandosi sulle informazioni a disposizione, che vengono filtrate dai ricordi e dalle percezioni”. Favero specifica che questo non vuol dire che gli animali abbiano le nostre stesse sensazioni o pensieri, ma che il meccanismo di scelta, innestato nel nostro cervello e facente parte della struttura cerebrale, è essenzialmente lo stesso, il quale viene definito ‘Circuito della ricompensa’.

Il cervello è rappresentato in aree funzionali, ma solo due sono importanti ai fini di spiegare il circuito della ricompensa: la corteccia cingolata anteriore e l’amigdala. La corteccia cingolata anteriore ha come funzione quella di fornire informazioni per il controllo delle reazioni delle emozioni, ovvero se la reazione che ci verrebbe istintiva sia più o meno adatta al contesto, area più razionale che tende a creare alternative; viceversa, l’area dell’amigdala, una delle parti più antiche del cervello, ha la funzione di presiedere nella memoria emotiva e nell’apprendimento emotivo, servendo così a legare ricordi ed emozioni, risultando più emotiva e protettiva nei confronti di quello che è a lei conosciuto. 

Nel circuito della ricompensa, quando c’è da fare una scelta, entrambe le aree entrano in funzione: “La corteccia cingolata anteriore darà valutazioni più razionali, valutando i pro e i contro, l’amigdala darà invece valutazioni in base alla sua memoria e tradizione. In caso di disaccordo fra le due parti, sarà l’ippocampo (anch’esso all’interno del circuito) a dare un ‘punteggio’ all’area che ha dato un esito vantaggioso, dandogli anche ‘fiducia’, e la probabilità che venga presa più in considerazione dell’altra area per scelte successive. Tuttavia, se una scelta ‘va a finire male’ si innesca la paura, reazione che risponde alla parte più emozionale del circuito, ovvero l’amigdala, che verrà alla fine comunque premiata; per questo motivo “la struttura cerebrale è plastica, e si modifica nel tempo, a seconda di ciò che noi decidiamo di farle fare” spiega il docente.

Secondo queste scoperte, quindi, lo studio americano divide la popolazione votante in due gruppi: innovatori e conservatori, dove gli innovatori sono il gruppo il cui posizionamento nel circuito della ricompensa è sbilanciato verso la corteccia cingolata anteriore, mentre i conservatori verso l’amigdala.

“Si può nascere incendiari e morire pompieri”: le differenze fra innovatori e conservatori  

Riducendo le differenze di pensiero dei gruppi a due slogan, potremmo dire che: “Gli innovatori scelgono continuamente di cercare di elaborare dati per capire il mondo, i conservatori, invece, pretendono che il loro meccanismo di comportamento, che ha sempre funzionato, debba continuare ad essere socialmente accettato pensando che sia il mondo a dover ‘capire me’”. 

Per questo motivo, “una volta che una persona ha smesso di voler capire il mondo, è difficilissimo trovare motivazioni per cominciare o ricominciare a farlo. Di conseguenza è molto facile morire da pompiere, anche se si è nati incendiari” 

A questo punto sorge spontanea la domanda: come nasce un incendiario se è alla fine è più probabile morire da pompiere? Ci sono altri fattori che influenzano le nostre scelte. Uno di questi è la famiglia.

“Molto dipende dal tipo di famiglia in cui si viene cresciuti: una famiglia di innovatori tenderà ad interagire con i figli basando il proprio rapporto sulla fiducia, con lo scopo di portare il figlio ad essere soddisfatto di sé stesso, viceversa, la famiglia conservatrice tenderà a basare il rapporto sulla gerarchia e sulla paura della punizione in alcuni casi, poiché lo scopo è creare una persona sicura di sé ed autosufficiente. Entrambe sono ragionevoli scelte educative, ma porteranno a crescere persone diverse” spiega Favero. 

Bisogni primari: appartenenza, distinzione e verità assolute 

Oltre all’atteggiamento individuale e all’influenza della famiglia, è indispensabile l’interazione con il gruppo: l’uomo è un animale sociale e l’organizzarsi in gruppi soddisfa alcuni bisogni psicologici che sono primari nell’individuo. L’appartenenza e la distinzione del proprio gruppo dagli altri sono due di questi bisogni e vengono espressi soprattutto attraverso l’assunzione a verità assolute di tesi condivise. “Non è importante che queste verità assolute siano verificabili ed abbiano un fondamento logico e scientifico, basta che siano condivise dal gruppo.”  

Si spiega così l’esistenza di gruppi come i terrapiattisti, i quali rifiutano l’esistenza di dati scientificamente riconosciuti, facendo diventare la loro teoria della ‘terra piatta’ una realtà indiscutibile. L’appartenenza ad un gruppo può arrivare ad alterare la memoria, le valutazioni e perfino il giudizio sulle percezioni, questo perché la lealtà al gruppo vale più della realtà, facendo sì che più che i veri dati, siano le elaborazioni che facciamo attorno ad essi ciò che conta.

In effetti, la realtà percepita su cui basiamo le nostre scelte non è solo sovrastimata, ma spesso può essere convenientemente sostituita dalla pura evocazione della realtà. “La conseguenza della perfetta intercambiabilità fra la realtà e la sua evocazione è che non importa chi sia a pronunciare una determinata informazione, ma da chi viene ascoltata, e a che cosa questo la associa”.

E’ più difficile quindi tenere insieme un gruppo di innovatori o di conservatori? Sicuramente la prima, perché gli innovatori generalmente pretenderanno che i vertici accettino di essere sempre messi in discussione e che giustifichino sempre le loro scelte sulla base dei dati, confrontandolo con altre possibilità; viceversa, per i conservatori questo non è un problema: scelgono un leader e ci ripongono tutta la loro fiducia, poiché è la gerarchia ad essere importante.

Parlarsi fra gruppi diversi richiede l’adozione di un metodo comunicativo che non è proprio del gruppo a cui apparteniamo e al quale non siamo abituati, mettendo anche in conto che potrebbe non esserci la disponibilità al confronto; infatti, è per questo che la comunicazione tra innovatori e conservatori è difficilissima.”

Infine, Favero conclude: “Tutti noi, che lo vogliamo o no, siamo chiusi in una gabbia, in gran parte autocostruita o costruita insieme al nostro gruppo di riferimento. Può darsi che questa gabbia ci vada bene così com’è, e che il nostro schema mentale ci appaghi, ma se per caso, al contrario, non ci dovesse andare bene, è importante sapere che nulla è definitivo, poiché noi non siamo vincolati né ai cassetti in cui veniamo collocati, né alle etichette che ci vengono affibbiate”.

Alla fine non c’è un modo giusto per tutti, ma si tratta di capire che cosa ti rende felice, forse l’unico scopo serio della vita”.

di Beatrice Guaita e Lorenzo Urbanetto

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