Petrelluzzi e Catricalà portano a Parma “Un giorno in pretura” e l’importanza di una corretta narrazione dei femminicidi

Il femminicidio è, sfortunatamente, un tema ricorrente del giornalismo italiano, ma non sempre viene affrontato correttamente. Roberta Petrelluzzi e Annamaria Catricalà raccontano l'importanza della sensibilità nella narrazione di questi casi

In un momento così difficile per tutte le donne del mondo, è doveroso parlare del 25 novembre, individuare questa giornata come punto di partenza per una conversazione sana sulla realtà delle donne, sulle discriminazioni e gli abusi che subiscono in ogni ambito della loro vita, perchè, come dice la giornalista Petrelluzzi “mai come ora le donne stanno soffrendo” e “non bisogna mai smettere di difendere i propri diritti” aggiunge Catricalà.

Per parlare di questi temi si è svolto a Palazzo del Governatore di Parma un incontro organizzato dall’Assessorato alle Pari Opportunità del Comune di Parma. E proprio in virtù della delicatezza dell’argomento, l’incontro ha avuto come protagoniste la giornalista Roberta Petrelluzzi e la direttrice Rai Annamaria Catricalà, intervistate da Veronica Valenti, docente di Diritto delle Pari Opportunità dell’Università di Parma.

L’evento è stato introdotto dall’Assessora alle Pari Opportunità del Comune di Parma, Caterina Bonetti, e dall’Assessora regionale Barbara Lori, che hanno sottolineato l’importanza di questa giornata, della prevenzione contro le violenze di genere e delle reti di aiuto territoriali. “Parma si pone come territorio coeso nella lotta contro la violenza, offrendo luoghi sicuri e di aiuto per coloro che sfortunatamente ne soffrono”. Bonetti ricorda, inoltre, l’importanza di un giornalismo d’inchiesta che deve essere rispettoso e delicato quando parla di donne e della violenza che subiscono; che deve essere guidato dalla volontà di non rendere le protagoniste di abusi vittime due volte.

Due grandi donne ed un grande programma

Roberta Petrelluzzi è nota a tutti gli appassionati di cronaca nera grazie al suo famosissimo programma “Un giorno in pretura“, che conduce e dirige sapientemente dal 1988, diventando l’icona del sabato notte noir di Rai 3. Figura fondamentale, accanto a quella di Petrelluzzi, è Annamaria Catricalà, dirigente Rai e capostruttura di diversi programmi crime.

Roberta Petrelluzzi sul set di “Un giorno in pretura”

Un giorno in pretura nasce nel 1988 e riporta nelle televisioni degli italiani casi di cronaca nera e altri casi giudiziari, rappresentando in modo fedele quella che è la vita del tribunale. Alla narrazione del fatto vengono affiancate le testimonianze di chi è coinvolto, ma anche delle più che utili spiegazioni delle dinamiche legali che si presentano allo spettatore. È la giustizia a portata di tutti, raccontata e spiegata per rendere chiunque partecipe. La volontà che sta dietro al tipo di narrazione del programma è quella di dare lo stesso spazio e la stessa dignità ad entrambe le parti coinvolte, vittime e indagati, senza creare “mostri” in chi commette il reato. Obiettivo che scaturisce da una forte fiducia nella giustizia e nell’idea che chi sbaglia deve pagare, ma sempre in modo giusto e mai eccessivo.
Proprio a riguardo di ciò Petrelluzzi spiega che “con Un giorno in pretura abbiamo cercato di far capire in tutte le parti un processo giudiziario cercando sempre di non criminalizzare nessuno. Perché non ci sono i mostri, ma uomini che sbagliano e devono pagare per quello che hanno fatto. Bisogna che le leggi siano in grado di punire, ma che la pena sia percepita soprattutto come giusta. Non ci deve essere accanimento, ma sempre rispetto“.

Un giorno in pretura: lo specchio della nostra società

Locandina di “un giorno in pretura”, programma di Roberta Petrelluzzi

Il programma è senza dubbi molto longevo e di conseguenza sembra quasi scontato chiedersi come sia possibile e da che cosa derivi questo grande successo così duraturo nel tempo. Secondo Annamaria Catricalà “la cronaca nera è uno dei generi che di più riscontra gradimento tra il pubblico e credo che avvenga perché si mostra la parte morbosa dell’umanità. Mi sono fatta l’idea che la fortuna di tutte queste trasmissioni e letteratura giallista o serie TV Crime derivi dal fatto che ognuno di noi vuole cercare di capire dove si alberga il male. Il successo di Un giorno in pretura è dato dal fatto di essere riuscito a creare un real thriller, trasformando centinaia di ore di processo in un racconto che tiene in sospeso, come un giallo, nonostante resti attinente ai fatti. Ci piace perché attraverso questo programma scopriamo come è fatta la nostra società”.

“Elemento fondamentale per questa indagine – aggiunge Catricalà – è anche il montaggio, in quanto restituisce l’umanità di coloro che sono coinvolti, ma anche la loro cultura, che nei casi di femminicidio o di violenza di genere sembra essere profondamente radicata nel patriarcato”.

Annamaria Catricalà
Foto di Rai3

Parlare di femminicidio: tanto necessario quanto difficile

Le vittime, tendenzialmente, si ritrovano a ricevere più ascolto ed attenzione rispetto ai loro carnefici, a meno che queste vittime non siano donne. In questo caso specifico risulta lampante l’empatia che l’uomo, colpevole, riceve socialmente, anche tramite i media, ma anche dalle donne, che spesso tendono a voler vedere il buono negli altri ed autoconvincendosi di poter “salvare” gli uomini che compiono questi atti di estrema violenza. Petrelluzzi a questo proposito sostiene che “chi ha più attenzioni per gli uomini sono proprio le donne” sottolineando ulteriormente come le donne sentano una sorta di responsabilità nei confronti degli uomini.

Petrelluzzi riflette poi su un caso di cronaca molto triste, la vicenda di Saman Abbas, ragazza pakistana residente nel reggiano uccisa dai parenti perchè rifiutava il matrimonio combinato: “Per Saman c’è stato un racconto di stampo razzista, un’indignazione nata per colpevolizzare un’etnia che riteniamo peggiore della nostra e non per sostenere la dignità stessa della donna. Se la ragione non fosse questa, non si spiega come mai non ci sia stata una forte manifestazione nazionale contro le violenze che stanno subendo le donne dello Yemen o Iran. Quanta indignazione abbiamo avuto per Giulio Regeni? È stato giusto indignarsi, ma non vedo nessuna mobilitazione per queste donne. Non è un momento buono per il mondo: sempre più donne, ovunque, vengono sottomesse e subiscono violenze di ogni tipo”.

Catricalà fa notare come in Italia venga usata una terribile modalità di narrazione dei femminicidi che porta alla vittimizzazione secondaria. Di questa predisposizione italiana se ne è accorta anche la Commissione Europea, che nel maggio 2021 ha accusato e richiamato l’Italia per questo comportamento. Questa accusa parte dal caso di violenza sessuale del 2008 a Firenze ai danni di J.L., all’epoca dei fatti 22enne, che venne abusata sessualmente da sette ragazzi mentre si trovava in uno stato di ubriachezza. Il Tribunale di Firenze, inizialmente, condannò sei dei sette imputati, valutando credibili le accuse della donna. Sfortunatamente, però, la Corte d’Appello di Firenze ribaltò la sentenza, definendo le dichiarazioni della donna non idonee a provare il dissenso al rapporto sessuale o le sue condizioni di inferiorità psico-fisica. Viene sostenuto, per quanto riguarda il mancato consenso al rapporto, che: “Se fino all’uscita appunto la [giovane] non aveva palesato particolare fastidio per le avances ricevute, e si era fatta condurre o sorreggere fino all’auto, se poi era rimasta come in trance, “inerme”, “come un qualcosa in balia della corrente”, mentre gli altri effettuavano diverse e ripetute manovre lascive ed invasive su di lei, […] allora non può che dedursi che tutti avevano male interpretato la sua disponibilità precedente, orientandola ad un rapporto di gruppo che alla fine nel suo squallore non aveva soddisfatto nessuno, nemmeno coloro che nell’impresa si erano cimentati. E qui davvero non vi è alcuna cesura apprezzabile tra il precedente consenso ed il presunto dissenso della ragazza che era poi rimasta “in balia” del gruppo (“ho proprio staccato la testa, ho pensato di essere morta… non pensavo più, non guardavo più”)”. La corte si sente anche in dovere di esprimere un giudizio sulla personalità della vittima, sottolineando come la ragazza avesse un rapporto complesso con il sesso, ricordando a tutti la sua partecipazione ad un workshop chiamato “sex in transition” dopo i fatti o la sua partecipazione antecedente ad essi ad un film splatter che mostrava scene di sesso e violenza, rispondendo bene a tutto ciò. In merito a questo caso specifico, i Giudici della Corte Europea, sottolineano la violazione della sfera privata, della dignità e della personalità di J.L., in particolar modo quando vengono fatti riferimenti alla sua sessualità o al colore della sua biancheria intima.

La vittimizzazione secondaria è definita come “vittimizzazione che non si verifica come diretta conseguenza dell’atto criminale, ma attraverso la risposta di istituzioni e individui alla vittima“, ciò implica una narrazione sbagliata dei fatti, che spesso include dettagli sulle vite private delle vittime che non sono pertinenti all’accaduto e che sfociano in quella mentalità per cui “se l’è andata a cercare”.

La vittimizzazione secondaria ha evidenti ripercussioni sulle vite delle donne che la subiscono, che sono sempre più evidenti e frequenti. Questa paura di una possibile ripercussione sulla propria vita è sicuramente uno degli aspetti che impedisce alla donne di denunciare un abuso o di chiedere aiuto liberamente. Nasce una forte sfiducia delle donne nei confronti delle istituzioni e della sociatà; e questo sconforto viene anche alimentato dalle poche manovre economiche che vengono pensate per coloro che si trovano in situazioni di violenza o abuso domestico, spesso legati al proprio carnefice dalla dipendenza economica.

Dall’esterno risulta molto più facile riconoscere i sintomi di una violenza di genere, in quanto spesso le storie di femminicidi hanno in sè moltissimi aspetti comuni: l’allontanamento del partner dagli affetti come famiglia e amici, forte gelosia che sfocia nell’isolamento della vittima che si ritrova sola e senza supporto, spesso diventando totalmente dipendente dal proprio carnefice. Esempio di queste modalità è la storia di Janira d’Amato, vittima di femminicidio da parte del proprio ex fidanzato, raccontata da “Un giorno in pretura” e ricordata anche durante l’incontro a Parma. La narrazione della vicenda lascia senza parole, sia per l’evento – raccontato dalla famiglia, dagli amici e dall’assassino stesso- che per quelle metodologie che si ripetono nei casi di violenza sulle donne, quelle dinamiche che sembrano essere inevitabili. Petrelluzzi racconta la storia di Janira, come quelle di tante altre donne, con delicatezza, con dignità e rispetto, senza mai giudicare le azioni delle vittime o insinuare dubbi su ciò che le ha spinte a restare in una situazione di disagio. Creando quindi una narrazione che tutela le donne, le vittime e i familiari, dando dignità alle loro storie.

Ma la vittimizzazione secondaria, di chi è colpa? Catricalà individua la causa di questa reazione alla violenza sulle donne a come questi abusi vengano raccontati dai media tradizionali, alla volontà di raccontare e mostrare sempre tutto, senza pensare a chi vive questi traumi. Ciò accade anche a causa dei direttori di programmi o di testate giornalistiche che non danno e non delineano linee guida chiare su come trattare un tema così complesso e delicato come il femminicidio.

Il giornalismo italiano si ritrova spesso a dover affrontare tematiche legate alla violenza di genere e, sfortunatamente, altrettanto spesso non ha i mezzi per parlarne correttamente, trasformando l’informazione di servizio pubblico in qualcosa di dannoso per le vittime e i loro cari. In virtù della mancanza di mezzi adeguati alla corretta divulgazione ed informazione sul femminicidio, Valenti sottolinea l’importanza dell’educazione e della necessità di parlare all’interno di scuole ed università della violenza di genere: “Tutto sta anche nel modo in cui si narra la violenza di genere. È necessario che se ne parli tanto nelle aule di tribunale quanto nelle aule di scuole e università. La vittima non deve essere mai vittima due volte, quindi la società deve raggiungere la giusta consapevolezza”.

Catricalà, a proposito della comunicazione, commenta: “Non sono ottimista sul futuro della comunicazione, soprattutto dei media tradizionali come la Rai che dovrebbe avere il compito di farci conoscere il mondo e le sue culture diverse, ma oggi non lo fa più. I giovani scoprono il mondo grazie a internet e i social. La società in cui viviamo è molto più tollerante della televisione e dei media che la raccontano”.

Alle nuove generazioni di giornalisti e alle donne: “Raccontate il mondo e difendete i vostri di diritti”

L’incontro si conclude con un augurio ed un invito di Roberta Petrelluzzi a tutte le nuove e future generazioni di giornalisti, in particolar modo alle donne. Un invito ad essere giornalisti attenti, compassionevoli e consapevoli, con una forte voglia e volontà di raccontare il mondo nel miglior modo possibile. Un augurio pieno di speranza legata ad un’informazione completa e umana, che parli di donne in modo giusto e dignitoso. Che non le racconti sempre e solo come vittime, ma anche come vincitrici, perchè in fondo le donne, negli ultimi cinquant’anni in Italia, hanno lottato, ma soprattutto hanno vinto.

Annamaria Catricalà sprona tutte le donne a non smettere di difendere i loro diritti e di tenersi informate su ciò che accade nel mondo, in quanto in tante parti del mondo le donne stanno perdendo la loro libertà. Ricorda alle donne italiane di non dare per scontato ciò che hanno, in quanto l’Italia non è un’isola felice e ciò che ci è stato dato può esserci tolto molto facilmente. Bisogna fare della difesa dei diritti un valore fondamentale e vitale.

di Annachiara Barotti

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