Albi, l’artista senzatetto per scelta fa tappa a Parma

Tra casa e strada, tra sangue e vita, tra arte e bellezza. Il perfomer racconta il suo linguaggio artistico che vede il suo corpo (e spesso il dolore) come protagonista delle sue opere

Pur essendo nato, con tutti gli agi del caso, in una normalissima famiglia modenese, Albi Guaraldi ha deciso di essere un clochard, anche se a tempo determinato. Ha 23 anni, odia le etichette sociali e ama la fluidità. Sceglie, per esprimere la sua libertà e creatività, la performance artistica

Sentendo il bisogno di ‘fuggire’ dopo un lungo periodo di immobilità personale, ha iniziato una nuova performance che consiste nello switchare, ogni settimana per sei mesi, da casa alla strada in diverse città italiane.

“Ancora sento la necessità di fuggire, ma mi interessa anche vedere come il cambiamento può essere riportato in quella che era la mia quotidianità. – spiega Albi – Passare in continuazione dalla strada a casa proprio per vedere come uno stile di vita possa influenzare l’altro. Cambiare, attraverso questo switch costante, non solo l’io ma anche una sfera più grande. Stare in strada è limitante perché non ho soldi, cibo e coperte, però ho una libertà mentale, in termini di qualità del pensiero, che a casa non trovo. Ogni volta che torno, sento che tutti i miei pensieri negativi -le cosiddette forti emozioni– dovuti anche alla depressione, ritornino molto più vivi, mentre quando sono in strada riesco ad essere più sereno”.  

Per la sua quarta settimana in strada ha scelto Parma, dopo aver fatto tappa a Milano, Torino e Bologna. “La cosa che mi ha messo più in difficolta arrivato a Parma è stata la mancanza di altre persone che vivono in strada. – racconta l’artista – Ci sono, ma rispetto alle altre città, sono decisamente meno. Di solito è un beneficio, perché la probabilità di trovare e ricevere cose è più alta. Però, in così pochi, è uno svantaggio perché non riesci a ‘sparire’ veramente. La strada ti annulla, sparisci sui marciapiedi, sull’asfalto e questo ti dà una libertà ancora maggiore. Ci tenevo a vivere la strada di una città simile a Modena perché è una realtà completamente diversa dalle metropoli e c’è una tranquillità che non è comune. Personalmente non mi fa impazzire, però è interessante vedere come reagiscono le persone che non sono abituate a vedere senzatetto, ancor di più della mia età e con il mio aspetto”. 

Le reazioni, parmigiani compresi, sono sempre un pò di stupore ed incredulità. “A volte mi sento osservato, come se la gente mi volesse dire che non c’entro nulla con la strada e che dovrei essere altrove. Ho avuto l’impressione, giustamente, che le persone mi credano ‘finto’ e sono molto scettiche. Questo forse è un aspetto negativo che è emerso un po’ di più a Parma. In generale, però, credo di avere ricevuto moltissimo.”

Albi riconosce di essere in ‘vantaggio’ rispetto agli altri senzatetto essendo in strada per scelta ma, allo stesso tempo, il gesto stravolge la sua vita: il primo giorno, a Milano, non aveva neanche un sacco a pelo in cui dormire ed ha trascorso tutta la notte su un bus a causa del freddo.

“Non mi è pesato particolarmente rinunciare alla vita agiata. Anzi, tutt’altro. – continua Albi – Ma è stato sicuramente difficile perché in strada ci sono una serie di dinamiche sociali che devi imparare a conoscere e gestire. Con Parma credo che le cose stiano cambiando, forse perché è passato un po’ di tempo. A Milano, Torino, Bologna, ogni volta che ero in strada mi sentivo un ospite, un turista. Arrivavo come una cometa, passavo e me ne andavo. A Parma mi sono sentito sempre più a casa. Immagino che quando tornerò a Modena, probabilmente, mi sentirò estraneo.”

L’idea di vivere in strada terrorizza i più, ma “alla paura ci si abitua, – sostiene Albi – come a qualsiasi cosa. Ne ho avuta molta la settimana prima di partire. Ero terrorizzato, tanto da non riuscire a mangiare e a dormire. Così anche la prima settimana a Milano. Forse anche per la tranquillità di Parma, sento che questo terrore della notte si stia affievolendo. Penso sia questione di abitudine e di preparazione mentale. Anche le esperienze negative possono essere un mezzo per conoscere la paura ed imparare ad affrontarla”. 

“Ho conosciuto anche delle donne senza dimora, ed è sicuramente più pericoloso a causa della loro percezione sociale e culturale: ‘la donna è più debole ed ha bisogno aiuto’. La gente tende ad approfittarsi dei senzatetto e, se l’hanno fatto con me che ho un aspetto maschile, penso sia probabile che le stesse persone lo facciano anche con le femmine. In questo periodo specifico in Italia, non consiglierei questo tipo di esperienza ad una donna perché stiamo attraversando un momento di cambiamento politico e di mentalità. Credo che le strade diventeranno sempre meno sicure e questo vale per entrambi i sessi”.

In Italia, la figura del senzatetto è ancora piena di pregiudizi. ‘Chi è in strada è perché non vuole cercare lavoro, perché è un tossico o un alcolista’. Nessuno considera l’alterità semplicemente come diversità, non necessariamente negativa. “C’è una grande visione stereotipata dei senzatetto. – conferma Albi – Un giorno sono entrato al supermercato ed ero ‘scoglionato’ perché non avevo mangiato nulla. Un volontario dell’Unicef mi ha chiesto che cosa facessi nella vita. Io mi sono girato e ho detto che ero un senzatetto e che cercavo di sopravvivere. Lui ha obiettato che non avevo una faccia da senzatetto. Che faccia dovrebbe avere un senzatetto?, non ha saputo o voluto rispondermi”. 

In ogni caso, chi non è in strada per scelta molto difficilmente riesce ad uscire da questa situazione. “Se provi a bussare ad una porta, poi ad un’altra, se la gente ti tratta male e lo fa anche la polizia, hai buone probabilità di finire a bere tavernello alle 11 di mattina, come è capitato a me. Vivere in strada già ti toglie molto -dignità, sicurezza, privacy- e quindi non ritengo sia errato spendere tre euro per una birra. A me piace bere, è raro che passi una giornata senza bere qualcosa. Mi dà quotidianità ed un senso di normalità, mi fa sentire un po’ meno diverso dalle altre persone. Mentre ci sono io con una birra comprata all’alimentari, di fianco a me, c’è la persona con il Ferrari che beve la stessa birra. Ti dà familiarità. Poi, ovvio, si può sempre sfociare nell’abuso ma credo che ci sia un consumo maggiore di sostanze alcoliche in chi non vive in strada. Eppure queste persone non vengono stereotipate così tanto.”

Tra le tante esperienze vissute per strada, Albi ricorda l’episodio più inaspettato. “Una notte a Milano, verso le 3:00, stavo dormendo sotto il mio solito portico quando mi sono svegliato con un turista chinato su di me, con il suo viso a due centimetri dal mio. Ovviamente mi è preso un colpo! Ha iniziato a farmi domande e a toccarmi. Voleva offrirmi dei soldi in cambio di prestazioni sessuali nel suo albergo a cinque stelle in Piazza Duomo. Ci sono stati momenti di disperazione, di paura, ma niente che abbia mai fermato la mia necessità di continuare. Ce ne sono alcuni in cui mi trovavo a litigare con i senzatetto o con i proprietari di negozi vicino i portici in cui dormivo; altri in cui non sono riuscito a ‘guadagnare’ nulla e non poter quindi mangiare. Un momento di sgomento è stato a Torino, avevo addosso gli stessi vestiti da due settimane. Erano gli stessi che avevo a Milano – quando torno a casa non posso toccare le cose che ho usato in strada – e volevo lavarli. Facevo schifo e cercavo cinque euro. Sono stato tutto il giorno a fare elemosina e non sono riuscito comunque a recuperare i soldi necessari per una lavatrice a gettoni”.

Ci sono stati giorni complessi, ma anche molti, moltissimi momenti belli. C’è molta gente disposta ad aiutare, sia senzatetto che non. I senza dimora mi hanno insegnato la dinamica della strada: come sistemare le cose per dormire, che zone frequentare e non. I momenti più belli sono stati quelli in cui c’è stata interazione umana, non dovuta esclusivamente alla pena“. 

Uno degli istanti più belli li ha vissuti invece a Parma. “Ero seduto sulla statua di Garibaldi, una ragazza si era seduta sul gradino sopra di me. Non ci siamo parlati, eravamo molto vicini però e ci siamo solo scambiati uno sguardo. Quando vede la sua amica si alza per raggiungerla, si gira verso di me e mi augura una buona giornata prima di andarsene. Un momento che mi ha fatto molto piacere nella sua semplicità. Con questi tipi di rapporti, ti senti un po’ meno diverso.”

Ma cos’è arte e chi è artista?

“Non mi definisco un performer e, in realtà, neanche un artista. -racconta Albi – Un mio professore della triennale diceva sempre che artista non ti ci puoi auto-definire, sono le altre persone che ti descrivono come tale nel momento in cui riconoscono il tuo lavoro come opera d’arte. Detto ciò, non credo di essere un artista, ma se qualcuno mi dovesse chiamare così, preferirei che non usasse alcun tipo di etichetta specifica. Niente scultore, pittore, videografo… semplicemente artista. L’arte contemporanea infatti sta diventando sempre più liquida”.  

Albi si è avvicinato alla performance art perché ha un forte interesse per il corpo umano, “mi piace l’idea di utilizzarlo come tela per realizzare l’opera. E poi, mi permette di legarmi al pubblico. Se facessi un dipinto da esporre in un museo, sarebbe difficile vedere come le persone reagirebbero. Al contrario, nella performance art si va quasi ad abbattere la barriera tra artista e spettatore. I ruoli tendono a scambiarsi: il pubblico partecipa in modo attivo alla performance e l’opera d’arte si costruisce insieme. Vorrei che il pubblico interagisse con me il più possibile. Quello che cerco di fare è semplicemente dare uno spunto, un incipit e poi, tutto quello che si costruisce viene, oltre che da me, anche da come reagisce o partecipa il pubblico. In questo modo, quelli che erano spettatori/spettatrici diventano artisti/artiste e io -artista- divento anche spettatore”.  

Al giovane performer piace inoltre la forte influenza di imprevedibilità all’interno del lavoro. “Probabilmente perché va contro la mia natura che tende al controllo di tutto. Il fatto che possano succedere cose che io non posso calcolare dà all’opera stessa un qualcosa di aggiuntivo, nonché punti di vista diversi”. 

Il masochismo artistico

Parlando di imprevedibilità Albi ricorda che una sua performance del 2020, Eleven, “è stata interrotta a metà da mio fratello”.

Eleven è un progetto ideato nel 2019 e realizzato solo un anno dopo, “avevo bisogno di metabolizzarla”. La performance ha avuto luogo l’11 settembre, “il giorno del mio compleanno. Ho fatto una selezione di undici oggetti, ognuno dei quali legato a periodi specifici della mia vita (una foglia, una sigaretta, un rastrello, etc). Ero a torso nudo dietro il tavolo e, ad uno ad uno, li prendevo, li poggiavo sul mio torso e ne incidevo il contorno con una lama mentre cantavo: “Tanti Auguri ad Albi”. Ero lì a canticchiare mentre sanguinavo davanti il pubblico. Alla fine, avrei raccolto tutte quelle lamette e le avrei messe in una scatola chiusa come regalo che avrei lasciato in mezzo al pubblico prima di uscire.”

“È stata interrotta a metà, ma va bene così. Non credo possa esserci una percezione specifica e oggettiva di performance uscita bene o di performance uscita male, soprattutto se c’è un’interazione con il pubblico. Chi fa arte performativa è consapevole che il lavoro potrebbe cambiare completamente in base alle persone che si hanno davanti.” 

Guardando il suo profilo Instagram (@albi.guaraldi), si evince che il corpo e il sangue sono al centro di tutto. In una esibizione ha indossato un guanto di plastica pieno di puntine come ad autoinfliggersi. Ma perché? “Non lego i miei lavori all’autolesionismo e, ovviamente, non è mia intenzione ‘sponsorizzarlo’ né praticarlo. Io l’ho praticato per quattro anni e mezzo, durante il liceo, per difficoltà psicologiche ed emotive che avevo al tempo. Non penso che siano riflesse nelle opere che realizzo oggi ma, venire da una storia di autolesionismo, mi ha dato la possibilità di avere una certa familiarità con il dolore e con il sangue. Storicamente, nell’arte performativa, il cosiddetto autolesionismo -per i critici d’arte, masochismo artistico– è sempre stato presente. Moltissimi artisti tra cui l’Abramovich, Gina Pane e Franko B. continuano a lavorare con il sangue”. 

Albi lo concepisce come vita, rinascita. “Questo è molto chiaro in una mia performance del 2019, Genesi, Regenesis, Regenesis. Si tratta di un video diviso in tre parti in cui il soggetto era solo il mio braccio. Prima lo dipingevo di bianco, poi mi tagliavo e poi lo ridipingevo.”

“Credo siamo troppo poco abituati a vedere il sangue. – commenta l’artista – Cresciamo con la convinzione che non possiamo sanguinare e ci crediamo immortali. Non penso sia così. Non bisogna avere paura del dolore, al contrario, dovrebbe essere sfruttato il più possibile. Secondo me la sofferenza, come la morte, non è un muro che bisogna scavalcare, al contrario, è una porta. Se siamo disposti ad accettarla – ma non ricercarla- darà accesso ad una nuova dimensione che permetterà un effettivo cambiamento della percezione. Almeno per me è stato così”.

Il linguaggio dell’arte

“Penso che l’arte sia un linguaggio che non necessariamente fa uso di parole – racconta Albi – e che non segue determinate regole grammaticali o sintattiche. In generale, le persone che lavorano nel mondo dell’arte fanno fatica ad esprimere determinati concetti, idee e pensieri attraverso la parola e cercano un’altra forma di comunicazione: l’immagine, la pittura, la scultura etc. È chiaro che il concetto di arte è molto più complesso ma, se dovessi semplificarlo al massimo e arrivare al nocciolo, direi che è un linguaggio che ha determinate funzioni, non solo quella di comunicare. C’è anche la componente dell’estetica e della bellezza, che ha un valore sociale molto importante”. 

Per Albi è bello quello che arriva così com’è, non pretende mai che le persone capiscano esattamente quello che si cerca di esprimere attraverso le opere e ama dare al pubblico la possibilità di intendere i suoi lavori senza vincoli o costrizioni. “Un’opera che ti dà la possibilità di essere interpretata in modo libero, è un’opera bella. Al contrario, tutto ciò che diventa troppo didascalico, non è interessante perché limita la creatività ed il pensiero delle persone che lo guardano”.

di Iole Panella

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